Vita di Dante, Petrarca e Boccaccio/La vita di Dante poeta

La vita di Dante poeta

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Vita di Petrarca

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VITA DANTIS POETÆ




LA VITA DI DANTE POETA



[p. 3 modifica]Dante chiarissimo poeta trasse origine da Roma, secondochè pare, lui volere in alcun luogo indicare; ma ripeteva il principio della sua schiatta da un certo Eliseo della famiglia dei Frangipane, come taluni per inventerata opinione rapportano. Firenze, che fu da molto tempo pria fondata dai militi di Silla, sia da Attila Re degli Unni, sia da Totila Re dei Goti, confuso per la somiglianza di amendue i nomi, è certo che al tutto, o in parte, comunque ciò fosse, sia stata distrutta. La quale l’inclito Carlo Re dei Franchi assai egregiamente avea rifabbricato tre cento anni dopo la sua rovina, se da Attila, dugento se da Totila questa ne venne; e Carlo già godevasi nome di Magno per la grandezza delle sue imprese.

In questo tempo che risorgea Firenze, un certo Eliseo giovane Romano più di ogni altro egregio, si racconta, essersi colà trasferito. Imperciocchè questo romano giovinetto, è incerto, se si fosse portato ad abitare la città rinascente con molti altri Romani coloni, sia fuggendo le moltiplici, e quasi [p. 5 modifica]infinite stragi ai Romani inflitte prima dai Goti, poi dai Vandali, infine dai Goti reiterate; ovvero trasmesso da Carlo Imperador dei Romani, che seguì il loro antico rito; tuttavia di certo si crede per ciò che sta scritto, essere lui stato in Firenze. Dappoichè i Romani già da gran tempo avean sofferto da quei barbari testè rammentati varie, e quasi infinite stragi di ogni genere. E già da guari nuovi coloni spedire soleano, per accasare nuovamente nelle città, ai quali davansi predì a coltivare, e luoghi per abitare; onde queste spedizioni di cittadini, e assegnazioni di campi appellavansi colonie. Del di costui avvicinamento dunque o questa, o quella qualsivoglia causa prendersi io stimo, benchè l’una sembri dell’altra più verisimile, pure vi poterono concorrere entrambe separatamente. Dipoi per lungo volger di anni la razza di questo Eliseo assai propagatasi, si rendette infine troppo numerosa. Appresso intervenne, che, abdicato l’avito suo nome, da Eliseo tra suoi primo abitatore di Firenze, tutti Elisei si cognominassero. Pertanto in questa illustre famiglia degli Elisei, molto dopo per ordine di successione, è fama, un grand’uomo e per ingegno, e per possanza esser nato, detto Cacciaguida, il quale per alcuni suoi gloriosi fatti militari sotto Corrado Imperadore pugnando, decorose insegne di milizia meritatamente riportò. [p. 7 modifica]

Questo adunque nobil Cacciaguida, messi da banda Moronto, ed Eliseo due suoi fratelli, come al nostro proposito strani, sposò una donzella di belle fattezze, e assai robusta, dell’illustre famiglia degli Aldigheri di Ferrara, da cui fatto lieto di molti figliuoli, un di loro, per gratificare a la sua donna, nominò Aldighieri cognome della di costei famiglia, benchè tolta via la d, come non di rado suol farsi per miglior suono, in vece di Aldighieri il chiamasse Alighieri. Le opere di questo tosto furono sí chiare, e tante, che i posteri suoi, come una volta i maggiori preser cognome di Elisei, lasciato quello di Frangipane, cosí al presente in cambio di Elisei, dappertutto Alighieri si addimandano da questo primo, e famoso Alighieri. Fra’ molti, che per lungo tempo da lui si ebbero discendenza, finalmente imperando Federico II, un’altro Alighieri visse, che padre fu di quel Dante, di cui scriviamo.

In tanta, e sí chiara famiglia nacque Dante nel 1265 della cristiana salvezza, vacando l’Impero Romano per la morte del già memorato Federico II; sedendo Clemente IV nel sommo Pontificato. Or taluni dicono, essere in sogno comparso a la madre, poco prima che fosse partorita, uno strano fantasma, che su verdeggiante campo a lato ad una chiara fontana, sembravale farlesi avanti, e quivi sotto altissimo alloro vedevasi un figliuolo venire a luce; il quale delle cadenti [p. 9 modifica]bacche di lauro, come delle acque del limpido fonte assai ben nutrito, si era in breve tempo già fatto pastore, e mentre sforzavasi a raccorre foglie di alloro, parea ch’egli cadesse, e poi in paone converso si vedea levare1. Queste cose, e siffatti bei sogni di preganti donne, massime nei primi parti, esser veri io di leggieri crederei; perciocchè, costa, da ottimi autori essere stato scritto e di Dionisio tiranno de la Sicilia, e del nostro Marone tra poeti preclarissimo, e di alcuni altri infine eccellenti uomini, aver veduto egregie cose le loro pregne madri nelle dolce quiete del sonno. Sembrò a la genitrice di Dionisio già incinta, partorire un satirello: consultati gli Arioli, potentissimo, e chiarissimo dover esser lui, risposero. La madre di Virgilio similmente al puerperio vicina, spuntar vedea un ramo di alloro, che cresciuto, e tramutato in maravigliosa specie di albero, poco dopo il rimirava aggrandito, e di varî pomi, e fiori ricolmo; al dimane poi di Marone sgravossi. Sembrando dunque tali cose, e altre di simil fatta, essere state da ottimi autori scritte, non comprendo alcerto, perchè cotai sogni, quasi nello stesso genere di visioni, intorno al nostro poeta sí chiaro, sí celebrato non sol non abbiamo a cre dere come veri, ma sì bene come effettivi oracoli non reputarli per quel che ne conseguì, special mente a chiaro conoscendosi, esserne stato ciò tramandato da qualche grave osservatore dei fatti, e della vita di lui. In questo sí bel modo nato l’in[p. 11 modifica]fante, e assai lieta fortuna di patrimonio sorridendogli, come se a bella posta fosse stato fatto, con giusto nome, e fauste cose i suoi genitori quasi presaghi dello avvenire il chiamar Dante: e dicono, esser lui stato di ottima indole, pressoché divina. Venuto in età di potere apprendere, ben tosto i primi elementi delle lettere in mirabil guisa apparò per l’eccellenza del suo ingegno, tuttochè, oh meraviglia! ardesse di veementissimo amore di una troppo vaga donzella. In questi suoi amori in vero un che di ammirabile si scorse; e però di qual modo in sí tenera età, e sí presto vi sia caduto, stimai non istrana cosa opportunamente in questo luogo inserire, dovendo tutti narrarne per ordine i fatti de la sua vita, ed avendo di tal cosa in ispezie egli stesso fatta menzione in alcuna parte dei suoi libri.

Era in quel tempo antica costumanza dei cittadini in ogni anno nel dì primo di maggio uomini, e donne in frotta per vichi, e vicinati splendidamente banchettare, insieme raccolti nella casa di alcun dei vicini, e celebrare pomposamente il dì festivo, giusta il costume, colla solennità delle danze, dei canti, e delle sinfonie, infine con ogni sorta di strumenti. Intorno a che un certo nobile cittadino di nome Folco della cospicua prosapia dei Portinari, seguendo l’antico rito di una tal celebrazione, per avventura in quel dì ragunato avea in sua casa moltitudine di uomini, e donne. Fra gli altri poi Alighieri, che padre abbiam detto del [p. 13 modifica]nostro Dante, era intervenuto, come vicino dell’ospite, e seco lui condotto avea il pargoletto figlio di quasi nove anni. Celebrato poscia il solenne convito, e rimosse le mense, Dante in disparte, come è uso di fanciulli, cogli uguali trastullavasi; ed il rimanente della brigata più adulta tratteneasi in ridde, e canti, e suoni.

