Ville e Castelli d'Italia/Il Castello Sforzesco
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fronte del castello sforzesco, verso il parco.
Il Castello Sforzesco di Milano
Alla morte di Filippo Maria Visconti (1447), il popolo milanese proclamava la Repubblica Ambrosiana, e prima sua cura fu quella di demolire il Castello, riguardato come l’asilo e la rocca della tirannide: a tutti fu lasciata piena libertà di distruggerlo e di asportarne i materiali, ma poichè tale disposizione, se favoriva il comodo saccheggio di quanto aveva qualche valore, non contribuiva affatto ad affrettare la demolizione delle massiccie murature, così si dovette ben presto sostituire, a quella disposizione, la minaccia di parecchi tratti di corda a chi solo si avvicinasse al devastato Castello.
monumento funerario di bernabò visconti
già nella chiesa di s. giovanni in conca, ora nel castello sforzesco.È quindi da ritenere che, nel breve periodo della Repubblica Ambrosiana non si raggiungesse interamente l’intento di togliere ogni traccia del Castello, e che la parte corrispondente ai sotterranei fosse rimasta ancora in discrete condizioni.
Francesco Sforza, nel 1451, tosto che ebbe la città di Milano in poter suo, si accinse a rialzare il Castello sopra quelle fondazioni viscontee. Egli dovette intanto abitare a Corte, e cioè nel palazzo Ducale, che sorgeva di fianco al Duomo, sull’area oggi occupata dal Palazzo Reale, evitando così di mostrarsi troppo diffidente verso i nuovi sudditi suoi, tanto più che, non senza artificio, egli aveva ottenuto dai milanesi di rinunciare ad una condizione giurata al momento di entrare in Milano come Duca, e cioè l’obbligo di non rialzare l’aborrita rocca di Filippo Maria Visconti; la quale licenza di ricostruzione egli aveva potuto conseguire dai milanesi “non perchè dubitasse — riferisce lo storico B. Corio — della loro fede, ma solo per ornamento della città, e sicurezza contro qualunque nemico la volesse molestare„: per la quale sicurezza, non aveva però indugiato ad innalzare, minacciose verso la città, le due massiccie torri rotonde, rivestite di granito.
Certo, al vecchio e fortunato capitano di ventura doveva sorridere l’idea di insediarsi, come Duca, là dove sorgeva la rocca viscontea, nella quale egli si era nel 1432 fidanzato all’unica figlia di Filippo Maria Visconti, a Bianca Maria, di soli la torre rotonda verso est, ripristinata nel 1894.otto anni; ma i lavori di ricostruzione del Castello ebbero a svolgersi anzitutto nelle opere di difesa, e non senza gravi difficoltà pecuniarie, cosicchè il Duca dovette, sino alla morte, abitare nel vecchio palazzo, di fianco al Duomo, durante i periodi di riposo che le vicende di guerra gli concedevano. D’altronde lo Sforza, cresciuto nella dura vita dell’accampamento, era rimasto il vero tipo del condottiero, ed alcune frasi delle sue lettere ne rivelano tutta la semplicità delle abitudini; così, dovendo nel 1457 ricevere in Milano l’ambasciatore fiorentino, ordinava che fossero apparecchiate “molto bene in punto et onorevolmente„ alcune camere sottostanti a quelle nelle quali egli alloggiava, ad eccezione di una camera che serviva di accesso alla scala “perchè non saria honesto, per l’andare inanti e indietro, gli stesse niuno„. Ancora più semplice si presenta la vita domestica del Duca in una lettera di pochi anni dopo, da lui diretta al primogenito Galeazzo Maria, il quale gli aveva annunciato il suo ritorno a Milano, assieme al Marchese di Mantova; poichè Francesco Sforza fa osservare al figlio come “venendo via dextesi, senza fare dimora in alcuno loco, veneresti a giungere qua sabato proximo, et in quello dì le donne hanno ad lavarse el capo, et le brigate hanno ad attendere ad fare li facti soi„; per cui raccomandava a Galeazzo che avesse a sostare il sabato a Lodi “et dominica se facesse l’intrata, che la brigata sarà in festa„.
Un altro particolare della semplicità di vita di Francesco Sforza, si ha da una lettera indirizzatagli nel 1457 da una donna, interessata a richiamargli in qual modo avesse da lui ottenuto udienza: dipinto votivo, su di una parete dell’accesso alla corte ducale (epoca di francesco sforza). “Ben si può ricordare la V. M. S. che avendo Voi audita la predica a Sancta Maria della Scala, essendo Voi a cavallo io Vi presi per la manica et dissivi che io vi volevo parlare: et la S. V. allora mi disse: Vieni a palazzo„.
Lo Sforza non ebbe a negare però il suo tributo all’arte: e sui grandi pilastri del porticato a sesto acuto, recingente la grande corte della vecchia dimora ducale, oggi piazza del Palazzo Reale, aveva fatto dipingere le figure degli eroi da lui ritenuti più degni di essere celebrati: fra i quali Enea, Ettore, Ercole, Attila, Carlo Magno, Azzone. Probabilmente egli era persuaso che, fra quelle figure, la sua avesse a trovare degna compagnia. I pittori che attesero a tale lavoro di decorazione furono il Costantino da Vaprio, il Foppa, il Bonifacio Bembo, Cristoforo Moretti, pittori prediletti del Duca, ed altri che più tardi lavorarono anche nel Castello di Porta Giovia.
Mentre Francesco Sforza dedicava gli ultimi suoi anni di vita a consolidare il dominio faticosamente raggiunto, il primogenito Galeazzo, col frequentare le corti di Mantova, di Ferrara e di Francia, si avvezzava sempre più a quel lusso ed a quelle raffinatezze della vita esteriore, che caratterizzarono la seconda metà del secolo XV: nel Castello intanto abitava solo il castellano Foschino degli Attendoli, che si era insediato nel gennaio 1452, non senza sottomettersi al pregiudizio astrologico di fissare l’ora ed il minuto dell’ingresso in base alla declinatione della luna: il che ci richiama un altro caratteristico tratto di Francesco Sforza, il quale ebbe nella stessa circostanza a dichiarare che, per conto suo, non badava a tante subtilità degli astrologhi; e tanto poco valore annetteva alla data della nascita — sulla quale molti basavano il prestigio di tutta la vita — che al castellano, il quale per soddisfare le esigenze dell’astrologia lo richiedeva del suo giorno natalizio, rispose che avesse a rivolgersi, per saperlo, al segretario ducale “che te lo dirà, perchè lui l’a per scripto„.
Oltre al Castellano, durante il dominio di Francesco Sforza, alloggiavano nel Castello i balestrieri, che, sebbene incaricati della difesa, non rifuggivano dall’interpretare a rovescio l’ufficio loro, facendo servire il Castello come base di operazione per saccheggiare gli inermi cittadini, devastando le ortaglie dei borghigiani dalla parte verso nord, dove era il borgo detto, fino a pochi anni or sono, degli ortolani: e poichè un borghesano ribellandosi ai saccheggiatori ebbe un giorno a ferire un soldato, i balestrieri uscirono in gran numero dal Castello, malmenarono i cittadini e “preso un carico de palia che se conduceva in città, lo menarono in Castello con le bestie et con lo caradore„.
