Vita di Dante/Libro I/Capitolo IX
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La gente nuova, e i subiti guadagni
Orgogli, e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu gia ten piagni.
INF. XVI.
Sempre la confusion delle persone
Principio fu del mal della cittade,
Come del corpo il cibo che s’appone.
PARAD. XVI.
Già vedemmo che i tempi di Dante furono quelli del trionfo di parte guelfa in Italia; quelli in che tal parte nazionale e popolana, ajutata prima dalle dispute d’imperio che seguiron la morte dell’ultimo Svevo, poi dall’abbandono d’Italia del primo Austriaco, avrebbe forse potuto farsi universale nella Penisola, e confederarla o liberarla. Ma i Guelfi non se ne giovarono, se non per esagerare i propri principii popolani, opprimere gli avversarii, divider sè stessi, ed errare d’ogni maniera; e così venuta la solita stanchezza, non fecero altro che ammontare , frammischiare le rovine proprie sulle rovine altrui, lasciando non più che confuse e mal sode macerie agli edifizii delle future generazioni. Firenze fu il Comune, la città, che stata più prudente, più moderata fin allora, diventò allora più esageratamente guelfa e popolana. E Dante, figlio d’esuli guelfi, nato appunto l’anno primo del trionfo guelfo, fu partecipe sì del
governo guelfo durante il maggior fiore di esso, ma non fu partecipe poi, e fu anzi vittima delle esagerazioni: ondeche questa parte della vita di lui è non solo irreprensibile, ma anzi ammirabile per la maggiore delle virtù politiche, la moderazione.
Nell’anno 1290, che seguì quello delle vittorie di Campaldino e di Caprona, i Fiorentini fecero una nuova scorreria contro Arezzo, fecervi correr il pallio sotto le mura il dì di San Giovanni, e tornarono a casa saccheggiando lei terre Aretine e quelle dei Conti Guidi ghibellini. Poi, nel resto di quell’anno e nel seguente, ajutarono Lucca e Genova contro Pisa, più che mai ghibellina dopo la tragedia d’Ugolino. Ma queste scorrerie degli anni 1290 e 1291 non produssero nulla, e Toscana rimase divisa; Firenze e Siena di parte guelfa, Pisa e Arezzo di parte ghibellina; ma la prima in baldanza delle vittorie, le altre in vergogna delle
sconfitte.
E allora i Fiorentini rivolsero in sè stessi la eretta attività. Allora, finalmente, fu incominciata anche in Firenze quella trista divisione in parti de’nobili e de’ popolani, che
già da più tempo iva guastando parecchie altre città d’Italia. I nobili, cacciati del governo dai Priori dell’Arti, se ne vendicavano con private prepotenze sul popolo minuto. Cosi succede sempre, in guise varie, secondo la varietà de’ tempi, ogni volta che si vuoi negare la potenza legale a coloro che l’han di fatto. Le cose non possono mai rimanere a lungo in ciò, che chi può non sia stimato potere; ed, o si ritorna a restituir ai grandi lor parte di potenza legale, o si progredisce a tór loro quella di fatto, e le prime sono le rivoluzioni popolane che dànno indietro, le seconde quelle che giungono a lor ultimo termine. In Firenze si venne a
questo. Sollevòssi di nuovo il popolo contro ai nobili, oppressi in pubblico ed oppressori in privato. Condotto principalmente da Giano della Bella, grande e potente cittadino, savio, valente e buono huomo, e di buona stirpe"1, ordinò un nuovo governo; od anzi, serbando quello de’ Priori dell’Arti, v’aggiunse a far eseguire i lor comandi un Gonfaloniere di giustizia; "a cui fu dato un gonfalone dell’arme del popolo colla croce rossa in campo bianco, e mille fanti tutti armati, che avessero a esser presti a ogni richiesta del detto Gonfaloniere in piazza o dove bisognasse; e fecesi leggi, che si chiamarono Ordini della giustizia, contro ai potenti che