Nella gran folla dei bamboli, che giuocavano, era per sorte una fanciulletta chiamata Bice figlia dell’ospite, benché Dante soglie in cambio di Bice, con più significamento Beatrice sempre nomarla. Costei in vero era sí generosa, sí venusta, infine sí morigerata, che parea di costumi più eccellenti delle altre uguali, e ancora non avea che otto anni circa, siccome egli stesso in alcun luogo degli scritti suoi chiaramente attesta. Siffatte cose particolarmente il giovinetto d’indole divina di troppo ammirate nella generosa fanciulla, dell’amor di lei tutto a un tratto, incredibile a dirsi l fu vivamente preso, e così incantato, che costai suoi amori penetrarono addentro le sue tenere ossa, internati e impressisi nelle midolle (11). Che anzi fino a tanto vi stettero inerenti, che non solo, vivendo lei, non mai gl’intermise, ma quel che è più ammirevole, dopo l’acerba di lei morte, che nel vigesimo quarto anno dell’età la colse, Sino all’estremo giorno del viver suo sempre gli nutrì, essendo per più anni ancor di più vissuto. Nulladimanco tale e tanto amore fu scambievolmente sí onesto, che non mai prese tra loro alcun aspetto di turpitudine. Travagliato dunque da sí violenta [p. 15 modifica]passione il fanciullo più di ogni altro egregio, e dedito tuttavia allo studio delle lettere, in mirabil guisa, come testè abbiam detto, i primi elementi ne apparò. Dipoi sul finir della puerizia, morto già il padre, applicossi alle arti degne di un libero, e però dette liberali, per consiglio de’ congiunti, e particolarmente di Brunetto Latini, uomo in allora eruditissimo; in ognuna delle quali di certo, è incredibile, quanto in breve tempo progredito; giacché a la dialettica, ed a la Retorica mirabilmente congiunse profonda conoscenza di tutt’i mattematici. Indi fatto giovane, più che ad ogni altro, sia addiede a la poesia, e tanto valore ben tosto acquistonne, che di un subito famigliari gli divennero quante cose i nostri poeti scrissero, di che forse più opportunamente diremmo in appresso. E tutti questi studi delle belle arti in Firenze coltivò negli anni ancora teneri; ai quali benché dedito a tutta possa, non però mica trasandata altri doveri pertinenti ad un uom libero. Dopoichè conversava con gli uguali, e tutti gli offici propri dell’età sua eseguiva; intantochè in quel memorabile conflitto, che felicemente sostennero i Fiorentini contro gli Aretini in un dei loro campi, detto Capaldino dagli abitanti, non ricusò battersi per la patria nella prima schiera, com’ei in una sua pistola accuratamente scrive, disegnando la forma di quel combattimento. In questa terribile avvisaglia portò gravissimo pericolo; perciocchè dubito fu per qual[p. 17 modifica]che tempo il combattere, incerta la vittoria (111). Gli Aretini cavalieri frementi in vero nel primo empito contro le schiere equestri dei Fiorentini, a tal segno gli rincalzarono, che astretti a indietreggiare, si rafforzarono poi tutt’in un corpo coi pedoni. E questa unione colla fanteria non solo immegliò pei Fiorentini l’aspetto de la pugna, ma bensì fe' rimaner vinti gli Aretini, che di fuga inseguivano i nostri, dietro lisciata per gran distanza la loro padestre schiera; perlocchè indarno cercando subito a quella riunirsi, in niun conto più poterono superare. Di tal maniera i nostri come trionfanti tornarono in patria, proclamando vittoria su' nemici sbarattati e rotti.

Frattanto la pulzella, che Dante unicamente amava da prematura morte vien rapita; ed egli di florida età, è inesprimibile, quanto se ne fosse accorato; perciocché lungamente, e spesso in lacrime ruppe, in urli, in lamenti, e sospiri, più che ad uomo, che sì grande esser dovea, sembrasse dicevole; e si racconta, essersi tanto scosso per veemenza di dolore, che in quei giorni di lutto poco abbia mangiato, e poco anche dormito. Indi fatto scarno, malsano addiveniva; perocché in niun conto avean giovato l'esortazioni, ed i conforti degli amici, e dei consanguinei, che anzi vieppiù ne prendea motivo di attristarsene. Per molti mesi dunque sempre più acremente travagliato il suo cuore, non andò guari finalmente, che più docile cominciò ad aprir gli orecchi a’ confòrti [p. 19 modifica]degli amici, e fe» parenti, 1 quali esortavamo a le*

nire un sa acerbo dolore. Ma i congiunti premurosi, Siccome coti veni va, della salute di liii, prega van lo à vive istanze, che moglie si togliesse, essendone opportuno il tempo ,< e giudicandolo come unico rimedio all' amaro sua cordoglio ; ai quali lunga petza avendo riluttato , dalle loro preghiere vinto alfine, non molto dopo, compiuto già il quinto lustro, moglie si prese ; nè tuttavia ciò , per cui fatto avealo, potè conseguire; nella qual cosa alcerto sembra, essergli stala avversa fortuna, che tutto può. Dapoichè ebbe moglie della chiarissima famiglia dei Donati, chiamala Gemma, troppo dispettosa, siccome leggiamo di Xanlippa moglie di Socrate filosofo CirJ. Per la qual cosa all'angustia dei suoi fallili amori l'altra non men molesta di una im- portuna moglie erasi congiunta; acanto fu alieno, che glien tornasse solazio , e cofiforto, che anzi per c^gion di colai donna assai più visse doglioso, e tristo. Sforza vasi invero, tollerare al di dentro i pravi di lei costumi, per non esporsi fuori a le insolenze di temerarie pettegole. Dicesi pertanto a la lunga aver lui durato i» siffatto modo la osti- nata indiscretezza della moglie; ma stanco a fa fi- ne di più comportarla, avuti da lei molti figliuoli, così al lo mancasene, che quasi per fatto divorzio neppur ..abbia in avvenire volentieri sofferto l' in- contro di lei.

Toltasi dunque moglie nel modo succennato, ed avutone figliuoli, la nuova- cura del sostentamento [p. 21 modifica]de 1* iamgfo» «oom’è conwttnfa, spineto ad ingerirsi negli sfibri dtlla Repubblica. A questa in vero» Tanno quasi trentesimo dell’età sua volgendo, dolila eoo ardenza, cosà di por tossi, che non molto dopo per le singoiavi sue virtù, a comune consentimento, di cittadino sommo Tenne in fama. Indi a poco con grande onore gravi impieghi di città sostarne, e decorose magistrature; dapoiebè osate si rivolse al governo della Republica» tosto per le sue ammirabili virtù non immeritevolmente fu assunto, e scelto al sommo magistrato della città, volgarmente detto Priorato, in tempo che i magistrati, giusta l’antico costume dei Romani, creavansi per elezione a voti, non per aorte oome di presente A questo supremo grado di dignità, costa, essere stalo lui trascelto nel i3oo della cristiana salvezza. Pertanto se nel x365 dell’Era volgare ei nacque, e nel i3oo fu crealo dei Priori, è chiaro, essere stato a tal dignità assunto nell’anno trentesimo quinto dell’età sua. Non potendo adunque in questo suo magistrato alcun grave disdoro de la città tollerare, avvenne, che taluni egregi, e notili cittadini in quel tempo fossero, lui precipuamente adoperandosi, da la città scacciati. E perchè la cosa venga meglio a chiarirsi, le cause di ootal: relegazione siu da la prima origine ripeteremo.