Una terza categoria di abitanti del Castello era costituita dai prigionieri che vi erano custoditi: i documenti ricordano fra gli altri come, nel sotterraneo della torre abitata dal castellano — quella all’angolo sud della Rocchetta, detta poi del Tesoro — fosse rinchiuso un forestiero, coi ferri ai piedi e colla catena al collo, al quale era stata strappata la confessione “dandoli parecchi squassi de corda„.
Pur non mostrandosi troppo impaziente di stabilire la sua dimora nel Castello, Francesco Sforza non aveva però mancato di occuparsi del giardino, che era attiguo al recinto di difesa, detto Ghirlanda, e si stendeva verso nord-ovest, arrivando sino alla località oggi occupata dal campo di corse a S. Siro. Più che giardino, era un vasto podere denominato Barcho, nel quale si coltivava frumento, segale, miglio, avena, e che in parte era a prateria ed a frutteto: la condizione sua di essere recinto da muro, rendeva possibile l’allevare caprioli, cervi, lepri, stambecchi, falchi, gru, pernici; cosicchè il Duca che, per contrastare la tendenza all’obesità da cui era afflitto negli ultimi anni di sua vita, non tralasciava di cavalcare, trovava nel Barco una località propizia per dedicarsi all’esercizio della caccia.
veduta generale del castello sforzesco, dall’angolo verso nord.
Solamente dopo la morte di Francesco Sforza, avvenuta nel 1466, il Castello cominciò ad essere residenza ducale; il nuovo Duca Galeazzo Maria dovette però, per qualche tempo, abitare ancora nella vecchia corte di Azone Visconti, ostentandovi la maggiore confidenza coi suoi sudditi: infatti, appena insediato come duca, fece annunciare che per due giorni di ogni settimana concedeva “pubblica audientia ad ogni persona, et quantuncha sia de bassa conditione, tanto più volontera sarà da me audita et bene intesa„: fu ai 28 marzo 1466, che il Duca diede “felice et benigno principio a questa sua sempre laudabile deliberatione„, che durava ancora nel gennaio 1468, poichè risulta come in quell’anno fossero stati spostati i due giorni della settimana destinati a tali udienze. Intanto si avvicinava l’epoca degli sponsali di Galeazzo Maria con Bona di Savoia: il Duca, che si proponeva di cogliere quella circostanza per trasferire la dimora nel Castello, ordinava nel febbraio 1468 che fossero messi in ordine i camini e le finestre “in lo lavorerio novo del Castello„: e l’ingegnere Bartolomeo Gadio, Commissario generale dei lavori, rispondeva: “intendo che V.a S.a vorà alogiare qui in Castello ne le case principiate l’anno passato, et me sforzarò di fare che siano fornite più presto sia possibile„.una delle finestre della corte ducale (epoca di galeazzo m. sforza). I preparativi non erano di poco conto, poichè, fra l’altro, vi si doveva allestire una stalla di 82 cavalli per la Duchessa. Gli sponsali ebbero luogo nel luglio del 1468; e sia perchè gli appartamenti ducali non avessero ancora le decorazioni interne, sia perchè il Duca desiderasse di passare liberamente i primi mesi di matrimonio, la coppia ducale abitò per qualche tempo nel giardino, in una piccola casa circondata da corsi d’acqua, denominata Cassino: una costruzione affatto rustica, le cui camere destinate a dimora ducale si trovavano attigue al pollaio.
Le replicate visite fatte da Galeazzo Maria alla Corte di Mantova, dove egli ebbe a vedere le sale decorate dal pennello del Mantegna, avevano stimolato in lui il desiderio che il Castello di Porta Giovia potesse gareggiare con quelle splendide manifestazioni d’arte: così, mentre il Gadio era ancora occupato ad allestire l’appartamento ducale, Galeazzo ordinava nel febbraio 1469 che si preparassero i ponti di servizio per il pittore Vincenzo Foppa; al tempo stesso, al pittore Baldassare che stava decorando una sala, ordinava che vi avesse a dipingere “noy et la nostra Ill.a Consorte„: mostrava pure la intenzione di ricoprire la volta di una sala con velluto “cremexile„. Nel maggio impartiva le indicazioni per sollecitare la decorazione della saletta, delle sale della torre, e della sala dei “fazoli„ (fazzoletto annodato, impresa visconteo-sforzesca); ed il proposito suo di affrettare il momento di poter abitare nel Castello, appare da una lettera del dicembre dello stesso anno: “poichè volemo che siano dipincte quelle sale intanti la festa de Natale, et bisognerà lavorar de dì et de nocte, si concedeporta di uscita verso il “barcho„ e loggetta di galeazzo m. sforza. l’accesso ai pictori de nocte, purchè non portino seco altra arma che li loro strumenti„.
La diffidenza che queste parole rivelano, si era affermata anche in una precedente lettera ducale, che conteneva le seguenti istruzioni al castellano: “poichè accade alcuna fiata che quelli nostri filioli hanno qualche poco male, quando occorre medico, o speziale si lasci libero l’accesso, stando però tu a la porta, tanto all’entrare che all’uscire per più nostra sicurezza„. I figlioli cui si allude erano i figli naturali di Galeazzo Maria, di cui la stessa sposa del Duca aveva dovuto incaricarsi della custodia, fra i quali era la bimba Caterina, nata nel 1463, che abitò in Castello sino all’epoca del suo matrimonio con Girolamo Riario, ed è dalla storia ricordata per la eccezionale energia di cui diede prova nella sua vita avventurosa. E si può anzi ritenere che gli anni della fanciullezza, trascorsi da Caterina Sforza nell’ambiente militare del Castello di Milano, contribuirono a predisporre questa donna singolare a quella forza d’animo e virilità di propositi, che si affermarono specialmente nel 1500, coll’eroica difesa della Rocca di Forlì contro gli attacchi di Cesare Borgia.
Devesi notare come la impazienza dimostrata dal Duca affinchè le sale fossero allestite per il Natale del 1469 si spieghi colla circostanza che Galeazzo Maria aveva deciso dovesse nel Castello aver luogo la cerimonia del giuramento di fedeltà della città di Milano: infatti ai 30 di dicembre, i 900 cittadini che componevano il Consiglio generale, radunati nella corte del Castello, prestarono giuramento alla presenza del Duca: all’infuori di tale straordinaria cerimonia, non si trova altro indizio che fosse concesso di entrare nel Castello; solo nel 1473 il Duca permise che il popolo vi penetrasse per ascoltare le prediche quaresimali, nella quale circostanza sala del consiglio ducale segreto, nella rocchetta, ora sala delle conferenze. egli volle che ad una delle finestre del suo appartamento fosse applicata una zelosia, affinchè egli potesse udire ed anche vedere, rimanendo però inosservato.