facessero oltraggi ai popolani; e che l’uno consorto fosse tenuto per l’altro2; e che i maleficii si potessero provare per due testimoni di pubblica voce e fama. E deliberarono che qualunque famiglia avesse avuto cavaliere tra loro, tutti s’intendessero essere grandi" (Dante, il cui antenato Cacciaguida era stato cavaliero cencinquant’anni prima, fu dunque de’ grandi); "e che non potessero essere de’ Signori, nè Gonfalonieri di giustizia nè de’ loro Collegi. E ordinarono che i Signori vecchi, con certi a voti, avessero a eleggere i nuovi". Questo dell’anno 12933 fu l’ordinamento definitivo della repubblica guelfa e popolana di Firenze; quello in che perseverò o a che tornò quasi sempre, e che antiquato poi potè considerarsi come la costituzione legale o legittima di lei. E questo fu l’ultimo passo della oppressione de’ grandi, alla quale Machiavello attribuisce l’essersi
Firenze resa incapace di armi, e così di conquiste e ingrandimenti. A tali ordini repressivi obbedivano poi per forza, ma rilottando, i Grandi, a fortemente dolendosi delle leggi, ed agli esecutori di esse dicendo: Uno caval corre da della coda nel viso a un popolano, o in una calca uno darà di petto senza malizia a uno altro, o più fanciulli di piccola età verranno a quistione. Gli huomini gli accuseranno. Debbono però costoro, per cosi piccole cose essere disfatti?(cioè abbattute le loro case, secondo la penalità di quelle leggi4). E nota, che chi così vivamente porta le giuste querele de’ grandi è Dino Compagni, popolano, amico di Giano della Bella, e che stato sovente de’ Priori, disfaceva le case de’ Grandi in coscienza, cosicchè non si potesser rifare, e lagnavasi di chi non faceacome egli. Sarebbe a vedere tutta la vivissima descrizione da lui fatta di tal oppressione popolana, e del dibattersi in essa dei Grandi5. Ma la lasciamo per brevità; e noteremo solamente, che sono reminiscenze di questi sdegni de’Grandi, e cosi di Dante, contro il popolo, e i versi da noi messi in fronte del presente capitolo, ed anzi tutto il canto XVI del Paradiso. Imperciocchè, anche lasciata, come vedremo, la parte de’ Grandi, non mai potè Dante dismetterne la superbia.
Principale, poi, nel dibattersi de’Grandi contro il popolo dovette esser messer Corso, che non vedesi nomato da principio, ma che con una delle sue solite soverchierie fu poi causa od occasione di una nuova rivoluzione, la cacciata dal capopopolo Giano della Bella. Nel gennajo 12956 "avvenne che messer Corso Donati, potente cavaliere, mandò alcuni fanti per fedire messer Simone Galafrone suo consorto, e nella zuffa uno vi fu morto e alcuni fediti. L’accusa si fe da amendue le parti, e però si con venia procedere secondo gli ordini della giustizia in ricevere le pruove e in punire. Il processo venne innanzi al Podestà, chiamato messer Gian di Lucino Lombardo, nobile cavaliere e di gran senno e bontà. E ricevendo il processo un suo giudice, e udendo i testimoni prodotti da amendue le parti, intese erano contro a messer Corso, fece scrivere al notajo per lo contrario; per modo che messer Corso dovea essere assoluto, e messer Simone condannato. Onde il Podestà essendo ingannato, sciolse messer Corso, e condannò messer Simone. I cittadini che intesono il fatto, stimarono l’avesse fatto per pecunia, e che fosse nimico del popolo; e spezialmente gli adversari di messer Corso gridarono a una voce: Muoia il podestà; al fuoco, al fuoco. I primi cominciatori del furore furono Laido della Bella e Baldo dal Borgo, più per malivolenzia aveano a messer Corso, che per pietà dell’offesa giustizia. E tanto crebbe il furore, che il popolo trasse al palagio del Podestà con la stipa per ardergli la porta.
