Visioni sacre e morali/Visione V
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VISIONE V.
PER LA PESTE MESSINESE
COLL’APPARIZIONE
DELLA
BEATA BATTISTA VARANO
Sovra igneo cocchio agli Eridanei lidi
Scese Donna dal ciel, che grave in volto
3Mi disse: Ascendi il carro, e qui t’assidi.
L'alto stupor, da cui rimasi colto,
L’Alma mia ne’ sorpresi occhi ritenne
6Fisa all’obbietto dalle fiamme involto;
Chè ragionando invan come sen venne
Librato su la tenue aria il rovente
9Cocchio, e chi a tanto vol gli diè le penne,
Or ammirava con pupille intente
Le scintillanti d’infocato lume
12Girevol rote intorno all’asse ardente,
Or la conca del carro, onde uscía fiume
Di vampe, ora i destrier d’argenteo pelo,
15Dal morso d’or foco spiranti e spume,
Ed or la Donna, che di nero velo
Fasciata il viso in maestà sereno
18In sè parea parte serbar di Cielo,
E in cui grazia e beltà non venía meno
Pel bruno ammanto vil, che le copría
21Stretti con rozza fune i fianchi e il seno.
Fra lo stupore agitò l’Alma mia
Strano impeto così, ch’io stesi il piede
24Sul cocchio per tentar l’aerea via:
E già il pian ne premea; ma dubbia fede,
Tema ed orror l'assalse, e lo sospese
27Mentre salía su l’infiammata sede,
E in quel momento a me la destra prese
La Donna, e a sè con tal vigor la trasse,
30Che mio malgrado il piè sul carro ascese.
Credei, che in cener muto il corpo andasse
Fra le fiamme, che a me parver mortali;
33Pur d’ingiuria, o di duol nulla ei ritrasse;
Ch’eran fiamme innocenti, e a quella eguali,
Per cui splende, e non arde il luminoso
36Fosforo estratto dagli umani sali.
M’assisi appena, che dal suolo erboso
I fervidi cavalli il cocchio alzáro
39Sovra la sfera del vapore acquoso,
E fra il vulturno e l’austro il vol spiegáro
Rapido sì, che nel girar le rote
42Diviso ne stridea l’etere chiaro.
La Donna, mentre le sublimi ignote
Strade io scorrea coll’incarcate ciglia,
45Aperse il varco alle soavi note,
E in tai detti proruppe: I tuoi ripiglia
Spirti pel cammin nuovo oppressi, e spoglia
48Mista al vano timor la maraviglia;
Nè dubitar, ch'io sotto aerea spoglia
Guerra t’appresti, e ti deluda i sensi
51De’ danni tuoi con ingannevol voglia,
Ch’io t’amo, qual a te sceso conviensi
Dal comun sangue, e a me, che in ciel m’aggiro
54Felice più di quanto o scorgi, o pensi.
I voti tuoi, che nell'alterno giro
Del sole al nome mio sacri porgesti,
57Me trasser fuori del beato Empíro,
Non per recar a te quel che chiedesti
Di ricchezze ampio don; ma perchè veggia,
60Che son tai doni al possessor funesti.
Benchè sia duro il modo, onde t’avveggia
Quai nudri brame in desíar mal sagge,
63Pur non fia che abborrir, se giovi, il deggia.
Quindi forza di me maggior ti tragge
Per le vie, che gli augei radon, serene
66A porre il piè nelle Sicane piagge,
Ove l’aere maligno entro le vene
Degli egri abitator spirando morte,
69Veste d’orror le Messinesi arene.
Tacque; e mi prese allor tema sì forte,
Ch’io spinsi in atto di gittarmi d’alto
72Le membra alquanto fuor del carro sporte;
E già pendea senza librarmi in alto,
Quando la Guida pel braccio m’avvinse
75Da me steso a dar moto al folle salto,
E indietro lo tirò, mentre lo strinse,
Con lena tal, che sul lasciato seggio
78Mi torse, mi piegò, mi risospinse;
E poi soggiunse: Amara, a quel che veggio,
Sì parve a te del tuo cammin la meta,
81Che la gloria obbliasti, ond’io lampeggio;
Per cui nè venenato aer, nè pianeta
Di mortiferi semi agitatore
84Te render salvo in mia virtù mi vieta.
Or di te stesso lo sfrenato amore
Fa che contrasti a immago util, ma trista
87Da voglie ingombro allettatrici il core,
Che rara avesti al gioir falso mista
Parte aspra, e l’Alma a inorridir non usa
90Fu mai de’ mali alla terribil vista.
