Vae Victis/Parte seconda/VII
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VII.
Ben presto in Pinner l’entusiastica infatuazione per i profughi si calmò. Lo slancio di generosità esagerata cadde; e quando nelle case si riunivano le signore a lavorare per i soldati, e a raffrontare i Belgi da loro ospitati, si notava una mal celata amarezza in coloro che ne avevano in casa, e un tono di sorridente compatimento da parte di chi non ne aveva.
Si parlava dei profughi quasi come di una malattia; un estraneo avrebbe potuto credere che si trattasse degli orecchioni o delle febbri malariche.
«Pare dunque che la povera Lady Osmond li abbia.»
«Ma davvero?»
«Sicuro. Ed anche la povera signora Whitaker.»
«La signora Whitaker? È possibile?»
«Li ha, li ha, ve l’assicuro io. E mi dicono che ne soffra assai.»
«Poveretta! Bisognerà ch’io vada a trovarla,» disse Lady Mulholland, in tono di sincera commiserazione.
Ma in quello stesso pomeriggio capitò da lei precisamente la signora Whitaker.
«Ah, mia povera, cara Teresa,» cominciò Lady Mulholland afferrandole le mani e stringendogliele con eloquente simpatia. «Come stai? Come ti senti? Ho saputo che anche tu...»
«Già, già,» e la signora Whitaker ritrasse un po’ stizzita la sua mano.
«Te l’hanno detto che li ho anch’io.» Vi fu un istante di silenzio. «Te lo confesso, non me li aspettavo lugubri a tal punto.»
«Lugubri?» esclamò Lady Mulholland. «Se non è che questo....»
«Ti accerto che basta,» sospirò la signora Whitaker. «Non puoi fartene un’idea. Sono tre creature d’incubo.....»
Ma Lady Mulholland subito si lanciò in una lamentosa narrazione delle proprie pene. «Mia cara, si fanno prestare tutti i tuoi vestiti? Adoperano tutta la tua carta da lettera? Comandano loro il tuo pranzo? Danno ordini alla tua servitù? Se no, non lamentartene. Figurati» — continuò fremente di sdegno — «la mia cuoca — una perla! — mi ha dato adesso gli otto giorni. E perchè? Perchè la mia profuga, Madame Pitou, si è permessa di andare in cucina alle quattro del pomeriggio a farsi un timballo di riso coi funghi.»
«Possibile? Ah, mia povera Lucy!» disse la signora Whitaker scotendo il capo e dissimulando un sorriso. «No, questo le mie non lo fanno. Si accontentano di star sedute negli angoli, mute, immobili, spettrali, come tre fantasmi. Un giorno che avrai tempo le verrai a vedere.»
«Posso venire anche subito,» disse Lady Mulholland con alacrità. «Ma sono convinta che i miei Pitou sono mille volte peggiori.»
Sparì, e tornò quasi subito pronta ad uscire; e con un’ultima raccomandazione a Kitty di non permettere ai Pitou di far cucina in salotto uscì frettolosa accanto alla signora Whitaker.
Presero la scorciatoia traverso i campi e giunsero in pochi minuti alla Loggia delle Acacie.
«Che lingua parlano?» chiese a bassa voce Lady Mulholland seguendo l’amica che si inoltrava rapida sotto i castagni del viale.
«Non parlano affatto,» rispose quella. «E confesso che avevo proprio contato su di loro per far fare alla mia Eva e a Giorgio un po’ di conversazione francese. Era anzi per questo che le ho prese in casa.»
Si affrettavano pel viale allorchè, dal tennis-court una graziosa figuretta venne loro incontro, correndo traverso il prato. Era Eva Whitaker e la seguiva il fratello Giorgio, bel giovane in uniforme khaki.
«Ho battuto Giorgio per sei contro quattro!» gridò Eva Whitaker agitando la racchetta in segno di saluto.
«L’ho lasciata fare,» spiegò il fratello, «se no, erano bronci per tutto il giorno.» E il giovane tese ridendo la mano a Lady Mulholland e accettò la carezza, piena di affettuoso orgoglio che sua madre gli fece sulla guancia abbronzata.
«Che bel ragazzo!» mormorò Lady Mulholland; e in cuor suo si rammaricò di non aver condotto Kitty, quand’anche i Pitou avessero approfittato della loro assenza per cuocere, come già una volta, della testina di vitello in salsa piccante sul fuoco della sala di ricevimento.
«Ed essi.... dove sono?» chiese la signora Whitaker abbassando la voce e guardandosi intorno.
«Non lo so,» rispose Eva. «In tutto il pomeriggio non li ho veduti.»