Da molto pria dì questa epoca di’ relegazione erano cominciate in Fiorenza due fazioni, una de le [p. 23 modifica]quali volgarmente chiamavasi dei Guelfi, l’altra dei Ghibellini, che variamente, e scambievolmente contrastando, assai più si vedea prevalere il partito dei Guelfi, relegati in parte gli avversarj, e gittati in calamità quei, che vi rimanevano. Nulladimeno in questi stessi tempi, in cui siffattamente i Guelfi signoreggiavano, altra fazione, oltre le due poco anzi rammemorate, derivando da Pistoja, al tempo stesso del Priorato, nel seguente modo surse in Firenze. Era in Pisioja una certa razza più di ogni altra eccellente, e nobile in vero, detta comunemente dei Cancellieri dall’autor medesimo della schiatta; i componenti questa famiglia, insorte dapprima discordie tra loro, in parti si scissero. Indi a poco provocandosi a vicenda con grande nimistà d’ambi i lati, si venne finalmente alla effusion di sangue civile. Dacchè tutta Pistoja in due si divise, questi Bianchi, quelli Neri con nomi affatto nuovi, come suole accadere, volgarmente ai chiamavano. Peraltro i Fiorentini ciò vedendo, e a mal grado sopportando, che sí bella, e sí vicina città per le civili dissensioni soltanto, fosse fuor di dubbio in pericolo della strema sua ruina, presane cura, i capi faziosi ammonirono in quella, ed avvicinatigli, a Firenze gli condussero. Alcerto questo conducimento dei Pistojesi cominciò dapprima a corrompere Firenze; poco dopo a guisa di contagio quasi l’intera città infettò; poichè alcuni coi Bianchi, altri, che bisogno di parole a provarlo? parteggiavan coi Neri. In fine [p. 25 modifica]dalla sola fazione de’ Guelfi due ne sorgono apertamente in Fiorenza; cui però agognava sedare l’inclito nostro poeta in vero ottimo cittadino; chè se cotali dissensioni un po’ più per le lunghe fossero andate, assai ne temeva la rovina de la città. Ciò ripetutamente invano tentando, statuì per lo avvenire tenersi da tutti gli uffizii della Repubblica, e seco medesimo passar vita in ozio; il che poscia non fece vinto e da la bramosia di gloria, di che naturalmente era avido, e dal favor popolesco. Innoltre i consigli, e le preghiere degli amici lo svolsero, dal proposito di lasciare il governo de la Repubblica, che apertamente sostenevano, poter lui più di leggieri al trambusto de le civili discordie ovviare da uom pubblico, che non se da privalo vivesse. Quindi non abbandonata la cosa pubblica, consentì in fine a quella parte, che più di onestà sembravagli sarebbe per avere; perchè non esitò mica a’ Bianchi collegarsi(VI). In maniera sí perniciosa il morbo delle civili discordie per quasi tutta la città si estese, che famiglia alquanto illustre non fuvvi, la quale abbia potuto da tale infezione schermirsi. Per la qual cosa intimoriti i capi del partito Guelfo, che, per si ostinate difese dei suoi la Gibellina fazione nuova lena non riprendesse nella città, ricorsero a Bonifazio VIII sommo Pontefice, piamente scongiurandolo che ovviasse per Apostolica autorità a questo futuro, o piuttosto quasi nascente danno. Il che invano tentato avendo il Pontefice, ne seguirono poi più [p. 27 modifica]ì *7

gravi contese; e latito si erano già accalorale, che più di so venie venivasi a le anni. £ quella parte di cittadini, che cbiamavansi Neri, vedendo gli avversari!

assai più potenti nel governo de la Repubblica , non potevano in buona pace il )oro ascendente sofferire; che anzi si doleano per ciò, che dal contrario parlilo scegliessero il più delle volte tuil’i magistrali della città. Di che sovente querelandosi tra loro, finalmente a consiglio sì ragunarono nel tempio della Trinità; dove molte cose variamente di quà, e di là discusse, siccome spesso suole intervenire nelle pubbliche adunanze»

in line al lima deci sto n-d*! consiglio si fu, di doversi prescolare al Pontefice, per chie4ergli, che fossesi degnato un qualche principe di regale stirpe spedire, per dirimere le civili discordie, e comporre a pace la città. Un tal consiglio, i priori come seppero, ch’era stalo privatamenie lenuio ii*~ torno alla Repubblica, da quegli nomini di avversa fazione che avevano di subito impugnato tu armi, gravemente «il soffrirono. Dante, il qualé era tra Priori più degli altri siffatta rag una La, ed il consiglio di chiamar qualche principe nella città mal comportando, siccome mollo valea per ingegno ed eloquenza, a’ col leghi persuase che animo riprendessero, e la libertà cittadina coraggiosamente difendessero; e gli autori di un lai fatale con.siglio , parendogli che per la loro presenza sempre si turbasse la civile libertà, pria di mito cacciasse!’ via dalla patria. Questo pelò fàcilmente per \ [p. 29 modifica]guade, che tutti conoscere i suoi voleri, ed eseguirli ansiosamente aspettavano.

Così gli autori di siffatto consiglio uomini ragguardevoli peraltro, e principalmente Messer Corso Donati personaggio illustre dell’1 ordine equestre, e Geii Spini, e Giacchinotto dei Pazzi, e Rosso Tosa, e taluni altri capi dei Neri da la città scacciarono, e punirono di esiKo; e siccome soventi volte, ha soluto accadere nelle tumultuose dissensioni dei cittadini, non solo i detti capi dei Neri, ma si bene alcuni principi dèi Bianchi furono sbandeggiati* Conciossiachè e Messer Gentile, e Torrigiano uomini dell’Ordinè cavalleresco, e Guido Cavalcanti, e Baschi era de la Tosa, e Baldinaccio Adi mari insiem con esso loro esuli n* andarono. Indi a poco non avendo modo le dissensioni, l’istesso Dame sì come oratore de la concordia venne spedi Lo al sommo Pontefice Bonifazio. Pertanto in questo sLesso tempo* de la sua legazione.

Corso Donati era già reduce a Fiorenza; Onde non guari dopo il di costui ritorno, Dante medesimo, che quasi per se solo, come abbiam qui sopra detto , aveagli cagionato la relegazione, variamente mutando le cose la instabil fortuna, insiem con alcuni altri illustri cittadini in bando è messo per l’invidia, che si avea per Ja dignità di Priore attirato (rit). Dapoichè richiamandosi dall’esilio Ì capi già detti del partito dei Bianchi, cacciati via i Neri, una tal parzialità tra cittadini troppo di mala voglia Bonifazio Pontefice sofferse. Mosso dun[p. 31 modifica]que da tate indegnazione, un certo Carlo de* Reali di Francia mandò in Fiorenza; il qudle si per venerazione de) sommo Pontefice, che per riverenza del nome Francese benignamente nella città accolto , assai non lasciò scorrere di tempo, che rivocò dallo esilio i Neri; ed i Bianchi mandò fuori della città per una certa relazione di Messer Pietro Ferranti suo barone; giacché qnesti asseriva, tre dei Bianchi aver da lui a viva istanza richiesto, che si con Carlo adoperasse, da far che la loro parte rimanesse superiore nella città; se ciò facesse, diceva, aver essi promesso di consegnare Prato ffrilIJ *D lui po.tere. Le lèttere di siffatta postulazione ei mostrava munite dei suggelli dei pretensori, le quali con alcune altre pubbliche scritte ancor di presente nel Palagio si osservano. In questa relegazion dei Bianchi, Dante, comecché fosse stato spedito ambasciadore al som pio Pontefice per la civile concordia, pure per gì’ infausti comizi!