Giano, che era co’ Priori, udendo il grido della gente, disse:Io voglio andare a campare il Podestà delle mani del popolo; e montò a cavallo, credendo che il popolo lo seguisse, e si ritraesse per le sue parole. Ma fu il contrario, che li volsono le lance per abbatterlo del cavallo: il perchè si tornò a dietro. I Priori, per piacere al popolo, scesono col Gonfaloniere in piazza, credendo attutare il furore; e crebbe sì, che eglino arsono la porta del palagio, e rubarono i cavalli e arnesi del Podestà. Fuggissi il Podestà in una casa vicina; la famiglia sua fu presa; gli atti furono stracciati; e chi fu malizioso che avesse suo processo in Corte, andò a stracciarlo: e a ciò procurò a bene uno giudice, che avea nome messer Baldo dell’Ammirato, il quale avea molti adversari, e stava in corte con accuse e con piati; e avendo processi contro, e temendo esser punito, fu tanto scaltrito con suoi seguaci, che egli spezzò gli armari, e stracciò gli atti, per modo che mai non si trovarono. Molti feciono di strane cose in quel furore. Il Podestà e la sua famiglia fu in gran fortuna; il quale avea menata seco la donna, la quale era in Lombardia assai pregiata, e di grande bellezza. La quale col suo marito sentendo le grida del popolo, chiamavano la morte, fuggendo per le case vicine, ove trovarono soccorso, essendo nascosi e celati.
Il dì seguente si raunò il consiglio, e fu deliberato per onore della città, che le cose rubate si rendessono al Podestà, e che del suo salario fusse pagato: e cosi si fe, e partissi7". Anche il Villani reca i medesimi particolari, e v’aggiugne, che "messer Corso, per timore di sua persona, si fuggio di palagio, di tetto in tetto, che allora non era cosi murato"8.
Valsersi, quindi, di siffatta occasione i nemici di Giano, cioè i Grandi, e, come pare, anche i principali popolani nemici di lui, accusandolo d’aver turbato l’ordine della giustizia; e Giano, smagato dal vedersi abbandonare da parte dei suoi, o per debolezza d’animo o per bontà, e non volendo turbar la città, partìssene nel marzo di quell’anno, sperando esser richiamato; e mai noi fu, e morissi in esilio. Dante accenna a lui, alla nobiltà dei Della Bella, e all’essere Giano, ciò non ostante, passato alla parte popolana, nella rassegna delle principali famiglie fiorentine messe in bocca a Cacciaguida :
Ciascun, che Della Bella insegna porta
Del gran Barone, il cui nome e ’l cui pregio
La festa di Tommaso riconforta,
Da esso ebbe milizia e privilegio9;
Avvegna che col popol si rauni
Oggi colui che la fascia col fregio.
PARAD, XVI. 127-132.
Ne’ quali versi è certamente una applicazione a sè stesso, pur nobile, e pur passato, come siamo per vedere, alla parte popolana. Imperciocchè, non tornarono i Grandi in potenza per la caduta di Giano; ed anzi, successe a questo nella potenza popolana uno molto più basso di lui, un tal Peccora, detto dall’arte sua il Beccajo; e successero nuovi contrasti tra Grandi e popolo, e le subdivisioni del popolo grosso e minuto. Le quali pur lasciando, come meno toccanti all’assunto nostro, noteremo solamente ciò che dice il Villani all’anno 1295: che "molti casati che non erano tiranni nè di grande potere si trassono del numero de’ Grandi et misono nel popolo, per iscemare il potere dei Grandi, accrescendo quello del popolo". Dante era appunto di questi casati di nobili o Grandi che non erano tiranni né di gran potere; e, fosse già per inimicizia a messer Corso che certo era de’ tiranni, ovvero per poter aver i carichi della Repubblica, da cui per gli ordini del 93 erano esclusi i Grandi, ad ogni modo, certo è che ei fu di coloro che passarono dal proprio ordine a quello dei popolani, facendosi matricolare nelle Arti. In un registro, che corre dall’anno 1297 al 1300, dell’Arte de’ Medici e Speziali, la sesta dell’Arti maggiori, trovasi matricolato egli, in queste parole: Dante d’Aldighiero degli Aldighieri, poeta fiorentino. Onde si vede quanto vano sia quel cercarsi da alcuni biografi, se Dante fosse veramente medico o speziale; chè, entrato nell’Arte così dal 32° al 35° anno di sua età, non è possibile che il facesse per incominciare così maturo ad esercitarla, nè se ne trova cenno altrove; ma certo fecelo per le ragioni dette, per uno
di quei mezzi termini che si usano ne’ governi liberi a scansar gli effetti d’una legge oppressiva. Certo i reggitori popolani, non che accontentarsi, dovettero dar le mani a tal
artifizio ond’accrescevasi l’ordine loro: e il farsi da molti de’ nobili dovea tórre o scemar almeno la vergogna di tal diserzione dal proprio ordine. E ad ogni modo, Dante fu di questi, e così s’avanzò negli uffizi del reggimento popolano.