Ma grazie rendi al Ciel, che la delusa
Ragion conosca i suoi sì dolci inganni,
93E lume acquisti infra il terror confusa.
Oh quai teneri, forti, acerbi affanni
Mentr’io vissi al mio sen fér lunga guerra!
96Quanto industre il dolor fu ne’ miei danni!
Lo scettro io vidi della patria terra
A noi tolto, e il buon popol ingannato
99Da infida tregua e rea, che alfin lo atterra:
Vidi il diletto mio padre svenato
Steso giacer nella funerea buca
102Di tre suoi figli trucidati a lato;
E perchè crudeltate empia riluca
Più in empia mano, udii del sangue sparso
105Vantarsi altier lo scellerato Duca.
Ben era il mio valor languido e scarso
A così fieri assalti, onde si scosse
108Da mille affetti il cor tristissim’arso;
E allora apparve a me, come se fosse
A riparar l’umana colpa accinto
111Quei, che a morir per noi pronto mostrosse
Pallido, lasso, esangue, e quasi estinto
Fra i pensier tetri, e per l’estremo affanno
114Di sanguigno sudor le membra tinto,
Che volto a me: Mira, gridò, qual hanno
Vena di duol feconda i miei martiri;
117Mira in me quanto incrudelir mai sanno.
Tu in me non scorgi, ovunque il guardo giri,
Fuorchè lutto e squallor. Pari mai férse
120I tuoi, di cui ti lagni, ai miei sospiri?
E ad una ad una a me l’aspre diverse
Pene dell’Alma afflitta, e i moti amari
123Dell’agitato immaginar scoverse.
Tacqui, e gelai; ma fin d’allor più cari
I dolor tenni, e impresso in me cotanto
126Fra i desir giacque alla ragion contrari
Quest’obbietto d’amor degno e di pianto,
Che in carte il pinsi, e di quel poi ch’io scrissi
129Altri, chè a Dio sì piacque, ébbene il vanto.
E tu a spettacol benchè atroce fissi
Rivolger sdegnerai gli sguardi tui,
132Qual se te stesso a certa morte offrissi?
Ah! troppo dolce è quel sentier, per cui
Te guida il Ciel, che a ben oprar t’invita
135Co’ tuoi non già, ma cogli affanni altrui.
L’Alma mia fra’ pensier misti smarrita
D’amor, di gaudio, di rossor, di tema
138La via negommi al favellar spedita,
E della prima invece a me l’estrema
Parte de’ sensi miei sul labbro pose,
141E questa, o in sè discorde, o scura, o scema;
Ma alfin tornando in me ragion, rispose:
Ben giusto è ch’io paventi, e fuggir brami
144Piaghe serbate ai rei tanto penose;
Chè il mio fallir vuol, che me reo pur chiami,
E mia viltà, ch’io pel rossor m’asconda,
147E il gaudio pel comun sangue, ch’io t’ami,
E tutto questo insiem, ch’io mi confonda.
Or poichè avvien, che al mio turbato ingegno
150Per te grazia dal Ciel nuova s’infonda,
Chieggo perdon, se poca fede indegno
Di sì rara pietà mi rese, e teco
153Pago di te pel liquid’aere io vegno;
Ma ovunque io vada, la caligin meco
Porto, che al nascer mio lo spirto avvolse
156Tardo a indagar le ragion alte, e cieco.
Tu, che sai quante il malor atro accolse
Fiamme nel pronto incrudelir sì acute,
159Svela i principj ascosi, ond’ei si sciolse;
Che onor tuo fia destar in me virtute
Coll’immago de’ mali, e all’uman seme
162Coll'aperta cagion recar salute.
Forse il fier morbo il sol fervido spreme
Da stuolo immenso di locuste estinte,
165Che l'Etiopi arene ingombra e preme?
O dalle fogne dentro al Nilo spinte,
Là ’ve l'Egizia Menfi in duo divide
168Coll'acque in limo di cadaver tinte,
Sorge esso allor che l’erbe e i fiori uccide
La vampa estiva, e allo scemar dell’onde
171Le chiuse agita in sè forze omicide?
Chè ognor le merci, ove il velen s’asconde,
Tratte all’occaso dall’australi terre
174Furo, e di strage a noi giunser feconde.
O forse avvien, ch’esso in perpetue guerre
L’Uom tenga, ed or a quelle parti, o a queste
177Gonfio dell’ire sue ritorni, ed erre?