Una prova che Galeazzo Maria, per effetto delle discordie e rivalità di famiglia, non si sentiva ben sicuro nemmeno nell’interno del Castello, risulta dal fatto che egli ebbe ad imporre con giuramento al castellano della Rocchetta che, nel caso di sua morte, solo al primogenito Gian Galeazzo, e quando questi fosse stato maggiorenne, avesse a consegnare quella parte del Castello, che più si prestava a resistere contro qualsiasi sorpresa.
Viene qui spontaneo il domandare come fosse disposto l’appartamento ducale, in qual modo fosse arredato e vi si svolgesse la vita domestica.
I lavori di restauro compiuti nella parte del Castello che servì specialmente come abitazione ducale, permettono un’idea abbastanza esatta della interna distribuzione. Ciò che maggiormente sorprende, visitando gli appartamenti sforzeschi, è la disposizione affatto rudimentale delle sale, la loro ampiezza e la mancanza di tutto ciò che potesse giovare alla loro abitabilità. Infatti, la parte del Castello che particolarmente era adibita come dimora del Duca, consta di un sèguito di grandi sale, comunicanti fra loro a mezzo di piccole porte, e senza alcun disimpegno di servizio: per passare dalle sale terrene a quelle del piano superiore bisognava uscire all’aperto, e valersi delle due scale esterne; oppure si doveva ricorrere ad una scaletta ripidissima, ricavata nello spessore di uno dei muri della Torre d’angolo. Si aggiunga che la sola attrattiva di cui oggi godono quelle sale, dal punto di vista dell’abitabilità — vale a dire il prospetto sul parco, sistemato sopra una parte della stessa area già occupata, all’epoca sforzesca, dal giardino, o Barco — mancava a quel tempo: infatti il muro di difesa, detto Ghirlanda, recingente il Castello dalla parte verso la campagna, e di cui non rimangono oggidì che pochi avanzi, toglieva alle sale dell’appartamento ducale ogni visuale sul giardino e sullo sfondo della catena delle Alpi. Quando poi si pensi come le ampie finestre bifore fossero chiuse mediante stamegne, cioè mediante semplici impannate di tela, si può immaginare quanto dovesse riuscire poco gradevole la dimora in vasti ambienti, fra i quali la sala detta delli Scarlioni — che pur non era la più ampia — aveva metri 25 di lunghezza, ed un volume di metri cubi 5000.
Malgrado il più modesto concetto di possa avere riguardo le abitudini domestiche, non si può a meno di rimanere meravigliati davanti a quella monotona e severa sfilata di sale: dove erano le cucine? dove i locali di servizio, i ripostigli? L’enigma si affacciava anche rispetto ai locali che pur rispondono ai bisogni più naturali della vita, fino al giorno in cui, nello scrostare tutta la zona inferiore delle pareti, guasta per le infiltrazioni dipendenti dalla lunga destinazione delle sale ad uso di stalla, si venne alla scoperta di piccoli locali, riservati nelle robuste muraglie d’àmbito, dei quali non appariva dubbi la destinazione primitiva: ma, all’atto stesso che la problematica mancanza di quei locali veniva così risolta, si presentava non meno inattesa e strana la condizione affatto rudimentale di quei locali, per il gli accessi alla rocchetta ed alla corte ducale la torre di bona di savoja contrasto della loro mancanza assoluta di qualsiasi elementare disposizione di comodità e decenza, col lusso spiegato nell’adornamento delle sale: e invero, quando si ricordi come Galeazzo Maria volesse, non solo ricoperta in velluto rosso la vòlta di una sala, ma ordinasse che i locali destinati a custodire i girafalchi fossero addobbati di velluto verde “ricamato con l’arme nostre de le secchie et piumaglio„ non si può a meno di trovare strano che le finestre delle sale fossero chiuse con impannate vecchie e sdrucite, di cui si decideva il ricambio solo in occasione della visita di qualche ambasciatore: calice in vetro colle imprese sforzesche. e che pei gabinetti, oggi chiamati di decenza, non si provasse neppure la necessità di intonacare le pareti e di chiudere la rozza feritoia, da cui ricevevano un poco di aria e di luce.
L’estrema semplicità nella vita famigliare ducale risulta più stridente dalle disposizioni che si dovevano adottare nella circostanza di qualche visita di riguardo, o di qualche festa in Castello; così, per l’occasione delle nozze con Bona di Savoia, Galeazzo Maria doveva fare la requisizione di arazzi presso le famiglie patrizie, allo scopo di decorare le pareti del Castello: per le cerimonie che in questo si compivano, si ricorreva al capocelo, o baldacchino di broccato d’oro, custodito di solito nella vecchia corte ducale, di fianco al Duomo: fu solo nel 1474 che venne proposto di ordinare un altro baldacchino, per evitare il continuo trasporto, da una residenza all’altra, dell’unico e vecchio capocelo allora esistente, a proposito del quale si faceva osservare che “se lo si volesse rimovere, andaria in fasso„ ossia si sfascierebbe.
Una indicazione ancora più caratteristica, è data da una deliberazione dello stesso anno, secondo la quale in una camera dell’appartamento ducale si doveva porre “una lectera con la sua carriola: et li materazi che se ghe mettessero la nocte per dormire, la matina se potriano levare via, et a questo modo dicta camera se troverà libera per potergli fare consiglio dentro„.
Alcune note d’inventario di quel tempo danno qualche idea riguardo l’ammobigliamento delle sale, menzionando “scaldaletti, cossini de velluto cremexino per ponere a la catregha de camera: panni de scarlato da mettere sopra le catreghe e per coprire la tavola: una coperta de coiro (cuoio) per coprire la brella (predella) dove sta il Signore (Duca) in genogione a la messa: una tasca de coiro negro per ponere dentro chiodi er altri ferramenti: una cassetta de braza 13 con certi cassettini depinta de verde, per guarnare (riporre) li capelliti del Signore„.
Per ospitare mons. Filippo e mons. de Cominges in Castello, il Duca scriveva al Gadio: “volemo che faci fornire le camere de sopra de letere et tavoli, et metiate in ordine qualche cucina„; e per la venuta del figlio del Re Ferrando d’Aragona, nel 1474, il Duca ordinava che nella sala nova si disponesse “un tribunale et credenza et banchi: ciò de grosso, perchè andarono coperti de tapezarie„. L’ambasciatore di questo re, qualche anno prima, aveva potuto vedere anche gli abiti del Duca, dei quali si era “tanto meravigliato, dicendo non aver mai visto tanta nobiltà de vestimenti„: il che accentua sempre più il contrasto colla semplicità della vita famigliare. Per la visita di Reinaldo d’Este, il Duca aveva acconsentito che a questi fosse mostrato “tutto il Castello, le camere nostre, et ogni cosa, excepto li denari„.