L’entrata di Dante ih questi uffizi ci è narrata dal Boccaccio con parole, secondo il solito suo, declamatorie, e troppo diverse dalla perspicuità del Villani o del Compagni. Imperciocchè, dopo quelle generalità da noi recate sui matrimonii de’ filosofanti, ei continua: "Natura generale è delle cose temporali, l’una l’altra tirarsi dirieto. La famigliare cura trasse Dante alla Repubblica; nella quale tanto lo avvilupparono i vani onori che a’ pubblici uffizi congiunti sono, che senza guardare donde s’era partito o e dove andava, quasi al tutto con abbandonate redini al governo di quella si diede. E fugli in ciò tanto la fortuna seconda, che niuna legazione si ascoltava, o a niuna si rispondeva, niuna legge si riformava, a niuna si derogava, niuna pace si faceva, niuna guerra pubblica si prendeva, e, brevemente, niuna deliberazione la quale alcun pondo portasse si pigliava, se egli in ciò non dava la sua sentenza10". Lasciamo stare quest’altro rincrescimento del Boccaccio, che Dante al peccato d’ammogliarsi abbia aggiunto quello di pur darsi a’ pubblici uffizi; e lasciamo le risposte pur prolisse di Leonardo Aretino, che avrebbe potuto contentarsi di questa: "L’uomo è animale civile, anche senza aggiugnere secondo piace a tutti i filosofi11". Peccato è sì, che in mezzo a tutto ciò resti oscuro, se per fastidio della casa, o se tratto, all’incontro, dalla parentela de’ Donati, entrasse Dante negli uffizi; in qual anno dopo il 1293 il facesse; se vi patteggiasse prima co’ Grandi; e quando e come se ne scostasse facendosi matricolare all’Arte de’ Medici e Speziali. Certo, i due passi posti in fronte al presente capitolo, e molti luoghi del Poema, e tutta la vita di Dante, mostrano in lui un modo di pensare poco popolaresco; e i versi recati su Giano della Bella sembrano una scusa, una autorità addotta al passare da’ nobili a’ plebei: e quindi non parmi troppo ardita congettura, credere che egli da principio, e tra il 1293 e il 1297 all’ incirca, fosse co’ Donati e co’ Grandi; ma che negli ultimi anni del secolo poi, per le soverchierie di questi, e principalmente di meser Corso, egli se ne scostasse, e facendosi matricolare, si venisse più e più accostando a’ popolani. Ma oscuri ad ogni modo questi principii, più chiari poi sono alcuni particolari della carriera pubblica di Dante, grazie a un altro biografo, meno elegante ma meno parolajo.
Il Filelfo, posteriore d’oltre a un secolo, ma che scrivendo a Firenze dov’eran carte e tradizioni, perdute poi; parmi autorevolissimo in un fatto cosi pubblico e principale, di che reca molti particolari, dice: che Dante esercitò per la Repubblica sua quattordici ambascerie. Il non trovarsi tal memoria se non in uno de’ biografi, non è ragione di rigettarla; se non si voglia fare il medesimo di tanti fatti che s’ammettono nella storia su una sola autorità. Le ambascerie davansi allora agli uomini litterati, anche non uomini di stato, come il Petrarca e Boccaccio; onde è tanto più probabile che si dessero a Dante, uomo di lettere e a un tempo d’azione negli affari di guerra, nobile esso, ed or congiunto ad una nobilissima e potente famiglia. Nè certo ei dovette giugnere più tardi a’ primi posti della Repubblica, senza essersi acquistato qualche nome negli inferiori, nè di questi è accennato nessun altro. Finalmente, abbiam memorie certe di altre ambascerie esercitate da Dante, e fin nell’esilio suo, e all’ultimo di sua vita in nome de’ signori presso cui erasi rifuggito; nè dovette ciò farsi se non avesse Dante esercitato prima simili uffizi in patria, e non si fosse acquistato nome di buon ambasciadore, o, come diremmo noi, di buon diplomatico. Il fatto sta, che l’uffizio
più sovente esercitato, la specialità, il mestiere, per cosi dire, di Dante, fu appunto il diplomatico. Nè perciò s’immagini taluno le importanze, le eleganze, gli ozi e le lautezze
delle presenti ambascerie; che allora, e molto tempo dopo, non erano a posto fisso gli ambasciadori; e ripatriavano appena terminato il negozio a cui erano spediti; e andavano
e tornavano soli, a cavallo, e con si poca pompa, che sovente era con istenti, come si può vedere due secoli dopo ancora, ne’ dispacci e nelle relazioni del Machiavello.