Deh! dimmi quai sieno ai mortali infeste
L’acide, o l’acri, o l’alcaline parti,
180Di cui lo struggitor tosco si veste;
E a me il sereno tuo lume comparti,
Tal ch’io per te rischiari in sì grand’uopo
183La buja notte delle medich’arti.
Scosse la Donna il capo illustre dopo
Sciolto un sorriso aver dal labbro appena,
186E disse: Ah tu de’ tuoi desir fai scopo
Una cagion d’ombre invincibil piena,
Che Dio lascia, che l’Uom la tenti invano,
189E la nebbia non mai gli rasserena.
Or mentre il penetrar più addentro è vano,
T’accheta, e al sommo il tuo voler inchina.
192Ben fu, poichè previde il fallo umano,
Conveníente alla Ragion divina
Con tal di sapienza ordin sublime
195Formar l’aria e la terra al mar vicina,
Donde nascesse fra le pene prime
Tremoto, o peste, che feral serpeggi
198Carca di spoglie in crudeltate opime;
Ch’util conobbe all’Uom, ch’ei spesso ondeggi
Fra le atroci di morte immagin vive,
201Perchè fido ubbidisca all’alte Leggi.
Poi narrando seguì quai porti e rive,
Quai regni già l’orribil morbo oppresse;
204Come le genti d’ogni aíta prive
Volser a Dio quelle pupille stesse
Use a nutrir nell’Alma amor non puro,
207E pianto apparve, e pentimento in esse.
Così parlando ad or ad or del duro
Obbietto del cammin dal carro acceso
210Lunghi aerei sentier varcati furo.
Chè oltrepassò l’Emilia, e lo scosceso
Appennin Tosco, e il memorabil Lago,
213Dove a terra il Roman Consol fu steso
Dal losco Duce dell’ostil Cartago,
E i Veliterni colli, e d’Anzio il porto,
216Che serbò il nome, e non l’antica immago,
E il mar, che spesso ha del Vesuvio assorto
Gl’ignei torrenti, e Lipari, che oscura
219L’aere col fumo di sotterra sorto;
Poi sorvolando all’ultima pianura,
Di Calabria pervenne ai lidi estremi,
222E del Giulíaco Reggio entro le mura.
Sembráro allor del natío foco scemi
I destrier, che scendendo a lento passo
225Lasciár dell’aure i vortici supremi;
Ma la mia Guida, il tardo moto al basso
Piano, disse, è voler di chi li regge,
228Non dei corsier pigro vigore, o lasso,
Perchè tu vegga un loco, in cui sul gregge
In parte infido il gran Pastore eterno
231Vendicherà la profanata Legge.
Non che questo più ch’altro empio governo
Fésse dell’amor suo; ma tanto lutto
234Sua pietà chiese al suo rigor paterno.
Il funereo vapor per vie condutto
Ascose assalirà la terra infausta,
237Benchè divisa da sì largo flutto;
E dove ora a lei splende amica e fausta
Luce del Ciel, fia in breve ogni pupilla
240Pel troppo lagrimar di pianto esausta.
Io, che in quella mirai gente tranquilla,
O fra i grati ozj, o fra le vane cure
243Nulla del morbo reo serper favilla,
Esclamai sospirando: Oh cieche, oscure
Umane menti, cui non mai si schiude
246L’avvenir carco delle pene dure!
Come fuggon di lor delizia ignude
Ratto l'immagin dolci! E come breve
249Gaudio lunga tristezza e morte chiude!
In così dir a poco a poco il lieve
Fulgido cocchio scorso era là dove
252Le prime onde marine il lido beve,
E già i destrier fean lor mirabil prove
Tentando il Faro; e allor: Frena, gridai,
255Ch’io scopro cose oltre natura nove,
Frena i corsieri, e ai miei visivi rai
Lascia, o Donna celeste, aperto il varco
258Di scorger quel, ch’io non vedrò più mai.
Ella il morso di schiume ardenti carco
Stringendo, sì affrenolli in un momento,
261Che ne incurvò più i colli arditi in areo.
Null’aria commovea l’acque, nè vento;
Pur gonfio il mar Sicano insorse e nero,
264E il Cálabro spianossi, e qual argento
Lustro fosse, di sè fe’ specchio vero
Colla cima erta sul Trinacrio lido,
267E il basso piè nell’Italo sentiero.
In questo pel chiaror cristallo fido
Tante immagin vid’io, che all’Alma parve,
270Che l'occhio fosse in presentarle infido.