del suo priorato, siccome egli stesso in alcun luogo narra, di esilio fu dannato per iniquisaissima legge, colla quale si prescrivea, che il Pretore urbano i falli nel Priorato innanzi commessi, contuttoché preceduta ne fosse assoluzione, fòsse tenuto prenderne conoscenza, e punirli* Per co tal legge dunque Dante citato., e non comparso, ad esilio, e proscrizione iniquamente vieii condannato fix). Perchè la plebe istessa ansiosa di novità pochi dì appresso corse alle, case de’ testé relegati con animo di porle a sacco. Quindi le loro abi[p. 33 modifica]tazioui dentro città lasciò vóte quasi del tutto; i predi devastò; ed il rimanente dei loro beni fu* rono o incorporati all’Erario, o dati in preda a’ vincitori*

Ma fosse, che tu Patria Firenze un si atroce delitto non avessi commesso; perpetua Unente non avrestì meritato al certo tanta, e sì grave marca d’ignominia 1 Questo esigi io in vero del tuo poeta, che si vituperevole rende il nome tuo, non posso per quanto mi vaglia, anche al presente di quieto animo tollerare. Se pertanto in questo non mi è possibile più lungamente intertenermi, senza che al par di lui con veemenza sclami w Perdona, ti pre* go, o madre Fiorenza 1, 0 stolte menti degli uomini 1 o indegne contese de’ cittadini 1 o ingiusti procedimenti dei mortali 1 Che ne speravi tu patria Firenze, cacciato in bando un tanto singoiar poeta, un insigne tuo cittadino di te si benemerito?

Crederei, saresti a dirmi, se interloquir potessi, e onoranza, e gloria. Or vedi, e attentamente considera, comechè l’attuai tua considerazione niente possa giovare, perchè il tuo nome uu tempo glorioso, quasi per ogni dove non sembri disonorato; rifletti, io dico, quantunque questo tuo nobil pensiero vano affatto tornerà, tanto è lungi che gloria a te uè provvenga dall’esilio del tuo poeta, che anzi sembri essere obbietto di grande ignominia appo tutte le nazioni del mondo non a torto divenuta. Ma forse opporrai, esser soliti gì’ impegni dei civili partiti questi, e simigliami del il[p. 35 modifica]ti produrre; i) che dirollo a tua buona pace, non istimo esser vero in quanto che riguardi questo esilio. Perciocobè non mi ricordo aver letto dannato di perenne esilio un generoso cittadino, e sommo poeta, e benemerito de la patria nè presso le incivilite, nè presso le barbare nazioni; che anzi le eulte, e le selvagge i loro vati non sol dalla patria non scacciavano, ma in sommo onore tenevangli; e si avea in tanto pregio presso tutti il santo e venerando nome di poeta, che spesse fiate concede vasi la cittadinanza a’ peregrini poeti esteri viventi, e poi morti dell’onore de la città condecoravansi. Gonciossiaciiè, siccome narra Cicerone in quella orazione, che a favor di Àrchia poeta disse, i Colofonj vogliono Omero qud loro cittadino: quei di Scio lo vantan come proprio; i Salamini, e gli Smirnei il vogliono a sè, che però un tempio gli sacrarono nella città; parecchi altri ne altercano, e tra loro sei contendono; ciò che anche greci carmi di un certo antico poeta apertamente attestano, dicendo che queste sette cospicue città Elleniche, quali sono Samo, Smirne, Chio, Colofone, Pilo, Argo, e Atene, lunga pezza circa la Origine di Omero tra loro disputarono:

in che alcerto colai popoli de la Grecia meglio assai, del loro Platone, il dirò con pace di un tanto filosofo, opinarouo. Questi nella politica, che compose, è di avviso, doversi espellere da la città i poeti e viventi, e compatrioti; queglino per opposito doversi decorare della cittadinanza e mor[p. 37 modifica]ti, e stranieri a maggior senno giudicarono. Ma queste cose son dei Greci, dirà taluno: cheI forse i Romani tuoi precessori, dopoché fiorirono in ogni genere di dottrine, non accordarono la cittadinanza ad Archia Antiocheno, a prò di citi sta scritta elegante orazion di Cicerone, per ciò solo che quegli era sommo poeta? E come io credo, moltissimi altri valorosi poeti stranieri similmente condecorarono. Che, se le il lustri città de la Grecia quasi tutte Omero quantunque alieno, perchè era poeta, anche dopo sua morte, a tanta forza richiesero, che acremente tra loro dibatterono per averselo

anche i Romani si ebbero a gran pregio noverare tra loro cittadini vati forestieri. E come rmai tu patria Firenze questo tuo si egregio, si valoroso poeta, che tanto per vetustà di origine, per singoiar carità verso di te ti apparteneva, potesti così repudiare, da punirlo di perpetuo ba*ido? Ma basti fin qui; ora massimamente, che nulla di utilità puossene ritrarre, perché tenuta non fossi in disonore per si nefando esigi io del tuo poeta. Queste ragioni forse in quel tempo Sciagurato dell’esilio sarèbbero state utilissime, affinchè Y innocente a gran disdoro del nome Fiorentino non si fosse cacciato in bando’. Del resto impossibile essendo non fare le cose già fatte, almeno ciò eh* è in te, io qual tuo cittadino ti prego, e scongiuro che vogli farerichiama a la fine dall’esilio le sacre ossa del tuo poeta dove, molti anni anco dopo che fu esiliato vivendo, non mai lo volesti con eccesso di perii[p. 39 modifica]nacia rivogare. Il che, se avrai fatto, non solo in parte ti torrai fi’ infamia; ma bensì troppo di glorio , e di onore per colai revocazione de le sacre ceneri sicuramente conseguirai. Ma se tutto questo forse dubiti non potere acquistare, per Termo alnien te ne verrà, che non mai ti si possa meritamente rimprtcciare intorno al tuo gran vate ciò, che Scipione Africano indegnamente di esilio dannato, dicesi, aver di ragione contrapposto a’ Romani.

Da poiché quantunque fatto avesse molte segnalate imprese a prò della Romana Repubblica, e lo stesso Annibale pria vincitor dei Romani a nuggior vanto superato avesse, e distrutta in fine Girtagine emula dell’Impero Romano, già al suo dominio gloriosamente aggiogata; pure messo iniquamente in bando per invidia di tanti suoi magnanimi fatti, la quale è indivisibil compagna delle più distinte virtù, nell’estrema dì della sua vita, raccontasi, con grave disdegno aver siffatte parole profferito.» Ingrata patria non avrai le mie ossa» e quel che segue. Or là torniamo, poiché pare, le nostre parti officiose verso di te aver già compiute, d* Onde abbiam preso le mosse.

Il famoso poeta dunque, oh indegna scelleragginel comechè a Roma in nome del popolo Fimili no, per apportar la civile concordia, al sommo Pontefice- fosse spedito, pare di esilio è iniquimente dannato. Perchè partendosi da lì, pi-e.se" per alla volta di Siena. Quivi de la sua sciagura fatto consapevole, vedendo dopo più anni, tutte le ve´ [p. 41 modifica]q) sao ritorno in patria precluse, statuì agli altri esuli col legarsi. Pertanto tutti gli usciti congregati in Gargonza, fermarono lor sede in Arezzo.

Quivi crearono lor capitano Alessandro Conte di Ropiena, e dodici consiglieri preposero al maneggio degli affari, fra’ quali fu Dante annoverato; così la loro speranza di tornare a le patrie mura sempre più alimentavano; fintantoché raccolto gran numero di complici, il ritorno a tutto sforzo ne tentassero. Adunata una ingente moltitudine non sol di esuli, ma bensì di amici e da Bologna, 7 e da Pistoja, di repente assalgono la città mal preparata; sicché presa animosamente una de leporte, entrarono improvvisi nella medesima; ma superati finalmente, l’oste non salutato, come é uso di dire, dandosi a le gambe, recedettero. Dante per colali vani sforzi degli esuli perduta la speranza della sua tornata, da Arezzo mosse per Verona

dove troppo cortesemente da Alberto.de la Scala Principe Veronese accolto, e dimoratovi alcun tempo, determinò altra via tentare pel suo ritorno in patria. A late scopo dolcemente diportandosi verso il popolo Fireniino, cercava, per ispontanea rivocazione di chi reggeva, potervi tornare.