La maggior prova, poi, della verità di tali ambascerie di Dante sta ne’ particolari dati dal Fiielfo, parecchi de’ quali combaciano co’fatti rammentati nelle storie. Ei le annovera
così:"I° - Ai Sanesi, per li confini che Dante compose a suo talento. II° - Ai Perugini, per certi cittadini sostenuti a Perugia, i quali ei ricondusse seco a Firenze. III° - Alla Repubblica Veneziana, per istringere un’alleanza, ch’egli effettuò come volle. IV° - Al Re di Napoli, con regali, per contrattare amicizia, ch’ei contrasse indelebile. V° - Al Marchese d’Este, nelle sue nozze, dal quale fu anteposto agli altri ambasciadori. VI° - Ai Genovesi, pe’confini, ch’ei compose ottimamente. VII° - Seconda al Re di Napoli, per la liberazione di Vanni Barducci, che il Re era per mandare al supplizio, e che fu liberato per quella egregia
orazione di Dante, la quale incomincia: Nihil est, qua sis, Rex optime, conformior Creatori cunctorum, et regni fui largitori, quam misericordia et pietas, et afflictorum commiseratio eie. VIII°, IX°, X°, XI° - Quattro volte fu oratore a Bonifazio pontefice massimo, e sempre impetrò ciò che volle, fuorchè in quella legazione che non era compiuta quando fu esiliato. XII°,XIII° - Due volte mandato al Re d’Ungheria, ne ottenne ogni cosa. XIV° - Oratore al Re de’ Francesi, ne riportò un eterno vincolo d’amicizia, che pur resta fino al giorno presente. Imperciocchè ei parlava non senza sapore (non insipide] in lingua francese, e dicchi che in questa pur iscrivesse alcuna cosa12".
Ora, da quanto vedemmo, tutte queste ambascerie dovettero essere posteriori al 1293. Una di quelle a papa Bonifazio potè essere nel 1293, subito dopo la cacciata di
Giano della Bella, quando ci è narrato da Dino, che negandosi
la paga a messer Giovanni da Celano capitano di 500
fanti, questi si accostò agli Aretini, e i Fiorentini mandarono
al Papa perchè s’intromettesse; e il Papa così fece, e riamicò loro il capitano, per 20,000 fiorini ch’ essi gli diedero.
Parecchie poi dell’altre ambascerie al Papa, al re di Napoli Carlo II, ed al figliuolo di lui Carlo Martello re di Ungheria, e forse quella al re di Francia Filippo il Bello, poterono
essere per un gran negoziato che occupò mezza Europa, e Firenze principalmente, intorno al medesimo anno 1295. Morto, in questo, Alfonso re di Aragona, s’adoprò papa Bonifazio perchè Filippo il Bello re di Francia desse a suo fratello Carlo di Valois la contea d’Angiò; questi rinunciasse il reame di Aragona, conferitogli già da papa Martino IV, a Giacomo d’Aragona fratello dell’estinto e allor re di Sicilia; e Giacomo, finalmente, rilasciasse la Sicilia a Carlo II Angioino re di Napoli. Che Firenze entrasse in tali trattati, si vede dal capitolo 43 del libro VII del Villani, che è intitolato:Come papa Bonifacio accordò di pace lo re Carlo et Fiorentini con D.Giano d’Aragona re di Cicilia. Nel testo del quale vedesi, poi, che Carlo andò egli stesso a Francia per tutto ciò, e il figliuol suo Carlo Martello venne,
per aspettarne il ritorno, una seconda volta a Firenze, e stettevi venti dì; "et da’ Fiorentini gli fu fatto grandissimo onore, et egli mostrò grande amore a’ Fiorentini, ond’egli ebbe molto la grazia di tutti", potè cosi stringersi vie più, o, se non prima, incominciarsi allora quell’amicizia tra esso e Dante, che ad ogni modo è certa, e non potè esser più tarda, posciache a quest’anno credesi che morisse il re d’ Ungheria. Effettuaronsi poi tutti questi trattati, salvoche Federigo, altro fratello dell’estinto e del presente re d’Aragona, trovandosi allora in Sicilia, e chiamato a Roma per aderirvi, vennevi si, ma accompagnato dai due maggior nemici de’ Francesi, Giovanni da Procida e Roggieri di Loria, e non promise nulla, e tornato nell’isola, se ne fece poi incoronare re alla Pasqua dell’anno seguente 1296.