D’infinite colonne un lungo apparve
Ordin egual, ma in un baleno monche
273Sembrár, che la metà somma disparve;
E in quella parte, ove rimaser tronche,
Si piegár tutte, e di sè fér molt’archi
276Rozzi, e simili a quei delle spelonche,
Che si mostráro all’improvviso carchi
Di vaghissime torri e di castella;
279E anch’esse qual fumo, che l’aria varchi,
Spariro, e in vece lor nacque novella
Di piramidi sculte aspra foresta,
282Indi ampia valle a fiori pinta e bella;
E in mille colli, e in mille armenti questa
Cangiossi ancor; tal ch’io sclamai: Traveggo?
285O sogno forse con pupilla desta?
Ah! dove sono? E che è mai quel ch’i’ veggo?
Spiega le larve tu di questo loco,
288Che alla mia mente oscura invan lo chieggo.
Essa allor allentò di roseo foco
Le risplendenti briglie, ed ai cavalli
291Parve l’usato volo un lieve gioco;
Poi disse: Il monte su i Trinacrj calli
Namari ombroso, che al Pelóro scende,
294Fecondo ha il sen di lucidi metalli,
E dentro al mar miste all’arena stende
Parti di stibio e vetro e selenite,
297E la sals’acqua ancor fertil ne rende;
Queste dal sol cocente alto rapite
Fra i vapor densi forman specchj erranti
300Di tersissime facce ed infinite.
Quindi da una colonna a lor davanti
Mille crearne eguali ad essi accade;
303E cangian poi gli obbietti varj e tanti,
Perchè il lor moto per l’aeree strade
Cangia l’immago, e in angol è simile
306Il raggio che riflette a quel che cade.
Tu non aver quanto scorgesti a vile,
Che per cagion raro ad unirsi pronte
309Rara anche avvien la vision gentile;
Ma ognora fra le cause o ignote, o conte,
Per cui natura è di nov’opre vaga,
312Adora Lui, che d’ogni causa è il fonte.
Tacque; e lo spettro, che parve arte maga,
Sì mia mente allettò, che non rimase
315Sazia di meditarlo unqua, nè paga,
Finche l’estrema il carro onda non rase
Del Faro procelloso, e dell’ingrata
318Città non giunse all’infelici case.
Qui scendemmo ambi; e l’Alma mia turbata
Nel punto fu che dileguossi il cocchio;
321Tal che gridò la Guida: Il tuo che guata
Sbigottito all'intorno e torbid’occhio,
Scopre il timor, e fede a quel ne accresce
324Co’ passi incerti il tremolo ginocchio.
Pur mi segue il tuo piè, mentre gl’incresce
Seguirmi; e ben scuso il terror natío,
327Che con tua fiacca umanità si mesce.
Non paventar: tornerai salvo: ed io
Riconfortato allor dalla sua voce
330Le pavid’ombre mie posi in obblío.
Or qual Uom fia d’animo sì feroce,
Che almen di poche lagrime non bagni
333Gli occhi obbietto in mirar cotanto atroce?
Dal porto, dove il mar sembra che stagni,
Io colla Guida qual amante figlio,
336Che la tenera sua madre accompagni,
Presi via d’orror carca e di periglio,
In cui morte di mille umane spoglie
339Lordo rendea l’insanguinato artiglio.
Fuor dell’abbandonate immonde soglie
Giacean gli avanzi della plebe abbietta
342Su vili paglie, e infracidite foglie:
Altri con gola orrendamente infetta
Di gangrenose bolle; altri avvampati
345Il petto da fatal febbre negletta;
Altri da lunga fame omai spossati,
Non pel velen, ma pel languore infermi,
348Fra l’altrui membra putride sdrajati;
Ed altri in lor natío vigor più fermi,
Benchè lasciati sotto i corpi estinti,
351Sórti fra l’ossa accatastate e i vermi;
Ma di squallor mortifero dipinti,
E per orecchie róse, e labbra mozze
354Dai volti umani in modo fier distinti.
Le illustri Donne a par delle più rozze
Al comun fonte per attinger l’acque
357Gían nude il piede, e il crin incolte, e sozze;
E chi di lor nel sonno eterno tacque
A un lieve sorso, e chi raminga e sola
360Pria di giunger al fonte esangue giacque.
Gli amici, cui parte d’affanno invola
L’alterna vista, si guatavan fiso
363Nel mesto incontro senza far parola;
Poi fra il duol ristagnato all’improvviso
Sì dirotte spargean lagrime acerbe,
366Che avrían un sasso per pietà diviso.