Perché in tal proposito durando-, molte lettere e a privati cittadini, e al popolo scrisse: co* ai comincia quella al popolo indiritta» Popol mio che mai ti ho fatto? e ciò che segue. Dappoi tenne verso Bologna, ove tuttoché poco fosse dirno[p. 43 modifica]rato, pare studiò filosofia fxj. Io seguito si partì per Padova. Di nuovo poi tornato a Verona, per le molti pi i ci cure dell’esilio da varii pensieri era fortemente travagliato. E poiché fecesi accorto , dii ogni lato venirgli tronca la speranza del ritorno, che sempre più svaniva, rimettersi in grazia coi libri, al dir di Tullio, deliberò; ai quali molti anni prima a cagion del governo della Repubblica, poi delle civili discordie, in fine par le traversie dello esilio, avea già diuturna guerra intimato.

Perchè l’Etruria, e tutta Italia abbandonata a sola cagione degli studii, portossi a Parigi.

In quella certamente per comuue consentimento, p’rù che in qualunque altra parte dell’Orbe, riguarda vansi come più celebri gli studii delle divine ed umane cose. Quivi messo da banda tutto altro, assidua, ed infàtigabile opera diede agli studii delle divine e naturali scienze, nelle quali tan»

to progredì a buon succea&o, che in ispessissi me dispute sulle cose predette,* secondo l’usanza della città, soventi volte per uiìa ni me applauso vantaggiò e grandi Filosofi, e rinomati Teologi. Mentre intanto a siffatti studii di umanità quieto, e sicurissimo vivea dedito, ecco, che un nuovo pensamento, siccome è proprio de la nostra frale instabil natura, vennegli in mente, che troppo importunamente quei suoi tranquilli e divini studii sturbò, e confuse. Imperciocché Arrigo scelto di recente, e legittimamente allo Impero, ed Augusto Imperadore per universa! consentimento dei popoli chia* [p. 45 modifica]mato, dilungossi da la Germania, per venire nql1* Italia con infesto esercito, il quale, tostochè Dan* te fu consapevole, esser già arrivato, ed aver Brescia, non piccola città della Francia Citeriore, assediato con ingente mano di armati cavalieri, e £tnti, stimando questo come tempo ai suo ritorno propizio, decise ricalcar la via d’Italia. Laonde insiem con molti de’ Guelfi, e dei Neri infesti nemici trapassate le Alpi, tutti si sforzavano, d’ogni modo persuader ad Arrigo, che intralasciato l’assedio di Brescia, col suo poderoso esercito contro Fiorenza marciasse. Ciò di leggieri potere ottenere lusingavansi: imperochè Arrigo, sin dal principio della sua elezione, avea spedito ambasciadori in quella, per rendere avvertiti i Fiorentini de la sua venata in Italiane per chiedere,, ci te nella loro città gli preparassero alloggia nienti, e cessassiro della guerra* ce.in allora, per avventura contro gli Aretini jgjiovvano. Quest’ambasceria, ben-* chè assai benignamente fosse in. pubblico vudita, siccome da loro chiesto, pure in quanto a. le dimande venne spregiata, -e negletta. In questo tempo memore di ..un. tal fatto Arrigopropose di consentire a le molle persuasioni degli esuli Fiorentini. Il perchè tralasciato adatto, l’assedio di Brescia, fe’ mossa per Firenze. Viaggiando dunque per la Liguria, e valigando il Tirreno con trenta galee giunse a Pisa; e poscia a la volta di Roma indirizzossi, per coronarsi Imperadorè.

Ma per le moltiplici dissensioni de la Re[p. 47 modifica]pubblica non essendogli facile andar per la dirit- ta, dimorò alquanto in Viterbo* e poi movendo per Roma, finalmente entrovvi. Quivi, tuttocchè spessi attacchi furonvi cogli avversi allo Imperiai nome, infine, costoro vigorosamente riluttando, prese la corona dell’Impero. Nella quale incoronazione al certo più di ogni altro l’inclito Roberto Re de la Sicilia, ed i Fiorentini troppo gli era- no siati contrari. Pertanto la Imperiai corona in tal guisa assunta, cotanta repugnnnza degli avversa- rli sopportar non potendo, poco dopo andossene a Tivoli. Era l’animo dell’Imperatore fortemen- te aspreggiato contro i suoi nemici pugli ostacoli oppostigli in Roma. Ma principalmente di sde- gno ribolliva contro Roberto Re de la Sicilia, e i Firentini primarii, e forti suoi oppositori.

Or di Roberto non potendo incontanente ricattarsi, volto a’ Fiorentini, e canini in facendo per la Sabina, e l’Umbria passò in Etrnria; ed attraversato l’agro Perugino, il Cortonese, e l’Aretino giunse a Fiorenza. E posti gli accampamenti presso al tempio Sai viano, non lungi da la città più di trecento passi circa, con infestissimo eser- cito assediolla. Tutti gli.esuli Fiorentini adunque da ognidove traevano, per unirsi a lui si presso accam- pato alla città. Però Dante ancora ebbro di speranza non pfl|6 tenersi di scrivere contumeliosa lettera ai Fiorentini suoi intrinseci, com* ei gli chiama, per la quale aspramente gì’incalza; men- tre per l’innanzi tra solito di loro onorevolmente´ [p. 49 modifica]paftafè fot), Iiì Quésto assedio di Firenze Arrigo più dì perdurando, spesso coi Fiorentini veniva a le armi. Ma siccome da loro per frequenti avvisaglie provocati con altrettanta forza si resisteva, niente operato die sia degno di memoria, statuì tornarsi di nuovo in Roma- Ma in questo suo viàggio andando a Buon con vento castello de* Senesi , quivi morì. Pertanto gli esuli, che il seguivano vivente, perduta ogni speranza della tornata in patria per la morte di lui, andavano ideando Vari progetti con mente filosofica, per istahilirsi altrove. Dante sorpassati gli Appennini, iricaminossi per la via Flaminia. In quel tempo per avventura Guido Novello presedeva in Ravenna, città vetusta più di tutte le altre in quella Provincia, uomo assai più di ogni altro principe, in ogni genere di dottrina erudito. Questi per una certa benignità verso i dotti, soleva gli uomini di lettere sommamente proteggere, e rispettare. Tostochè dunque Novello seppe, andare per la via Flaminia un si illustre poeta, la cui fama nell’Italia non solo, ma quasi nell’universo tutto gloriosa risuonava, stabilì invitarlo di mauiera benevola, e amica, a voler vivere familiarmente secolui in Ravenna. Perchè il fece avvertito con. messi, e per lettere di questo suo veemente desiderio, a viva istanza pregandolo, che non essendogli dato di rimpatriare, non si negasse a menar vita secolui domestica j e ciò [p. 51 modifica]per impetrare facilmente,-più che aurei monti, sic* come dice un Attore in* Terenzio (xuj prometta vagli. Queste cose come prima Dante ebbe conosciute, ammirata la magnanimità di quel gran personaggio, prestamente tramutossi a Ravenna, per. secondare al più presto possibile uii principe si de* gno, e, rotta ogni speranza di rivedere la patria; mai sempre vivere familiarmente seco lui. Per questa guisa dunque da Novel benignamente accolto, jn Ravenna ei diinorò molti anqi, finché poi gran* se allo estremo dei giorni suoi; poiché costa, -in Ravenna lui esser morto. Nel qual luogo, e tempo di nuovo coi libri in amisià tornando, parte col leggere, parte coli’istruire, e col tramandarti iti iscritto i suoi pensamenti, ritenendo sempre alfa-, ninao gli stadii di umanità, benché per le tànté svariate vicende de’ tempi intermessi, con gran di-’ ligenza, ed in guisa sorprendente gli esercitò sino alla fine di sua vita. Che se il divino poeta studi»