Della cura che il Duca Galeazzo Maria aveva per il suo abbigliamento e per quello dei suoi famigliari, si hanno frequenti indizi nelle lettere del tempo: egli si era fatto fare “uno zetonino de pelo de lione„ e nel 1475, avendo la Duchessa dato la commissione di un broccato d’oro, Galeazzo ordinava che fosse fabbricata una “peza de brocato simile a quello, facendo per modo che la Ill.a nostra consorte sapia niente„: nelle quali parole si ravvisa l’intenzione di Galeazzo Maria che la sua favorita si trovasse in condizione di poter gareggiare colla Duchessa: a conferma di ciò sono frequenti in quel tempo altre ordinazioni de “zibre (pantofole) da donna, de zetonini raso morello scuro damaschino, per fare una camorra da donna, brocato d’oro per uno paro de maniche da donna„ ordinazioni accompagnate tutte dall’avvertenza che si trattava “per certo nostro segreto„.
Sempre nello stesso anno il Duca scriveva a Parigi per avere “una buona pelle de camozo, che sia pastosa per fare guanti da ballo per nostro uso: et un forficetto piccolo e un coltello da calzolaio per tagliarli„: avvicinandosi l’inverno, ordinava la spedizione di “panetti quattrocento da naso, per nostro uso„.
Ad accentuare il contrasto fra il lusso esteriore e la trascuratezza per le comodità della vita, si aggiungevano le cure del Duca nel soddisfare la passione per la musica ed il canto, e per le cerimonie militari: egli non aveva indugiato, dopo la morte di Francesco Sforza, ad accrescere il numero dei cantori al servizio ducale: nel 1471, facendo ovunque incetta di cantori
il castellano ambrosino da longhignana comandante la guardia di galeazzo maria sforza
Dipinto votivo, all’accesso della Corte Ducale.
e di maestri di musica, egli volle ordinare una vera Cappella musicale, la quale arrivò ad essere composta di quaranta persone, diciotto cantori da camera e ventidue da cappella, tutti vestiti di velluto nero, la cui spesa nel 1476 ammontò a 5000 ducati: somma veramente ragguardevole, tenuto conto che ad ognuno dei cantori veniva assegnato, a carico dell’erario, una rendita annua di 300 ducati d’oro. Nè minori erano le cure e le spese per gli stipendiati alla guardia del Duca, riccamente vestiti e fregiati colle varie imprese sforzesche, secondo la persona della famiglia ducale cui erano particolarmente adibiti: lo stendardo di queste guardie era ricamato, sopra disegno del pittore Costantino da Vaprio.
La festa che occasionava particolare sfoggio delle milizie del Castello, era quella di S. Giorgio, ai 24 di aprile, nel quale giorno in Duca si recava solennemente dal Castello al Duomo, dove avveniva la benedizione degli stendardi e si celebrava la messa solenne: questa cerimonia era quella che il Duca nel 1474 aveva ordinato fosse raffigurata in quattro grandi composizioni, da dipingere sulle pareti della sala della “Balla„: delle quali composizioni la prima e l’ultima dovevano appunto rappresentare l’andata di Galeazzo Maria dal Castello al Duomo, ed il ritorno dopo la benedizione degli stendardi, con tutto il sèguito ducale.
Altra cerimonia era quella che si compiva pochi giorni dopo il S. Giorgio, al primo di maggio: il Duca, colla Duchessa e le dame, si portava nel giardino del Castello “a torre el majo, secundo se sole fare in simile dì„: così annotava il Simonetta nel suo Diario.
L’importanza della Corte ducale appare meglio nell’occasione della partenza del Duca per qualche spedizione militare, o semplicemente per diporto. Nel 1472 la nota dei cavalli per andare al campo, indica: “per la persona de la Soa Excell.a cavalli 100, muli 25 — per 40 camerieri al servizio della persona, cavalli 130 —
porta del banco mediceo, già in via bossi, ora nel castello sforzesco
Opera di Michelosso.
per altri 10 camerieri, cavalli 30 — per due medici e lo speziale, cavalli 8 — per due cappellani, cavalli 3 — per sescalchi, credenzieri, cuochi, fornai, cavalli 32 — per barbieri, sartori, calzanti, cavalli 5 — per staffieri cavalli 12, ecc. In tutto, più di 500 cavalli e muli.
Il viaggio a Firenze, fatto da Galeazzo Maria con Bona, nel 1471, fu di uno sforzo tale, ch’ebbe a riempire di stupore gli stessi fiorentini: i feudatari e consiglieri che accompagnavano Galeazzo Maria e Bona erano vestiti di panno d’oro e d’argento, i cortigiani in velluto e drappi di seta, i camerieri con abiti ricamati, e “insino a i servitori di cucina erano vestiti a diversi veluti e rasi„. I cavalli avevano selle di panno d’oro, staffili di seta, staffe dorate. La duchessa aveva a sua disposizione cinquanta cavalli coi finimenti d’oro e d’argento, paggi riccamente vestiti, e dodici carrette colle coperte di panno d’oro e d’argento ricamato: “i materazzi dentro e piumassi erano di panno d’oro rizzo sopra rizzo, alcuni d’argento et altri di raso cremesino„. Componevano la comitiva “due mila cavalli e duecento muli da cariaggio, tutti con una coperta chiara di damasco bianco e morello — cioè bianco e rosso cupo, colori sforzeschi — et il ducale in mezzo recamato di fino oro e argento: et i mulatieri vestiti di nuovo alla sforzesca„: seguivano cinquecento coppie di cani, e grandissimo numero di falconi e sparvieri. una delle sale superiori dell’appartamento ducale ora museo artistico municipale. Quaranta trobetti e pifferi, molti buffoni ed altri con diversi strumenti rallegravano questa pittoresca sfilata attraverso l’Appennino. La spesa per tale apparato venne calcolata a quel tempo in duecento mila ducati, quanto a dire qualche milione di nostra moneta.
Prima di partire, il Duca aveva stabilito l’elenco delle persone che dovevano rimanere nel Castello, fra le quali Caterina Sforza, Clara, altra figlia naturale, ed Alessandro secondogenito di Bona, nonchè l’elenco delle poche persone che potevano entrare ed uscire, secondo le occorrenze di servizio.