Talor silenzio, qual avvien, che serbe
L’aria muta fra inospiti deserti
369Colmi di sabbia, e d’acque privi e d’erbe,
E singhiozzi talor fiochi ed incerti;
Poi strida alte e ululati, e in flebil metro
372Querele erranti per gli spazj aperti,
Sì che il lor suon acutamente tetro
Crescea più raddoppiato, e in sè confuso,
375Dal mar, dai monti ripercosso indietro.
Ogni tempio era infaustamente chiuso:
Immoti i sacri bronzi, e alle notturne
378Lampade tolto di risplender l’uso:
Le armoníose canne taciturne;
E senza l’immortal Vittima l'are,
381E senza nenie pie le squallid’urne.
Con Lei, che a me non altrui vista appare,
Io giunsi al fin della funébre strada
384Fra immagin pel doglioso ordin sì amare.
Ivi cangiando via non si dirada,
Anzi cresce l'orror, cui non contrasta
387Alma ancor forte, e in rimembrarlo agghiada.
In mezzo a valle solitaria e vasta
Stridea scoppiando fra le vampe ingorde
390Di cento adusti ceppi ampia catasta.
Con picche armate in ferro adunco, e lorde
Di melma tratti eran que’ corpi al rogo,
393Cui più vita sì dura il cor non morde:
Sacerdoti e fanciulle, e quei, che il giogo
Marital strinse, ignudi, e insiem confusi,
396Da vicin tolti, e da rimoto luogo:
E fra questi (ah! chi fia che adombri, o scusi
D’alta necessitate il gran delitto?)
399Vivi, che ancor movean gli occhi non chiusi,
Ma palpitanti col ronciglio fitto
Nella gola i sospir versando, e il sangue
402Dal collo in sì crudel foggia trafitto.
Strascinata ogni Donna ed Uom esangue
Ad arder con pietà tanto inumana.
405Come striscia per terra ignobil angue,
La faccia avea deformemente strana,
E questa sì, che non serbava alcuna
408Orma in sè lieve di sembianza umana.
Sorta era già quella, che il mondo imbruna:
Pur le tenebre sue folte allumava
411L’ardor dei roghi, e la splendente luna.
Un Vecchio allor mirai, che immobil stava
Presso alla pira, e le rugose e smunte
414Gote di lagrimoso umor bagnava.
Egli torvo negli occhi, e al petto aggiunte
Le incrocicchiate man sciolse tremando
417Tai voci a spesso sospirar congiunte:
Ahi misero! perchè non perii quando
Da me l'amata Figlia il crudo mise
420Colpo di morte eternamente in bando?
O perchè almeno allor me non uccise
Duolo, ira e orror, ch’io l’insepolte e grame
423Sue membra vidi in brani esser divise?
Mentre scagliate su putrido strame,
Oh memoria feral! fúr de’ voraci
426Cani serbate a sazíar la fame.
Che far potei privo di spirti audaci
In curva età, povero d’agi e d’oro
429Tolto a me dalle ree destre rapaci?
Chè il mio guerra mi fe’ ricco tesoro
Più che il tosco mortal fra le sconvolte
432Leggi, e un empio poter maggior di loro.
Oh fortunate appien l’Anime sciolte,
Cui l’ultimo destin l’ultimo porse
435Scampo fra tante pene insiem raccolte!
Oimè! l'aria, in cui sparto il velen corse
Fra l'infocata estate, e i roghi accesi,
438Rende la vita del respiro in forse.
L’acqua dei fonti in miglior stella illesi,
Or calda, e di maligni atomi carca
441Ributta i labbri nel gustarla offesi.
La terra stessa non appar mai scarca
Di sordidezza marcida e di lezzo,
444E il piede ognor vermi e putredin varca.
S’io miro, il guardo ai dolci obbietti avvezzo
S’infosca al fumo, e sol forme atre scorge,
447Che gelido nel cor destan ribrezzo:
S’i’ ascolto, aspra all’orecchio origin porge
D’inconsolabil lutto il fremer tronco
450D’urli e di lai, che disperato sorge.
La mano il tatto abborre, e fin un bronco
Arido sfugge d’afferrar, e al braccio
453Sta giunta come ad un marmoreo tronco.
Ah! pronta ecco la via d’uscir d’impaccio;
Nè v’ha d’uopo a dar fine agli anni oscuri
456D’acuto ferro, o d’annodato laccio.