più pacati e securi, non procellosi e fluttuanti avesse fatto, quale, e quanto più eccellente sarebbe divenuto, possi a m per sola cogiiettura supporlo;’ apparendo certfìnifente da’più celebri suoi scritti più1 chiaro de la luce, essèr lui, benché così distolto da tante cure, e grandi bisogne, al colmo di ogni dottrina pervenuto (xiti)* In Ravenna dunque, come sopra abbiam détto, dimorato molti annf del rimanente di sita vita, taluni nobili di lodato ingegno si bene istruì net materno favellare, che alcuni volgari tra loro, come dicesi tioo quai poe[p. 53 modifica]ti volgari «1 debbano tenere. Questa, maniera di poetare in patria lingua il nostro poeta il primo tra gì* italiani, pochi anni avanti inventata, non altrimenti nobilitò per consenso quasi universale, che Omero in greco presso i Greci, o Virgilio in .latino presso i Latinir ed ogni akro un tempo la sua-appo i suoi abbia illustrato. Perciocché egli il primo per questa sua poesia assai ingentilito l’idioma Fiorentino, più che altri non mai abbia fallo, corre uni versai voce, estese cognizioni delle Divine, ed umane cose aver lasciato scrìtte \ quandoché pria i volgari poeti ne’ loro carmi, omraessi più-gravi lem, altro non abbiano prodotto, che vanissime baie. La gravità di si grandi obbietti in questo suo divini poema benanche seppe mirabilmente co’ sali di moltissima grana condire. Siftàtte cose dunque memr’ei meditava, ed eseguiva, impronta morte il prevenne; della quale pria che discorra, ho stimato non .essere alieno dal soggetto, succintamente sporre tutto che sembra a la forma, a I’ abito, a la coltura, a’ costumi di lui appai; te nere.

Si racconta essere stato questo inclito poeta alto regolarmente della persona, di volto alquanto bislungo, di occhi anzi grossi xhe piccoli, aquilino il naso, le mascelle grandi, e peudenti, il labbro di aotto un po’ più dell’altro proteso, la carnagione bruna, la barba ed i capelli neri, lunghi, e uu po’ ricciuti;.di che, se taluno troppo curioso de le cove anco ininime, abbia per caso alcun dubbio, [p. 55 modifica]aenta in breve che mai ne v»en tramandato» ea«

aergli. accaduto intorno a 1a riferita qualità del co* forilo, e de’ capelli, mentre «Verona ei dimora* va. Dapoichè andando un giornoper la città, passò per avventura avanti la porta di pna certa casa, dove alcune donnicciole, giusta il costume del paese sedute, favoleggiavano; una de le quali non sì tosto vide, Panie passare, che volta a la più vicina, dissele» Vedi, vedi l’uomo, che vien dall’Inferno, mentre de le ombre colà raccolte nuove cose riferisce a’ viventi. Tanto erasi divulgata per tutto la fama della prima .parte della sua Gommedia.

A lei che si parlava,-l’aitra per aiSàtto discorso mossa, dicesi, ben tosto aver in maniera troppo insulsa, e usa di donne replicato». Il vero mi dici, sorella; la di lui crespa barba, la nera carnagione per quella tal . negrezza, e quel globoso fu* igo de le bolge internali, retto il tuo giudizio apertameute fauno (xirj. Inoltre avea egli un portamento grave, e franco; era malinconico, e sempre pensoso; e nel declinar degli anni alquanto curvo camminava.

Avvene di alcuni, che dicono, lui essere stato dì più leggiadro aspetto. Dui resto la sua effigie di forma al vero consimile da buon pittore di quel tempo assai ben dipinta, trovasi nelle pareti de la Basilica di Sauta Croce. Nel vestire messo alquanto bene andava, anche pria che fesa? cacciato in esilio, non già in gullà troppo elegante, siccome ad [p. 57 modifica]uòmo sj grave sembrava massimamente affarsi. Scarso non eia in allora il suo patrimonio; poiché magnifiche case possedea in Firenze, ed alcuni fondi in vari punti limitrofi a le mura de la città. Era nel cibo, e nel poto parcissimo: lodar solea le dilicaie vivande, e sempre le frugali preferire: quei dediti al ventre stoltamente, Casirimargi delti da* Greci, acremente rampognava; e soleva dire, giusta la semenza di uu degli antichi sapienti, che coloro, i quali così facessero, vivrebbero piuttosto per magnare, anziché mangierebbero per vivere. Così pòi di letta vasi nella sua giovinezza di suoni, e canti, che dei più famosi suonatori, e cantori di quel tempo assai mostrossi amico r. di che sempre allegratosi, e toltane voluttà, molti componimenti e in prosa, e in versi in fireuliuo idioma bellamente scrisse. Nella qua! maniera di comporre, il dirò con pace di tutti, non solo, gli altri facilmente superò, ma bensì i posteri di elevato ingegno, per la dolcezza, e facondità del suo dire, desiderosi sommamente rendette d’imitarne si bllo stile. Agli amo— ri alquanto lascivi soggetto, sembrò esservisi abbandonato più che a un tanto filosofo uou paresse convenire (xir): il che, secondo mio avviso, più preste a piacevo! natura d’uomo, che a leggerezza di tanto gran personaggio, giustamente ho stimaio, doversi attribuire; si come costa essere stato scritto intorno a Socrate, di tuli’ i filosoli il più austero, che.troppo proclive a la libidine taluni [p. 59 modifica]ricordano. Perciocché dichiaralo soggetto a tal vizio da un certo fisonomista celebre di quel tempo, che dall’abito, e dalla forma del corpo le proprie inclinazioni, e le passioni dell’animo dice* va comprendere, e spiegare, tutti maravigliando, e beffandosi di lui, dicesi aver Socrate risposto, che retto era stato il giudizio di quello intorno sè, affermando troppo per natura sentirsi a libidine inclinato , e tuttavia aver cotale naturai tendenza non sólo colla modestia l’attenuto, ma del tutto vinto. Ben di rado, se non interrogato, Dante parlava, e non dicea cose inconsiderate, ma tratte come suol dirsi dall’imo petto, e che sembravan premeditale lungamente. Era si attento, ed assiduo nel!’ apparare le cose, che sin anco in mezzo a le. vie sen andava leggendo. Perchè meritamente potevasi dire ghiotto di libri, siccome di £atone scrivea Tullio. Dapoichè, come Catone, quantunque grave e sapientissimo, nella curia, pria che il Senato si raguuasse, a quando a quando legger solea j così quest’uomo singolarissimo di mezzo a le vie come dicesi, talvolta camminava leggendo.

Un certo vecchio uvendogli a caso offerto un libretto per rinnanzi/non veduto, vicin la bottega di un artista, si curioso, e attentamente lesselo, che dolcissimi, e varii suoni di più stromenli dalla lettura di quello non poterono, sia per poco distorlo; che anzi tutto scorselo, sebbene in quel momento festa solenne si celebrasse, giusta il costume della città, tutto il popolo Con ogni sorta di musicali stro[p. 61 modifica]menti nel luogo, Ov’ei lèggeva, affollandosi. £ quel che più ne desta maraviglia si è, che richiesto di qual maniera abbia mai p«luio contenersi di rivolgere lo sguardo, almen per un tantino, a la solenne festa, che si pomposamente immuti a lui celebra vasi, dicesi, abbia risposto, nulla avere udito.