Che se Dante fu adoprato, come tutto accenna in questi trattati, per la sua città, resterebbe trovata e l’occasione in che dicesi udisse leggere Filosofia allo Studio di Napoli, e quella poi tanto cercata da’ commentatori, in che potè conoscere e pur istringersi di qualche amicizia con re Federigo di Sicilia. E finalmente, se in questa o in altra occasione andò pur Dante ambasciadore a Parigi, resterebbe pur meglio spiegato il suo tornarvi nell’esilio , quasi a paese e a principe già da lui prima conosciuti. E se il dir del Filelfo, che Dante strinse tra Francia e Firenze una alleanza più che secolare, può parere esagerazione, non trovandosi memoria di sì gran fatto negli storici fiorentini; il silenzio di questi non è argomento, essendo nota e già osservata dal Machiavello lor negligenza; e si può credere, che avendo Dante conchiuso con quel re nella detta occasione qualche patto, questo fosse dal Filelfo considerato (non importa se esageratamente o no) come principio della lunga alleanza che fu poi veramente tra quel Regno e quella Repubblica. Ad ogni modo, vera e certa è quell’ultima notizia data a tal proposito dal Filelfo, che Dante seppe e scrisse francese. Già dicemmo scritto in tal lingua, o almeno in provenzale, uno squarcio non breve del Purgatorio; e parte nella medesima, parte in latino, parte in italiano è quella Canzone "Ahi faulx ris, per qui traé haves", aì che trovasi dai più attribuita a Dante, e non rifiutata da altri se non per la insufficientissima ragione, che non par loro degna di Dante. Del quale e di tutti i grandi scrittori troppe numerose opere si rifiuterebbero, se s’ammettesse tal nuova regola di critica, che non ista colle regole troppo più certe della varietà, della debolezza e degli errori d’ogni ingegno umano. Ma entrati per forza nel campo delle congetture, lasciamolo volentieri; e lasciamo le ultime ambascerie al Papa, di che vedremo con più certezza negli anni seguenti.
Intanto, è del dì 8 maggio 1299 una ambasceria, non compresa nelle quattordici del Filelfo, ma che consta da un documento superstite. Esercitòlla Dante appresso al Comune di San Geminiano in nome del Comune di Firenze, e per gli interessi di parte guelfa. Imperciocchè, come vedemmo
farsi stato nello stato dai comuni nell’imperio, e dal popolo ne’ comuni, così pur facevasi da parte guelfa nel popolo fiorentino. Più si studiano questi tempi del medio evo italiano, più si vede che fu loro usanza, lor perdizione, lor peste, questo modo di fare così stato nello stato.