Già m’invita la pira ardente: i duri
Affanni questa accolga, e le invan sparse
459Lagrime, e all'Ombra mia pace assecuri.
Disse; e debil, ma fier, venne a gittarse
Fra l’altissime fiamme, ove in un punto
462S’abbronzò, frisse abbrustolato, ed arse.
Da questa del furore ostia disgiunto
Fui per la Guida, e dietro alle sacr’orme
465Presi un sentier, che all’onde era congiunto;
E in una torre un ragionar informe
Udii, e qual suol ne’ delirj incerto;
468Poi col crine irto vidi un Uom deforme,
Che piombò su le selci aspre dall’erto
Col capo volto, e ne schizzár le miste
471Cervella al sangue fuor del cranio aperto.
Io torsi gli occhi dall’immagin triste;
Ma in quel momento altra crudel m’assalse.
474Vergata il volto di livide liste
Furente Donna il vicin tetto salse,
E in pianti vaneggiando e in folli risa
477Si gittò dentro alle voragin salse.
Scorsa la via poco dal mar divisa,
Io teneri mirai bambin leggiadri
480Con bocca di marcioso umore intrisa
Succhiar il tosco dalle spente madri;
E altri miseri meno in fra le troppe
483Sventure lor presso gli afflitti padri
Di capre miti le villose coppe
Stringer scherzando; e queste ad essi il latte
486Docili porger con benigne poppe.
Mentre all’occaso eran le stelle tratte
Col pianeta minor dai raggi smorti,
489Con cui l'ombra la prima alba combatte,
Scoprii fra il frombo di percosse forti
Un giovane Guerrier sparuto e fiacco
492Ferri agitando a doppia fune intorti.
Non armato venía d’elmo e di giacco,
Ma coperto le ingorde ulceri solo,
495Che tutto lo rodean, d'ispido sacco.
Un cadaver parea ritto sul suolo;
Pur su la fronte un non so qual soave
498Cipiglio avea d’invidíabil duolo.
Talor, poichè più lena il piè non ave,
Languía de’ servi in braccio, e poi movea
501Raddoppiandosi i colpi il passo grave.
Mentr’ei di sè lo strazio orribil fea
Rinforzando alla voce il debil suono,
504Gridò: Figlio di Dio, che a questa rea
Anima il divo Sangue offristi in dono,
Perch’ella de’ pensier empj e dell’opre
507Chiegga, e in quel Sangue trovi ancor perdono,
Eccola ai piedi tuoi. Più non la copra
La sua ribelle a te misera carne,
510Che ulcerata e corrosa i nervi scopre.
Oh immenso, oh invitto Amor! che per sottrarne
All'eterno penar sì breve prova
513Di duol valesti a nostro scampo darne,
Quanto la tua pietade in me rinnova
Il rimembrar de’ falli miei più crudo!
516Ah! lagrime non già, ma sangue piova
Il moribondo cor, che in petto io chiudo.
Guardami: a te le man gelate io stendo;
519Quelle apri tu del sacro Corpo ignudo,
E le mie teco stringi al tronco orrendo.
Tu le tue piaghe désti a me, che amasti;
522Ed io quai piaghe vili, oimè, ti rendo!
In così dir gli omeri enfiati e guasti
Sì duro flagellò, ch’io gridai quasi:
525Deh! cessa, e tanto scempio omai ti basti.
Ei dall’ossa poichè svelti ebbe e rasi
Gli egri carnosi brani, in seno a quelli,
528Che gli fean scorta negli estremi casi,
Appoggiò il capo, e fra i languor novelli
Dolcissima spiegò sul volto pace,
531E gli occhi fisi al ciel sembrár più belli;
Poi, come suole semiviva face,
Che nel ratto sparir più s’avvalora,
534Lieto sclamò: Ti seguo; ove a te piace
Guidami tu, Dio di bontade. Allora
Muto, e ombrato dagli ultimi pallori
537Spirò l’Anima pia verso l’aurora;
E canti ed arpe e cembali di Cori
D’Angeli, e teste intramischiate ad ale,
540Iridi e raggi e inghirlandati Amori
La sciolta accompagnáro Alma immortale,
Che dall’aurata nube, in cui si chiuse,
543Diè un guardo, e dir addio parve al suo frale.