Vi sono alcuni, che affermauo, essere lui stato elegantissimo nell’Orare; il che le frequenti sue ambascerie a molti illustri Principi, non che a sommi Pontefici chiaramente comprovano. Vi si arroge, che quasi come a Principe nella Republica per la sua singolare eleganza sembrava donneggiare.

Fu inoltre di troppo acuto ingegno, e di fedelissima memoria, di che, se lecito mi fosse, molte testimonianze potrei addurre, ma per tema di prolissità di una soltanto avvalgomi, e questa è in vero sorprendente. Trova vasi egli per caso a Parigi, poiché come sopra abbiam detto, dopo la morte di Federico AugusLo «travisi tosto ritirato; e quivi in numerosa assemblea di eccellenti persone altamente, e sottilmente e solo disputava cogli altri su Divine cose. Imperò gli opponenti sino a quattordici varii temi intorno altissime quistioni, avendo, come dicesi, prodotto, tutti ad uno ad uno con l’istesso ordine, ond* erano stati proposti, non senza universale ammirazione fedelmente replicogli, e più anjmirabilmente gli disciolse.

Di onore benanche, e gloria ansioso ei visse, forse più di quanto sembrava dicevole a un si già[p. 63 modifica]ve, e tanto filosofo. Ma gli stessi rinomati filosofi, non che gli austeri teologi non poterono astenersi della naturai bramosia di gloria per una certa dolcezza incredibile, che, come dicono, ella c’inspira, contuttoché molle cose ne’ loro libri sul dispregio de la medesima abbiano scritto. Per cotal desio di gloria dunque a noi connaturale, ond’era il nostro poeta più di ogni altro acceso, come mi credo, aniò la poesia. Conciossiachè i buoni poeti in quelV epoca erano ben pochi, e men de’ filosofi, de’ mattematici, infine dei teologi; il che dal principio del mondo infino a dì nosiri, è certo, così essere avvenuto; mentre i valenti poeti, e gli oratori mai sempre pochissimi furono. Insino allora erano ancora soliti i poeti, ed t Cesari coronarsi di alloro, secondo l’antico costume dei Greci, e dei Romani.

De la laurea, di che si parla, essere lui stato cupidissimo, non solo ei non. lo inforsa, ma bensì in più luoghi dei suoi scritti apertamente, e reiterate volte il contesta; perciocché di certo non immerita men te gli sarebbe avvenuto, essergli cinte di alloro le tempia, se mai dall’esilio fosse staio richiamato.

Ma lungi dalla patria stando, la pur troppo meritala laurea, che ardentemente ambiva, secondo mio parere, trascurò prendersi. Nella poesia quanto ei si vaglia, crederei, esser più agevole ognun per sé giudicarlo, che poterlo ben con parole esprimere.

Questo sommo poeta il primo a nuova luce riportò la poesia, già da quasi nove cento anni spenta, od almen sopita; c giacente e prostrata si come [p. 65 modifica]era, rilevolìa tanto, che per luì sembrava essere siala come rivocata da bando, dentro il patrio contine ricondotta, o piuttosto risorta dalle tenebre a luce; laddove (la tempo già secolare sì come estinta si giaceva.

E non solo il primo le diede nuovo giorno, ma bensì fé mirabilmente conoscere, poter colla dottrina ortodossa della nostra fede ben collimare; quasiché g)i antichi vati da un certo estro divino insperati abbian preconizzato la vera, f retta dottrina.

Oltre a ciò il-Divin poeta anche in maniera adoprossi, che agli eruditi piacessero i poemi, ed altresì agi’ idioti e plebei, presso cut flutto è velato e oscuro; e che colqro, t quali niente si sapesser di latino, non fossero digiuni a fiat lo di poesia.

Dante fu ancor d’alto aniio e generoso; poiché ardentemente desiderando la tornata in patria, tuttavia ’però ri tirar visi noìi volle, ohe per la grandezza del suo animo naturalmente egli rifuggiva a r unico mezzo, onde effettuarla. Imperciocché alcuni del suoi amici trp per lo singolare amore, che gli portavano, e per mostrar di-accogliere i suoi spessi prieghi, del suo ritorno in patria l’eran sommamente desiderosi; e.però con taluni capi de la città dji tutto impegno questa,Jbisogna avean trattato; ma qualunque loro maneggio sembrava tornar vano, se un qualche disdoro in somniessa, guisa ed abbietta ei non ne avesse patito; e questo eradi tal fatta, che dovea pria ridursi tutto a mansuetudine; poi a calde preci dai suoi atersarì implorar perdono; e preseti tarsi ancora di per sé per alcun le topo a le

9 [p. 67 modifica]pubbliche carceri. À cose s\ umiliami altre si agpiagnevano, die liberato da! carcere dopo il determinato tempo, do vea essere solennemente primato a Dio immortale nella Basilica Caitt-drjl di Fiiesi’ ze, come pei1 lo appunto nelle grandi solennità con alcuni sciagurati, è perversi fu solito in quella praticarsi.

Ma tostocliè per amici di tutto ciò venne fatto consapevole, non mai l’onta ili tde, c tanta abbiezione potè indursi di quoto a comportare , che anzi si fiat tamen te sdegnossene da voler finire più presto in esilio, che si ignominiosaruenie in patria tornare.

Si vuole, essere lui stato alquanto orgoglioso; il che dicono alcuni, aver massime fatto rilevare in quei dì, che Bonifazio sommo Ponte ti ce mosso dalle preghiere degli esuli Ghibellini, stanziato a vea spedire un certo Carlo fratello, o piuttosto congiunto di Filippo Re dei francesi, per tranquillare lo slato de la citLà. Questo troppo spiacendo ai capi Quelli governanti in allora la Republica, si ragunarono a consigliò,.; la somma del quale si fu, che alcuni ambasciatori s* inviassero a Bonifazio, e capo di tal legazione per universa! voto Datile fosse, che ogni altro d’ingegno, e di eloquenza vincea.

E ciò com’ei riseppe, dicesi, aver così risposto’»

Se? la vostra sentenzia, siccome è dovere obbedirò,- e muoverò per compiere l’ingiunto ufficio, chi mai rimarrà al governo de la republica?

se altrimenti, ehi degno capo, e regolatore di [p. 69 modifica]quest* ambasceria?» Ma di pili grazia cosperse so* no le cose, che in materno parlare, dicesi, aver profferito. Questi, e consimili motti a di costui arroganza volgarmente vengono attribuiti. Ma se più addentro la cosa- in se stessa e i tempi, come conviensi, si vorran disaminare, con più verisimigManza potranno» come derivati considerarsi o da la grande sua cariti pel la repubblica, ovvero da una certa elevatezza d’animo. Couciossiachè, se alcuno avrà ben ponderato quanti, e quai pestiferi mali abbiano in Fiorenza addotto le già da gran tempo in sur te civili discordie; ed avrà poi attentamente considerato, che Dante ili quel suo prio rato illustre fu autore, siccome altrove dicemmo, de la relegazion di taluni personaggi di somma autorità per la Chiamata di un qualche principe; se finalmente avrà compreso, tener di mira il Pontificio decreto la rivocazion dall’esilio, ed il ritorno in patria degli esuli avversari, cesserà forse di maravigliarsi; che anzi cotai suoi detti, che a taluni, i quali non sanno ben valutare le circostanze dei tempi, sogliono troppo orgogliosi sembrare , giudicherà, in buona parte essere stati da lui pronunciati.

Egli in due maniere molti volumi scrivea, alcuni in materno parlare, altr’in latino CXfr)* e cose scritte in natia favella, <è chiaro, aver in parte> composto nella florida età, in parte nella provetta; giacché oltre alcuni versi sciolti, e molte canzoni, tu sua giovinezza due egregie opere [p. 71 modifica]scrìsse la prima de le quali intitolata vita nuova, Y altra il convivio (xri)\ ed in questi opuscoli riunì chiari comenti di alcune sue canzoni.