Galeazzo Maria Sforza fornisce altri elementi interessanti per ricostruire le caratteristiche morali di quell’ambiente: nel novembre 1475 il Duca stabiliva di prendere a suo servizio il primogenito del conte Giovanni Borromeo, di nome don Ghisberto, ed ordinava al padre che subito gli avesse ad inviare il figlio con sei cavalli: non era trascorsa una settimana, e così ripeteva l’invito: “ne meravigliamo molto de vuy che non habiati mandato vostro filiolo, ma non passeranno tri dì che vuy ve meraviglierete de nuy„. Infatti il giorno seguente ordinava la confisca dei beni della famiglia Borromeo; ordine sospeso poche ore dopo, ed è a credere lo fosse per il sollecito arrivo del giovane Ghisberto. Al giovinetto fratello Ascanio, più tardi Cardinale e Vescovo di Pavia, il Duca scriveva per diffidarlo “dal zochare a la balla e ad scachi col conte Galeotto Belgioioso, perchè è fatto così bon magistro, che vincerà ad ogni partita„. Qualche mese prima, essendo gravemente ammalato l’altro suo fratello Polidoro, il Duca ordinava “accadendo ch’el mora, tu li faci ordinare la sepoltura nel modo fu ordinata quella de Lisa nostra sorella, metendoli sopra uno drapo simile et nel modo è quello d’epsa Lisa„. Per comprendere questo accenno ad un drappo, occorre ricordare la usanza di depositare in Duomo le casse mortuarie contenenti le spoglie di persone della famiglia ducale, le quali casse, sospese con catene ai piloni del coro, venivano poi ricoperte di drappi di broccato d’oro. La salma della sorella Elisa — morta di soli sedici anni nel 1469, mentre stava già per passare in seconde nozze — era stata appunto deposta in Duomo, dove trovasi ancora, in una parete dell’abside, l’iscrizione funeraria dettata da Lancino Curzio. Caratteristico è pure l’ordine del Duca, nell’aprile 1475, perchè due suonatori tedeschi di liuto e di viola, si recassero da lui “con li suoi strumenti, et per domane non debino imbriacarsi, ma che poi nel resto dell’anno gli diamo licenza de far come li piace, purchè domani siano sobri„.
Fra le cerimonie nel Castello, la più intima e caratteristica era quella che si compiva la vigilia di Natale, e si chiamava “la solennità del zocho„. Già nel 1471 si era potuto celebrare tale festa “nella camera della Cappella, presso la sala verde dove aloza il Duca„. Il Gadio, cui incombevano i preparativi — consistenti nel predisporre un grosso ceppo (zocho, in milanese sciocch) da ardere con lauro e ginepro, sul focolare della sala in cui si adunava la famiglia ducale, alla vigilia di Natale — scriveva che già aveva fatto i preparativi tanto a Milano, che a Pavia ed a Vigevano “sichè vada dove parirà alla sua Sig.a de quisti tri lochi, et troverà in acaduno de dieti lochi uno zocho fornito„; il Diario del Simonetta all’anno 1473 riferisce: accesso alla corte ducale, e torre eretta da bona di savoja nel 1477. “questa sira fu facta la solenità del zocho in Castello, nela sala verde, con invito de molte done citadine de questa cità„ e l’anno appresso: “questa sera S. Sig.a, convocati la Ill. Madonna Duchessa, le figliole, li ill. fratelli, feudatari, gentiluomini honorò la solennità del zocho, secundo el consueto ne la sala verde„.
Questa cerimonia del ceppo natalizio doveva costituire l’ultima solennità cui prese parte Galeazzo Maria: ai 24 di dicembre del 1476 il Duca “con la Bona et filioli sui, in una grande sala inferiore, dicta de li Fazoli, a sono de tromba e stupendissimo apparato, fece porre il zocho„ così riferisce il Corio. All’indomani, giorno di Natale, dopo di avere udito le tre messe nella Cappella angolo nord della corte ducale, e ponticella di lodovico il moro: Opera di Bramante, restaurata nel 1903. ducale, Galeazzo Maria si ritirava nella “camera pincta a colombe in campo rosso„: e prima che calasse la notte il Duca si divertì a far volare dei falconi. L’indomani, recatosi alla basilica di S. Stefano per udirvi la messa, cadeva sulla soglia del tempio, sotto i colpi dei congiurati Lampugnano, Olgiato e Visconti.
Fra le continue ansie, i sospetti e le insidie, si svolge la vita famigliare in sèguito alla morte di Galeazzo Maria Sforza. La vedova Bona di Savoia, in nome del figlio minorenne Giovanni Galeazzo, si affrettò a rinforzare la Rocchetta, di cui era castellano Filippo degli Eustachi, il quale aveva ricevuto, come già si disse, in custodia la Rocchetta, col giuramento di non cederla che a Giovanni Galeazzo quando questi fosse maggiorenne: ma Lodovico il Moro — allontanato dal Castello per opera del segretario ducale Cicco Simonetta, che nell’ambizione del Moro aveva intravveduto una minaccia per la trasmissione del ducato al figlio di Galeazzo Maria — riuscì ad introdursi segretamente nel Castello, ed a disarmare le diffidenze di Bona; e tolto di mezzo l’ostacolo del Simonetta, da lui fatto arrestare assieme al fratello Giovanni, e tradurre al Castello di Pavia in carretta di ferro, seppe con nuovi intrighi indurre la duchessa a dichiarare ribelle il castellano della Rocchetta perchè non voleva riconoscere l’autorità di Bona: dopo di che riuscì a condurre a termine il suo piano, ottenendo che il figlioletto Giovanni Galeazzo, distaccato di sorpresa dalla madre, “nell’ora in cui quasi tutti erano andati a disnare„ fosse introdotto nella Rocchetta. Bona di Savoia, privata del figlio, che le fu concesso di rivedere solo colle maggiori precauzioni, non potè più a lungo tenere testa alla ambizione del Moro, e dovette allontanarsi dal Castello.
Notizie più particolareggiate sull’ordinamento della vita famigliare nel Castello ci offre il periodo di Lodovico il Moro: fra le disposizioni interne da questidecorazione di volta, in un gabinetto della corte ducale. adottate nel 1485, riporteremo quelle che si riferiscono alla cucina, le quali ribadiscono il contrasto fra la frugalità della vita domestica, ed il lusso della vita esteriore. Il Duca aveva ordinato nel 1485:
“Che in dicta cucina non si tenga se non tanti cochi quanti sono di bisogno, cioè quattro cochi, quattro sottocochi et due scottini...
“Che continuamente sia bon pane e bon vino per la famiglia, aciochè acadendo alcuna volta non gli fosse in soficienzia de le altre cose, che quello non gli manchi, così per utilità de la famiglia, come per onore de li forasteri sopravenienti.
“Che sia deputato uno caneparo solo et discreto, che tenia la chiave de la torre dove se metono solamente li vini per la bocha del Duca in vaselli subgilati, aciochè manchamento ne periculo advenia, quod Deus avertat.
“Che sia deputato uno fachino solo de casa ben fidato a portar la legna alla camera et guardacamera del Duca, e con una persona discreta de dreto, a ciò ogniuno non possa andare in camera di sua Sig.a per boni et degni respecti.
“Item volemo che tutti quelli hanno la spesa de le torcie debiano ritornare indietro lo pezo de torcia che avanza, altrementi non se gli darà torcia alcuna„.