La visione tenera diffuse
Tal in me gaudio, ch’io lagrime sparsi
546Fra dolce invidia, e fra pietà confuse;
E volto a lei, ch’io vidi in atto starsi
D’accennarmi il sentier della bell’Alma
549Cui grazia e virtù diér tant’alto alzarsi,
Dissi: Tu dunque alla celeste palma
M’inviti? tu che sai, che ognor io tenni
552Lo spirto servo dell’indocil salma?
Come avverrà, ch’io l’ali pigre impenni
Là dove Puritade aurea s’annida
555Per la difficil via, che tu m’accenni?
Deh, non il piè, ma l'intelletto or guida
A saper come in ciel di Dio s’invogli
558Sempre, e gioisca in Dio l’Alma a lui fida,
Tal che mentre il gran bujo a me tu sciogli
E sì divina idea nel sen m’avvivi,
561Le amate immagin vili il cor si spogli.
Ella rispose: Ai puri Spirti privi
Del terren velo apresi il lume immenso,
564Non a te, che fra speme e fede or vivi.
Che se ancor tu pensassi quel ch’io penso,
Nel giorno eterno avría notte, e non luce
567Il tuo pensier fuor di sua lena estenso.
Al ver, che fra le sacre ombre traluce,
T’affida, e il segui; e alle tue voglie strane
570Sia questo il freno, e alle migliori il duce.
Già le ricchezze scorgi, o amare, o vane,
Per cui, bench’altri più s’orni o s’ingemme,
573Non rompe il corso alle vicende umane.
Vedi, ch’ove il mar trae l’oro e le gemme,
Spesso anche il tosco formidabil porta,
576Che d’orror n’empie i golfi e le maremme.
Nè la Fè sola ad accertarti è scorta,
Chè non fia fuor che in Dio che appien tu goda,
579Là ’ve in lui tutta è la nud’Alma assorta;
Ma tua ragion chiaro tel mostra, e annoda
Te in vincol forti; e perchè tu il conosca,
582Fa che tua mente a me si volga, e m’oda.
Il corto ingegno uman cinto da fosca
Nube raro dal falso il ver distingue,
585E nel suo dubbio argomentar s’infosca;
Quindi o in beltà fallace, o in copia pingue
D’agi e d’onor, ch’ei credeo beni, o in finta
588Tema d’affanni il cor sua pace estingue:
Poi la tua brama insaziabil spinta
A voler quel che l’intelletto abbraccia,
591Dal tuo poter sì scarso è risospinta;
Onde avvien, se a te grato obbietto piaccia,
Che invan lo cerchi, e un altro invan tu fugga,
594Che pel duol t’ange, e pel terror t’agghiaccia.
Alfin, perchè tu non ti snerbi e strugga,
D’esterne cose hai d’uopo, e la tua spegni
597Vita, se a noja tu l’abbia, e le sfugga.
Dunque pur quanto pago esser t’ingegni,
Pur, perchè a te bastevol tu non sei,
600Giunger non puoi di stabil gaudio ai segni.
Tai fonti di continua angoscia rei
Per natural necessitade vedi
603In ogni uom sparsi, e tu negar nol dei;
Chè mentre divenir beato credi
Coll’altrui forza e aíta, allor t’accorgi,
606Ch’altri a te chiede il ben, che a lui tu chiedi.
Nè questi, che in te provi, e in altrui scorgi
Principj amari fia che il cor mai svelga,
609E indarno a lui lena e valor tu porgi.
Pur benchè i semi infausti non divelga
Natura all’Uom, sempre co’ moti suoi
612Lo punge, e al pien gioir par che lo scelga.
E ben sì lieto stato i pensier tuoi
Cercando vanno pel tuo spirto oppresso
615Ad onta ancor di quel, che tu non puoi.
Or perchè non ti è dato entro te stesso,
Nè per altri oprar sì, che tu provegga
618Al perpetuo desío nell’Alma impresso,
Medita alfin, se fuor di te si vegga,
E fuori dell’uman germe infelice
621Chi il poter di bearti in sè possegga.
Pensa quanto pensar profondo lice;
Troverai sol Dio di scienza eterna
624Ottimo, onnipotente, e in sè felice:
Che del saper colla virtù superna
L’Alma t’illustri sì, che ne sia scossa
627La feconda d’error tua nebbia interna;
E colla somma interminabil possa
La forza tua pari al desío ti renda,
630Tal che appien quel che brami ognor tu possa;
E sua felicitade entro te stenda
In guisa, che tu nulla in pago farte
633Aíta più d’esterne cose attenda.