Neil* adulta età poi quel suo divino più che limano poema de la cÓHynèdia .colpose, abbenchè pria in eroici latini versr ..còsi l’abbia incominciato, Ultima regna canam fluido cótitermina mundo» e quel che segu’;; e coti troppa eleganza sarebbe in più latini ver.si proj; indilo; m» vej:gi:ndo poi non affarsi ri rimimele ai principi", cambiata maniera di dire, e ripeso il «alio linu.iggio, quel suo lavoro,ricominciò, e con somma eleganza a perfezione condusse. In questo divino poema, come ho detto, non solo la poetica, e tutto che a poeta si addice, ma bensì cose morali, naturali, e divine, di non poc» ammirazione a’ suoi leggitori, seppe insieme unire. Per la qua) cosa’ nello spazio di venticinque anni circa siffatto poema compose, ed ammendo, del quale certamente pria che fosse in esilio andato, già sei . canti avea fornito, che i greci appellano odi.

Questi canti, comechè nella invasione, e depre* demento della sua casa conservati ne la più interna parte con altri molli libretti, e chirografi fra la gran copia de*suoi volumi, pure attutato pochi dì appresso il popolar furore, a caso, dicesi, così essere stati rinvenuti. Premurosa la di lui moglie di tenere il chirografo de la sua dote f a soggetto destro a rinvenirlo avea no dato incumbenza, [p. 73 modifica]Costai diligentemente ro vigli a ndo per entro a quel* la gran copia recondita di Libri, e chirografi, come abbiam detto, per trovarvi quel della dota, si ebbe sotl’occhio, mentre così cercava, un quadernuccio, che le sette già memorate odi conteneva, le quali leggendo, tratto dalla novità, portossele poi in sua casa, ed ivi spesso rileggendole tocco di estrema dolcezza , le trasmise in fine al poeta, cui per lo avvenimento il cuore balzò di piacere; quai canti aver dopo il poeta continualo, mll*oda seguente a quelle assai chiaramente esprit1. In vero, io dico, seguitando tutto il resto, non molti d’i poi avanti sua morte diede ultima mano al Divin suo poema, e perdutelo a fine. Ciò da questo rilevasi, che dopo il suo trapassa mento, dicono, mirabili cose essere accadute, le quali lo stfsso apertamente dichiararono.

Perciocché alcuni scritti, in cui gli ultimi canti del Paradiso si conleneano, non ancora inserti all’intero volume, nascosti Dante tenea in riposto sito della casa, aspettando forse il tempo a poter meglio comporli, e però incompleta l’opera sembrava; ma ecc* l’ombra dell’estinto poeta, dicesi, apparire in sogno a Jacopo de*suoi tigli il maggiore, e più di Ogni altro premuroso della perfezion del poema. In questa, visione, corre voce, il figlio essere stato avvertito del dove erano riposte le ultime parti della commedia; e però, al prinfio far del giorno ricercatele sì cornei in sognp a vea saputo, finalmente le rinvenne* Ma a che fine, dirà taluno, tante ciance intorno a siffatti sogni? perchè più chiaro de la luce

io [p. 75 modifica]apparisca quanto testé abbi a m detto, essere stato fornito, ed emendato nello spazio di a5 anni circa quel divin suo poema; giacché se il poeta prit del suo bando avea sette canti compiuto, e nell’anno stremo di sua vita l’intero poema; se venti’esiliato nel, trentesimo quinto anno, e si mori poscia nel cinquantesimo sesto, costa, averlo terminalo nel corso degli anni qui sopra indicati; che ben si dee supporre alcuni ne abbia passato a rifinire i primi sette canti.

Dippiù alcune opere in latino componeva, cioè moltissime lettere, ed un carme buccolico. Un’illustre opera benanche diede a luce in prosa, che si intitola Monarchia; e questa per ye bellissimi quesiti in tre libri divise. Poiché nel primo di questa opera a la maniera dialettica disputando" disamina, se al bene del mondo necessariamente faccia mestieri Io.stato’ del governo di un solo, che ì greci dicono Monarchia: nel secondo poi, se di ragione il popolo Romano una tal signori abbia a sè preso: nel terzo in fine, se siffatto governo dipendesse dal solo Iddio, oda qualche suo ministro.

Pejr cotale opera sx singolare, poiché contro i pastori della Romana chiesa sembrava pubblicata, dicesi, e un gran legisperito chiaro il conferma, essere stato, dannato come di eresia (xrnj.

Tali cose adunque, siccome abbiam detto, egre’ gianfóute fatte, il cinquantesimo sesto a uno di sua [p. 77 modifica]vita nel i3at della cristiana salvezza in Ravenna sì mori. Taluni riguardano quel che segue come causa del suo tra passa memo. I Veneziani di certo muovean guerra contro il prelodato No vel Preside di Ravenna; perchè intervenne, da lui essere stato Dante spedito ambasciadore attesa la sua già cennata singollr eleganza. Giunto che fu a Venezia, bramoso di esercitare accuratamente 1* assunto ufficio di oratore-, chiedeva che gli si fosse accordata pubblica udienza, e ciò a perduta lena tentando t ben comprese a la fine, che per l’implacabile odio de’ Veneti contro Novello mai sempre vani i suoi sforzi sarebbero tornati; onde, dulia operato, decise subito riportarsi a Ravenna. Ma temendo del viaggio marittimo, perchè a vea prescito, quella parte di mare’ per dove vassi a Ravenna, essere dal comandante de la gran flotta Veneta terribilmente infesta, avviossi per terra. Nel qual viaggio dolente e afflitto per ciò, che inutile affatto era riesci ta la sua legazione, ed anche mal patito pe’ molti disagi sofferti per via, fu da febbre sorpreso, pria che a Ravenna si tornasse, da cui si violentemente venne travagliato, che pochi di appresso cessò di vivere. Questa fu dunque la fiue dell’illustre poeta.

Egli fu interrato nella chiesa dei frati minori in Ravenna: gli si eresse un arca lapidea alta, quadrata, diligentemente costrutta, e di bei carmi scoi[p. 79 modifica]piti fregiata. L’epitaffio sculto dapprima nella lapide riquadra della tomba fu questo »Theologus Dantes nullius dogmatis expers quod foveat claro philosophia sinu» e ciò che segue 2. Indi sei versi soltanto, assai più eleganti de’ predetti, da un certo uomo dottissimo composti, tolti quei primi dal tumolo, furonvi scolpiti, e sono questi essi 3


Numi cantai, dritti de’ Re, scorrendo
     Di Averno il lago, finchè piacque al fato.
     Ma poichè di me parte in miglior loco
     Più lieta andò, a goder l’autor fra gli astri,
     Quel Dante io son quì fuor di patria chiuso,
     Cui madre senz’amor portò Fiorenza.



finisce la vita di dante.

Note

  1. [p. 95 modifica]Di questo sogno della genitrice di Dante balla e a leggere la «posizione, che ne dà il B «caccio, la quale oltre che chiarissima, è co» angelica panna scritta, non meri degna al certo di colui, che1 per lo Decamerone acquistassi nome immotiate.
  2. [p. 100 modifica]
  3. [p. 101 modifica]Avvi di alcuni, che opinano, esser questi versi dello stesso Dante. Se in vero egli stato ne fosse l’autore, che si ebbe forza di comporli a se medesimo, come dicesi, perchè altri pria dei suoi furono apposti alla tomba? E però io non son così presto a crederlo, come il Poccianti, il Giovio, il Moreri, il Bayle, ed altri, che lo rammentano: il che poi non si vede confermato nè dal Boccaccio, nè dall’Aretino, nè dal Nostro, il quale precisamente dicendo, essere cotai versi di un uomo dottissimo, par che voglia in certo modo escluderne lo stesso Dante.