Lodovico il Moro, di 29 anni, aveva nel 1480 richiesto la mano di Isabella d’Este, allora di sei anni: ma il Duca di Ferrara volle fidanzare questa al primogenito di Federigo, Marchese di Mantova, concedendo invece al Moro l’altra figlia, Beatrice, di cinque anni. Gli sponsali di Isabella con Francesco Gonzaga ebbero luogo nel 1490, e l’anno dopo seguirono quelli di Lodovico con Beatrice d’Este: questa, accompagnata dalla madre e dalla sorella Isabella, si portò a Milano per la via del Po, in una nave chiamata Bucintoro: “Partiremo venerdì — scriveva la madre di Beatrice al Duca di Ferrara — se starà nove giorni in nave, et li dormiremo septe nocte prima che se ariva ad alogiare in terra„. Si pensi che il viaggio si effettuava nel cuore dell’inverno, ai primi di gennaio, e si potrà immaginare quanto dovesse riuscire poco confortable. Ed ecco qualche altro interessante particolare di quel viaggio nuziale:
“Restò la nave de la victuaria tanto dreto, che per quella mattina disnassemo cum li guanti in mane, et alcuni non mangiarono niente, tra li quali li fui io, e arrivassimo a la ripa circa le tre ore de nocte, pur senza la nave della dispensa, per modo, che se Madonna Camilla non havesse mandato de cena, io era facta santa del Paradiso. Quando venne l’hora del dormire, ricordandome de havere cussi trista stantia, come è questo bucintoro tutto busato, me fugiva la voglia de andare a lecto. E la poveretta della Ill.a M.a Marchesana, sentendose fredda et senza focho, cominciò a dolerse, dicendo che l’era morta: finalmente se pose a lecto et me chiamò appresso perchè la scaldassi„.
Le nozze ducali diedero occasione per straordinari festeggiamenti ed addobbi nel Castello di Porta Giova, volendo il Moro eclissare le feste che, per le nozzecorte ducale - colonna votiva, già di fronte alla chiesa di s. antonio, porta di accesso alle sale destinate al governatore spagnuolo. di Isabella d’Aragona con Giovanni Galeazzo Sforza, erano state celebrate pochi mesi prima, nel gennaio 1489. Alcuni particolari della vita spensierata delle due giovani spose sono ricordati in una lettera dello stesso Lodovico, nei primi mesi del suo matrimonio:
“Io non potria explicare la milesima parte de le cose che fanno et de li piaceri che se pigliano la Ill.a Duchessa di Milano et la prefata mia consorte, de fare correre cavalli a tutta briglia et correr dietro a le sue donne et farle cadere da cavallo: et essendo qui a Milano, se misseno heri che pioveva ad andare loro due cum quattro o sei done per la città, a piedi, cum li panicelli, Cioè sugacapi, in testa, perparte inferiore della torre di bona e la statua di san giovanni nepomuceno. andare a comprare de le cose che sono per la città: et non essendo qui la consuetudine de andare cum li panicelli, pare che per alcune done gli volesse esser detto villanie, et la prefata mia consorte se azuffò et cominciò dirle villanie a loro, per modo che se credeteno de venire a le mani. Ritornarono poi a casa tutte sguazate et strache, che facevano uno bello vedere„.
Nel 1492 Isabella d’Este, ritornata a visitare la sorella Beatrice nel Castello di Milano, così scriveva a Ferrara:
“Hozi il Sig. Lodovico ne ha mostrato el tesoro, qual altre volte ha anche veduto V. S. ma con gionta de due casse piene de ducati et una de quarti, che ponno esser longe due braza e mezo l’una, et large uno e mezo, e altrettanto alte: che Dio volesse, che nui che spendiamo voluntera, ne havessimo tanti„.
Dal Castello di Porta Giovia, Beatrice amava portarsi ai boschi di Cusago, per divertirsi: il capitano Galeazzo Visconti così scriveva ad Isabella d’Este, nel febbraio del 1494:
“Questa matina, che è venerdì, la Duchessa (Beatrice) cum tute le sue done e io in compagnia, siamo montati a cavallo a XV ore, et siamo andati a Cusago e me bisognò montare in careta insieme con la Duchessa et Diodà (buffone) et qui cantasemo più de XXVuna sala terrena della rocchetta. - Scoltura moderna. canzone molto bene acordate a tre voce, con Diodà tenore, et io, quando contrabasso, quando sovrano, et la Duchessa sovrano, facendo tante pazie che credo de aver fato questo guadagno, de esser magior pazo che Diodà„.
Arrivati a Cusago si recarono a cacciare, uccidendo “parecchi uxeli, et fato questo, ad ore XXII andasemo ad una cacia de cervi e caprioli, et amazato doi cervi e doi caprioli, setomba di regina della scala moglie di bernabò visconti. ne venissemo a Milano a una hora de nocte„.
Assai meno fortunata di Beatrice d’Este, Isabella d’Aragona, aveva dovuto finire per ritrarsi collo sposo in disparte, nel Castello di Pavia, per lasciare al Moro libero il campo di trasformare in vero dominio personale la tutela del giovanetto Giovanni Galeazzo, in attesa della morte di questi, avvenuta nel dicembre 1494. L’infelice giovane aveva voluto negli ultimi momenti di vita rivedere i cavalli suoi prediletti, che gli furono condotti nella stessa camera nella quale agonizzava. Rimasta vedova, Isabella ritornava a Milano, ed ecco come riponeva il piede nel Castello di Porta Giovia, nel quale cinque anni prima era entrata per la prima volta con straordinaria pompa: “Jeri sera la Duchessa Isabella giongete a Milano et la Duchessa nostra (Beatrice) li andò incontro doe milia fora de la terra, et subito la Duchessa nostra dismontò de la careta et montò ne la sua, ne la qual careta se faciva di gran pianto: et così tornasemo inverso el Castello, dove trovasemo el Duca a le porte del giardino: si cavò la bareta e acompagnola nel Castelo a la camera dove alozava prima. Poi che furono ne la camera se asetarono, et sempre la Duchessa Isabella non fece se non piangere. Et non è sì duro core che l’avesse veduta che non li fosse venuta compassione, lì con tre filioli,tomba del vescovo magaroto - sala degli «scarlioni». magra, desfata in un abito a modo de una chapa da frate, larga e longa che andava per terra, de uno pano de quattro soldi el brazo, negro non cimato, et uno pezo de burato in capo che li copriva li ochi„.
Troviamo pure argomento, nella vita di Isabella d’Aragona, per rilevare come le abitudini primitive, che ci hanno meravigliato nella vita intima della famiglia ducale, non fossero una eccezione della famiglia Sforza. Infatti, devesi ricordare come Isabella fosse nata dal matrimonio di Ippolita, figlia di Francesco Sforza, con Alfonso d’Aragona, in sèguito al quale matrimonio si erano stabiliti dei rapporti famigliari fra le due corti di Napoli e di Milano; e un ricamatore milanese, Nicolò da Gerenzano, che nel maggio 1473 si era recato alla decorazione della volta, nella sala delle “asse„. Corte di Napoli, così descrive una scena intima di quella Corte, nell’occasione di una grave malattia della giovinetta Isabella: “oniuno la giudicava morta et tuta la corte in oratione, dico dei nostri e nostre lombardi: questi nobili cortexani napoletani per lo affano de la Ill.a madona stavano in guardacamera con tale poca riverentia a ridere... trarsi dreto cussini l’uno con l’altro, con tante inoneste parole, che a mi paria un altro mundo: tanto più che madona (la madre Ippolita Sforza) mandava a loro le sue done, pregandoli che volessero taxere, ne mai per questo restarno„.