Così in mezzo ed oltre al governo popolare de’ Priori dell’Arti, diventato governo del Comune di Firenze, eravi un governo frammisto, sovrapposto di parte guelfa co’suoi magistrati, e sue entrate, sue deliberazioni, sua potenza. I magistrati chiamavansi Capitani di parte guelfa, ed avevano un suggello, e un tesoro proprio, chiamato il Mobile della parte, prodotto probabilmente dalle confische fatte ai Ghibellini e dalle contribuzioni della Parte. Il Villani attribuisce l’odio acquistatosi da Giano della Bella, e la cacciata di lui, al tentativo ch’ ei fece di recare in comune quel suggello e quel mobile. Nè restrignevasi a Firenze sola, ma estendevasi questo governo della parte pur negli altri Comuni guelfi; e la lega di tutti dicevasi Taglia Guelfa, probabilmente dalla contribuzione o taglia al pro-rata, pagata da
tutti. Ora, scadendo nel 1299 l’ufficio d’uno dei Capitani (che pare fosser due) della Taglia Guelfa, fu mandato Dante forse a tutti o a parecchi de’ Comuni della taglia, certo a
quello di San Geminiano. Dove trovasi che mo Dante degli Allegheri, ambasciadore per parte del
Comune di Firenze, fu introdotto nel consiglio di quel Comune...., e disse che aveva a farsi al presente in certo luogo un parlamento e raziocinazione, secondo il solito costume, per tutte le Comunità della Taglia Toscana, e per la rinnovazione e confermazione d’un nuovo Capitano. Perlocche, e ad effettuazione delle quali cose, conveniva che si raunassero i sindaci ed ambasciadori solenni della predetta Comunità. Segue poi la proposizione d’uno de’ consiglieri e la deliberazione conforme, o riformagione del Comune: che facciasi secondo era solito farsi; ordinando uno o più sindaci, od anche ambasciadori, con mandati sufficienti per convenire al luogo e tempo che sarà richiesto per nuove lettere del Comune di Firenze, con gli altri sindaci e ambasciadori delle altre Comunità della detta società, a parlamentare, e specialmente ad ordinare, riformare e confermare un nuovo capitolo della Taglia; con eccezione, che non possano firmare, nè obbligarsi a nulla, senza dichiarar prima il fatto delle spese al proprio Comune13".
In tutto, vedesi che Dante dopo gli eventi privati ma a lui importanti di sua gioventù, il suo amore, il nome di poeta acquistato, i suoi studi, le sue prime armi, la morte di sua donna e il suo matrimonio, ne’ sett’anni poi che corsero dal 1293 al 1299, datosi più che alle Lettere, alla Repubblica, esercitò uffici e ambascerie non solo del Comune tutto guelfo e popolano, ma pure del governo speciale di parte guelfa; e questo fino all’ultimo dei detti anni, il 1299. E tal governo poi, a malgrado i vizi detti, e tali anni a malgrado le divisioni intestine narrate , furono governo ed anni di splendore ed accrescimento grandissimo in Firenze. Fu accennato in qualche luogo dal Machiavelli, che le parti ne’ governi liberi sono talor principio di forza e grandezza; e se da niun fatto mai, certo è provato da non pochi di questi ultimi sette anni del secolo XIII in Firenze.
Nell’anno 1294, il dì di Santa Croce di maggio, si fondò la grande e stupenda chiesa di Santa Croce14; quella medesima, oltre alla bellezza, cosi illustre per li monumenti de’ tanti grandi Italiani (ultimo Dante fra essi), onde può dirsi il Panteon, il Westminster, o il Walhalla d’Italia. Nel medesimo anno "essendo la città di Firenze in assai tranquillo e buono stato, essendo passate le fortune del popolo, per le novità di Giano della Bella, i Fiorentini s’accordarono di rinnovare la chiesa maggiore di Firenze, la quale era di molto grossa forma, et piccola a comparatione di sì fatta città; et ordinarono di crescerla et di tirarla a dietro, e di farla tutta di marmi et con figure intagliate. Et fondòssi con grande solennità il dì di Santa Maria di settembre per lo legato del papa, cardinale, con più vescovi et prelati ec., nominandola Santa Maria del Fiore". E questo è il Duomo di Firenze, che fu già il più bello, ed è uno de’ più belli della cristianità. Poi, "l’anno 1296, essendo il Comune et popolo di Firenze in assai buono e felice stato, con tutto che i grandi avessono cominciato a contraddire al popolo, il popolo per meglio