Questi, che tua ragion comprende a parte,
Argomenti del ver serba, e al tuo fine
636Beato volgi in acquistarlo ogni arte;
Nè prove altre ineffabili divine
Ricercar dei, che in lor cupa chiarezza
639S’ergon di frale ingegno oltre al confine.
Ma tua Fede avvisando esclama: Oh altezza
Incomprensibil di letizia immensa!
642Oh fonte inestinguibil di dolcezza!
Felice l’Alma in desíarti accensa:
Felicissima poi quella, che giunse
645A satollare in te la voglia intensa,
E all’unico suo ben si ricongiunse.
Tacque; e l’ingorda, e sazia in Dio sua brama
648Tal negli occhi fulgor nuovo le aggiunse,
Che parea dir: Il mio t’invita, e chiama
Premio eterno a seguir quel ch’io seguii
651Sentier aperto al vol di chi ben ama.
Allora alto levossi; ed io sentii
Mille affetti di speme e di duol misti:
654Poi sparir vidi sotto ai piè restii
E il mare e il porto e le contrade tristi;
E a Lei mentr’io dicea: Deh! impetra ai lenti
657Miei vanni ch’io salga ove tu salisti,
Dolce m’arrise, e si mischiò fra i venti.
ANNOTAZIONI
ALLA QUINTA VISIONE.
P. 84. | Questo obbietto d’amor degno e di pianto, |
Che in carte il pinsi, e di quel poi ch’io scrissi | |
Altri, che a Dio sì piacque, ébbene il vanto. |
I dolori mentali di Cristo furono per assai tempo attribditi al P. Lorenzo Scapoli Teatino, e aggiunti all'altre opere ascetiche di quell’Autore. Ma il dotto D. Gaetano Volpi nell’ultima edizione del Combattimento Spirituale, e d’altre operette pur spirituali del Padre Scupoli pubblicate colle stampe del Comino nell’anno 1750, fa evidentemente conoscere, che I dolori mentali di Cristo sono opera della Beata suor Battista Varano Principessa di Camerino e Fondatrice di quel Monistero di Santa Chiara; e non già del Padre Scupoli, che nacque quaranta e più anni dopo la prima divulgazione di quella. Allude pertanto l’Autore nei citati versi a questo o malizioso o disavveduto anacronismo, per cui frodar voleasi la Beata della stessa sua chiarissima famiglia, di un’opera che è tutta e sola di Lei.
P. 86 | .....e il memorabil Lago, |
Dove a terra il Roman Consol fu steso ec. |
Al lago Trasimeno vennero a giornata Annibale e Flaminio Console Romano; e questi vi perdette la battaglia e la vita.
P. 88. | D’infinite colonne un lungo apparve |
Ordin egual, ec. |
Descrive leggiadramente l’Autore quella, che volgarmente vien detta la Fata Morgana al Faro di Messina, la quale altro non è in sostanza che una moltiplicazione d’oggetti, formata dai vapori del mare, attratti in alto dal sole, e scontratisi in quelle materie lucide, di cui è seminato il vicin monte e il lido, le quali al riverbero dei raggi solari formano, come ben dice l’Autore, altrettanti specchi erranti di varie faccie ed infinite, rappresentanti in bella mostra e moltiplice i diversi oggetti di colonne e d’archi ec., in cui s’avvengono, essendo uguale l'angolo del raggio di riflessione, a quello dell’incidenza; e pel moto continuo, in cui sono i predetti vapori, variansi altresì quasi in ogni istante le immagini rappresentate.
Pag. 90. | Presi via d’orror carca e di periglio, |
In cui morte di mille umane spoglie | |
Lordo rendea l’insanguinato artiglio. |
Ben può dirsi della peste di Messina ciò che dicesi nel libro II Reg. cap. XXIX: Immisit Dominus pestilentiam in Israel a mane usque ad tempus constitutum, dovendosi l'uno e l’altro riguardar come un castigo del Cielo per i peccati che si commettono.
P. 95. | Scoprii fra il frombo di percosse forti |
Un giovane Guerrier sparuto e fiacco ec. |
Questi, della cui morte l’Autore fa la descrizione, fu D. Luigi Grasso, Tenente del primo Battaglione Reale Napoli, come si può leggere in un libro intitolato Memoria Istorica del Contagio della città di Messina, stampato in Napoli l'anno 1745 presso Domenico Terres. La notizia di questo Uffiziale è riferita in una lettera posta in fine, del Sacerdote Francesco Campoli, scritta ad un suo amico il 20 agosto 1745, a carte 210 del libro suddetto.