Lo stesso Nicolò ci tratteggia una scena intima della Corte del Re d’Aragona:
“La matina de Pascha, fata la mia chomunione, andai in Castello Novo per vedere la messa del signor Re, et a la predica vennero le figlie del re con alcune donne, tra le qualli una disse al frate, in mezo de la predica, che facesse presto. Et stando a quella predica, non avendo altro pensero, uno di questi cani (napoletani) me inverso le maniche del vestito, del che mi corrogai, anche perchè continuamente me pongeno con parole; non di manco sararò gli ochi, stoparò la bocha„. Egli scriveva pure di trovare scarso il cibo alla tavola del re, “maxime considerato come s’è nutrito e servito S.a Signoria„.
Colla prima capitolazione del Castello di Porta Giovia, avvenuta nel settembre 1499, si chiuse il periodo prettamente sforzesco, durato meno di mezzo secolo, ma denso di avvenimenti e ricco di episodi. Quella capitolazione passò nella storia come l’esempio di uno dei più vergognosi tradimenti. Con ingente sacrificio di denaro, e con un lavorìo durato senza alcuna tregua per mezzo secolo, gli Sforza avevano riedificato e messo in condizione di valida difesa il Castello di Porta Giovia, “da cui — come confessava Lodovico il Moro — dipende la conservazione de tutto el Stato nostro„; ed il Corio, ch’ebbe a giudicare questo Castello “il più superbo e forte che sia in terra piana, per tutto lo universo„, narra come con mille ed ottocento artiglierie, e con infiniti approvvigionamenti lo avesse munito Lodovico nel 1499, per resistere all’esercito invasore di Luigi XII.
Stava alla custodia del Castello, fin dal 1492, Bernardino da Corte, destinato dal Moro a quel posto “per la fede, integritate et sufficientia sua„. Impaurito per l’appressarsi delle truppe francesi condotte da G. Giacomo Trivulzio, e per i sintomi di rivolta nella città, Lodovico il Moro, ai primi di settembre, abbandonava precipitosamente Milano per correre ad invocare l’aiuto dell’imperatore Massimiliano: prima di partire, baciava il castellano, promettendo di venire in suo aiuto entro tre mesi: e tanta era in lui la fede in una lunga e disperata resistenza del Castello, che nel compilare la nota dei segnali coi quali il castellano doveva, durante l’assedio, far sapere tutti i bisogni della difesa, prevede i vari casi pei quali nel Castello abbia a mancare il vino, il pane, l’olio, persino il formaggio; per il quale ultimo caso, prescriveva che dalla torre si mostrasse un guardacuore: e qualora il castellano dovesse “significar mancamento di scarpe per i fanti, mostrasse una calza verde di donna, due volte„.
Malgrado tale preparazione alla resistenza, era destino che il Castello di Porta Giovia, senza neppure simulare il minimo atto di resistenza, avesse ad abbassaresala degli “scarlioni„ - la statua giacente di gastone de foix. il ponte levatoio per accogliere i Guasconi capitanati dal Trivulzio, il rivale di Lodovico il Moro.
Il popolo milanese non esitò a riversare sul castellano tutta la infamia del tradimento: lo stesso Luigi XII, allorquando entrò in Castello, e “lo vide così bello et fortissimo et bene fornito de artelaria, molto restò meraveliato, et grandemente improperò quello nuovo Juda de Bernardino da Corte, con dire mai non doveva dar via sifatto palazzo„. Lancino Curzio non risparmiò i suoi epigrammi, tanto per il traditore, che per la dabbenaggine di Lodovico il Moro, il quale, contro il parere de’ suoi famigliari, si era ciecamente fidato nel castellano. Sulle condizioni della resa, e sul prezzo del tradimento, ben poco ci venne riferito dagli storici e cronisti dell’epoca. Andrea Prato, cronista di quel tempo, narra come “a dì 17 settembre, nel giorno dicato a Sancto Satiro, il prefato Bernardino Curcio, senza alcun pongimento d’onore nè recordatione de receputi benefizi, dette la rocca del Castello de Porta Giobia a Francesi: et Filippino dal Fiesco et Cristoforo da Calabria li dettono il Castello senza lassarsi trarre un sol colpo de artellaria: et ciò che in la rocca vi si trovò de le robbe et paramenti lasciati dietro da Ludovico Sforza, fu tutto partito tra il Trivulzio e il Curcio, il Pallavicino et il Visconte „: i quali due ultimi erano stati gli intermediari della cessione.
agostino di duccio bassorilievo in marmo museo artistico, in rocchetta.
Documenti recentemente pubblicati comprovano invece come, a spingere il Corte a tradire la causa sforzesca, abbiano contribuito gli stessi governatori di Milano, i quali inviarono Giovanni Morosini e Lodovico da Vimercate presso il castellano, allo scopo di persuaderlo “ad esser contento, cum la deditione del Castello, a salvare se et tutti li soi, et liberare questa città da li incomodi et travalji quale patiria quando se mostrasse obstinato in non volerlo dare cosicché la sera del 4 di settembre scrivevano al Trivulzio: “non siamo senza speranza chel castellano habia a prestarsi non molto difficile alla deditione, senza venire ai termini de expugnati one „ aggiungendo che i due messi “l’hanno trovato alquanto mollificato, et così non mancheremo de sollecitarlo per condurlo a questo effecto, et fare onore alla prefata S. a V.
Il tradimento, pur conservando la triste nota di una azione sommamente ingrata verso Lodovico, trova quindi qualche attenuante nelle pressioni sul castellano esercitate dalla stessa città, la quale voleva risparmiarsi i danni conseguenti da una disperata resistenza.
In aiuto di Lodovico il Moro, scendevano in Italia Svizzeri e Tedeschi, per tentare, nel febbraio del 1500, l’espugnazione del Castello con “granate, o ballote de ferro affogate de fuogo artificiado„, offrendo posi lo spettacolo di uno Sforza che dava il battesimo del fuoco a quel Castello, che era stato eretto per essere la rocca di Casa sforzesca: e la storia ricorda come l’impresa
tabernacolo in legno dipinto e dorato. andasse a vuoto perchè — come osserva argutamente il cronista Ambrogio da Paullo — i difensori “avevano desfatto quelle bombarde grosse, et refatte de più minute, che sono de più utilitate, et ben fornito de francesi alla guardia del Castello, con il castellano più fedele che Bernardino da Corte
La storia registra pure come Bernardino da Corte, vituperato non solo dai Milanesi, ma dagli stessi Francesi che gli negavano il saluto, terminasse i suoi giorni da disperato, non senza sospetto di veleno; e così pure registra come a Filippino del Fiesco sia toccata una fine degna del tradimento suo: perchè, dirigendo nel 1515, in nome di Francesco I, l’attacco del Castello di Porta Giovia, cadde ucciso da un proiettile lanciato da quegli spalti ch’egli aveva vilmente abbandonato. Un nuovo periodo di vicende, nelle quali predominarono le preoccupazioni militari, si schiuse in Castello colla caduta di Lodovico il Moro; ma, per completare il singolare contrasto fra lo sfarzo della vita esteriore, e l’adattamento ad abitudini domestiche piene di privazioni, che per noi sarebbero insopportabili, viene opportuno un ultimo bozzetto, che ci descrive in qual modo Cesare Borgia, il famigerato duca Valentino, abbia pernottato nel Castello di Milano, nell’agosto 1502.