fortificarsi in contado, et scemare la forza de’ nobili et potenti del contado, et spetialmente quella de’Pazzi e libertini di Val d’Arno, ch’erano Ghibellini, sì ordinarono che nel detto Val d’ Arno di sopra si facessono due nobili terre et castella. L’uno, póselisi nome Castello San Giovanni, l’altro Castel Franco; et francarono tutti li abitanti d’ogni fatione et spesa di Comune per dieci anni ec.; per la qual cosa in picciolo tempo crebbono, et multiplicarono assai, et divennero buone et grosse terre15". Due anni dopo, nel 1298, "si cominciò a fondare il palazzo de’ Priori per lo Comune et popolo di Firenze..... Et colà dove posono il detto palazzo, furono anticamente le case degli Uberti rubelli di Firenze et Ghibellini; et di loro casolari fecero piazza, et comperarono altre case di cittadini, et fondaronvi su il detto palagio et la torre de’ Priori etc". E questo è quello di gran mole ch’or dicesi il Palazzo Vecchio di Firenze. Finalmente, "nel 1299 di novembre, si cominciò a fondare le nuove e terze mura della città nel Prato d’Ogni Santi; e furono a benedire e fondare la prima pietra il vescovo di Firenze et di
Fiesole et di Pistola ec., et muraronsi allora dalla torre sopra alla gora insino alla porta del Prato. Ma per molte avverse novità che furono appresso, stette buon tempo che non vi si murò più innanzi16". E queste sono le mura attuali di Firenze, che ognun vede quanto ampie o non mai arrivate dalle case, non mai empiute di abitatori secondo lor ampiezza; e che appunto cosi dimostrano in quali spiriti, quali speranze, quali ambizioni di grandezza fossero i Fiorentini quando intrapresero sì ampia cerchia. E così, di quella bella Firenze tanto ammirata ai nostri dì, i due templi maggiori, il suo antico palazzo, le sue mura,
ed alcune delle sue castella all’intorno, ebbero tutti origine in quegli ultimi sette anni del secolo XIII. E se i pubblici monumenti non sono indizio sempre di splender nazionale,
potendosi da un governo oppressore farsi a detrimento delle sostanze popolari; se ancora, l’accrescimento di una città può essere a detrimento delle terre all’intorno, e mostrar
più attività nella popolazione che nel governo; quando poi insieme s’accrescano e i monumenti pubblici e le abitazioni private, e dentro e fuori della città, non parmi possa rimaner
dubbia la prosperità, almeno materiale, del governo insieme e del popolo.
Ma a nel detto tempo, essendo la nostra città di Firenze nel maggiore stato et più felice , che mai fosse stata, dapoi ch’ella fue riedificata o prima, sì di grandezza et potenza, et sì di numero di genti, che più di xxx mila cittadini da arme havea nella città, et più di LXX mila
a distrettuali havea in contado, con nobiltà di buona cavallerà et franco popolo, con grandi ricchezze, signoreggiando quasi tutta Toscana; il peccato della ingratitudine, col subsidio dell’inimico della humana generatione, della detta grassezza fece partorire superbia e corruttione: per la quale furono finite le feste et allegrezze de’ Fiorentini, che infine a que’ tempi stavano in molte delizie et morbidezze, et tranquilli et sempre in conviti; che
a ogni anno per kalen di maggio quasi per tutta la città si faceano le brigate, e le compagnie d’huomini et di donne, di solazzi et balli17".
Note
- ↑ Dino Comp., Rer. It., IX, p. 474.
- ↑ Questa tirannia de’ popolani contro i grandi, non fu di Firenze sola. Se ne vuoi un esempio in una delle più microscopiche repubblichette, vedi Cilbrario, St. di Chieri.
- ↑ Dino Compagni, ivi, e G. Vill., p. 343.
- ↑ Dino Comp., Rer. It., IX, p. 375.
- ↑ Dino, pp. 475-477.
- ↑ Vedi per la data G. Vill., lib. VIII, c.8, p. 349.
- ↑ Dino Comp., pp. 477-478.
- ↑ G. Vill., pp. 349-350.
- ↑ I Pulci, Merli, Gangalandi, Giandonali e Della Bella discendevano tutti da Ugo, Barone Tedesco venuto con Ottone III; di cui facevasi un annuo funerale il dì di san Tommaso. Tutte poi queste famiglie portavano la medesima arma od insegna, ma i Della Bella la fasciavano d’oro. (Ed. Minerva.)
- ↑ Boccaccio, Vita di Dante, p. 29.
- ↑ Leon. Ar., p. 52.
- ↑ Pelli, p. 93.
- ↑ Pelli, p. 49.
- ↑ Vill. p. 349.
- ↑ Vill. p. 356.
- ↑ Vill. p. 363.
- ↑ G. Vill., p. 369.