Il Re di Francia Luigi XII, che allora si trovava a Milano, nel ritornare da una festa in casa di Erasmo Trivulzio, avendo incontrato il Duca Valentino giunto a Milano per staffetta, “lo raccolse et abraciò con molta alegreza, e lo menò in Castello, dove lo fece alloggiare ne la camera più propinqua a la sua, et lui stesso solicitò la cena sua et ordinò diverse vivande, et per quella sera, per tre o quattro volte li andò a la camera fin in camisa quando doveva entrare in lecto. Ordinò poi sescalchi e servitori per il predicto sig. Duca: et ha voluto che heri el vestisse de le camise, zupponi et habiti suoi, dicendoli che per bisogno de la persona sua non dimandasse cosa alcuna a persona viva, se non di quelle proprie di sua Maestà, cusi di questo bisogno del vestire, perch’el non ha cariaggi, come de cavalcature. Pensi la Sig. a Vostra che sua Maestà
s. gerolamo - tavola di ambrogio da fossano. pigliò cura fin de farli conciare una lectera da campo a suo modo. In summa più non si poteria fare a figliolo, nè a fratello„.
All’indomani “dopo disnare sua Maestà andò a veder danzare in casa da Francesco Bernardino Visconte, dove erano dame a questo fine, e dopo la una andò fuora de porta Renza, a casa de lo episcopo Pallavicino, pure a veder danzare: e con sua Maestà cavalcava il predicto sig. Duca di paro, e quando tornarono al Castello era più di un’hora de nocte„.
Il Castello di Milano ebbe ancora qualche giorno di splendore col ritorno di Francesco II Sforza a Milano, e in occasione del matrimonio di questi con Cristiana, figlia del Re di Danimarca.
Ma passato definitivamente il Ducato di Milano sotto il dominio di Carlo V, nel 1535, il Castello costituì il pernio di una dominazione straniera che durò più di tre secoli. Nei primi decenni di tale dominazione, il Castello venne rinforzato con un più esteso circuito di baluardi, di oltre tre chilometri di sviluppo, collegato alle nuove mura erette da Ferrante Gonzaga verso il 1552 (bastioni attuali) mediante due opere di difesa, dette Tenaglie di Porta Comasina e di Porta Vercellina.
tiziano - ritratto di senatore.
Durante il secolo XVII, il Castello non ebbe a subire assedi, od assalti; e fu solo nel 1707 che il principe Eugenio di Savoia, impadronitosi di Milano, attaccò il Castello, difeso dall’ottuagenario Marchese della Florida, Castellano spagnolo: un altro assedio ed assalto subiva il Castello nel 1733, per opera del Re Sardo, Carlo Emanuele III, comandante delle truppe gallo-sarde; ed il Castello fu preso dopo che più di 3000 uomini di queste truppe vennero posti fuori di combattimento.
Superata la minaccia di un nuovo attacco nel 1746, altri cinquant’anni trascorsero in pace, fino al momento in cui il Bonaparte, conquistato il territorio milanese, affidava al generale Despinois il compito d’impadronirsi di quella miserabile fortezza che era il Castello di Milano: e dopo parecchi giorni di attacco la guarnigione capitolava.
La rappresentanza cittadina chiese al Bonaparte che fosse deliberata la demolizione “dell’ultimo avanzo della tirannide ma non erano trascorsi tre anni e le truppe austro-russe, comandate da Mclas e Souvarow, riconquistavano la Lombardia, assediando a lor volta i francesi nel Castello: e dopo una giornata di attacco con sessanta pezzi di artiglieria li obbligavano alla resa. L’anno seguente Bonaparte, riprendendo possesso di Milano, non tardava a riavere anche il Castello, ordinandone tosto la demolizione.
I baluardi spagnoli furono nel 1800 rasi al suolo; ed il nucleo centrale, o quadrato sforzesco, servì di base per il grandioso progetto del Foro Bonaparte, ideato dall’arch. Antolini, il quale svolgeva tutti gli edifici pubblici, occorrenti alla nuova Capitale del Regno Italico, intorno a quel nucleo, di cui progettava però una trasformazione in stile classico.
Alla caduta di Napoleone I, il Castello ridiventava caserma austriaca, e base principale per tenere in obbedienza tutta la città; ma durante le cinque giornate del 1848, i cittadini riuscivano ad impossessarsi degli altri punti di Milano, rendendo così vana la minaccia del Castello, che le truppe dovettero abbandonare. Ritornati pochi mesi dopo gli austriaci, venivano accresciute le difese esterne del Castello verso la città: ma la minaccia di queste rimase sterile, poiché all’indomani della battaglia di Magenta, tali opere venivano demolite, e veniva mozzata un’altra parte dei due torrioni rotondi, rivestiti di pietra, verso la città. Dopo una serie di progetti ideati per estendere lo sviluppo edilizio sulle vaste aree di piazza d’Armi e piazza Castello, ed implicanti la demolizione, dapprima totale, poscia parziale del Castello, si venne nel 1886 a concretare il piano regolatore dei nuovi quartieri, rispettando tutta la parte corrispondente al grande quadrato sforzesco, e relativo fossato. Il Comune rilevava il Castello e le aree di piazza d’Armi e piazza Castello, obbligandosi a sistemare una nuova piazza d’Armi, a far le spese per le nuove caserme, ed a ripristinare il Castello, col proposito di insediarvi i Musei ed Archivi di proprietà comunale.
La cessione del Castello avvenne nell’ottobre 1893; e da quell’epoca, a spese del Comune e con sottoscrizioni cittadine, vennero avviate le opere di restauro, che dopo poco più di un decennio, sono condotte quasi a termine. La Corte Ducale fu assegnata alle raccolte municipali d’arte antica, disponendo al piano terreno le memorie romane e lombarde, le scolture del rinascimento e le terrecotte: e nelle sale superiori le raccolte di ceramica, i bronzi, le stoffe, i mobili, gli avori e la Pinacoteca. Una sala venne assegnata alle memorie cittadine, fra le quali campeggia lo storico gonfalone della città, eseguito nella seconda metà del sec. XVI.
La Rocchetta venne specialmente adibita alla raccolta di quadri moderni, dall’Appiani sino ai nostri giorni, a sede dell’Archivio storico del Comune, e del Museo del Risorgimento. Lungo le cortine anteriori, fìancheggianti la ripristinata torre dedicata ad Umberto I, avranno posto le scuole d’arte applicata del Comune.
Luca Beltrami.
il gonfalone di s. ambrogio - 2ª metà del secolo xvi.