«Lo so io,» interpose Giorgio. «Sono laggiù nel boschetto;» e additò una folta macchia di roveri a fianco della casa.
«Va a chiamarle, figliolo caro,» disse sua madre.
«No, grazie,» rispose lui.
«Vado io,» esclamò Eva. E corse traverso l’erba, scansando le aiuole fiorite e falciando l’erba colla racchetta.
«Deliziosa creatura,» esclamò con esuberante entusiasmo Lady Mulholland seguendo cogli occhi l’agile siloetta. Indi, fermando sulla maschia figura di Giorgio uno sguardo anche più ammirativo, ripensò a Kitty. «Bisognerebbe,» sospirò, «che le nostre care figliole si vedessero un po’ più di sovente....»
La signora Whitaker lanciò sul profilo dell’amica un’occhiata penetrante. «Furbacchiona intrigante,» pensò tra sè; e forte disse: «Hai ragione, carissima. Non appena Giorgio sarà partito per Aldershot conto di vedere qui tutti i giorni la tua Kitty.»
«Brutta maligna,» riflettè Lady Mulholland; e ad alta voce rispose: «Verrà con gioia. Si amano tanto le nostre figliole!»
Giorgio si era avviato dietro alla sorella verso il boschetto; ma già Eva riappariva — sola.
«Vengono?» chiese da lontano sua madre.
Eva scosse il capo. «Non vogliono venire.»
«Come mai?» esclamò Lady Mulholland.
«E perchè no?» chiese la signora Whitaker.
Eva si strinse nelle spalle. «Non so perchè. Ma la più grande ha scosso la testa e ha detto: «Merci!»
Giorgio rise.
«E te ne stupisci, mamma?» Volse il bel viso giocondo e schietto verso Lady Mulholland. «Lei deve sapere che mia madre ne ha fatto una specie di Esposizione Permanente. Già tutta la contea di Sussex è venuta a guardarle.»
«Vado a prenderle io stessa,» dichiarò la signora Whitaker. «Aspettate qui.» E s’avviò risoluta verso il boschetto. Indi si fermò. «Di un po’, Giorgio! Tu che hai studiato quattro anni il francese — è un mezzo parigino, sai, questo figliolo! —» soggiunse all’amica; «insegnami un po’ come devo dire questa frase: «Spero che mi farete la gentilezza di venire un momento con me; desidero presentarvi ad una mia carissima amica che s’interessa tanto alla vostra sorte.»
Giorgio riflettè alquanto; poi tradusse: «Venné.»
«Ma come? Basta così?» chiese sua madre.
«Sì, sì; basta,» assicurò Giorgio.
La signora Whitaker si avviò ma Lady Mulholland la raggiunse.
«Non sarebbe meglio che facessimo entrambe un giretto in giardino.... passando casualmente pel boschetto?»
E fecero così.
Giorgio le seguì a distanza, ed Eva gli si attaccò al braccio; ella era molto superba del suo bel fratello soldato.
Entrarono tutti nel boschetto, dove tre figure vestite a lutto sedevano su una panca.
«Misericordia!» esclamò a bassa voce Lady Mulholland. «Sono macabre davvero. Quasi quasi mi sembrano peggiori dei miei Pitou.»
Le tre nere figure si levarono lentamente in piedi; poi stettero immobili e silenziose. Lady Mulholland si avvicinò sorridente, ma provò subito uno strano turbamento quando i suoi occhi incontrarono quei tre paia d’occhi cupi e profondi che la fissavano senza sorriso. Anche lei si trovò a fissarli come allucinata.
La signora Whitaker rivolse loro la parola in inglese, parlando molto forte coll’idea di farsi capir meglio. Ma pareva che non la udissero.
Certo non fecero alcun tentativo per rispondere alle sue amabili osservazioni sul tempo.
Lady Mulholland colpita dal lugubre aspetto delle tre sventurate stese loro commossa la mano.
Due di quegli spettri risposero al suo gesto ponendo per un istante le loro mani inerti e fredde nella mano di lei. Ma la terza — Lady Mulholland si accorse con stupore che questa era una bambina, benchè portasse come le altre una lunga veste nera — nè si mosse, nè mutò la fissità dello sguardo impietrito.
Vi fu un silenzio un poco imbarazzante. Allora Lady Mulholland, facendo la sua più amabile voce da società domandò: «E così? Come vi piace l’Inghilterra?»
Nessuna risposta.
La signora Whitaker si volse a suo figlio: «Giorgio mio, domandaglielo tu in francese.»
Il «mezzo parigino» si fece avanti — timido come tutti gli inglesi davanti alle donne o al dolore. Il rossore gli salì alla fronte abbronzata, tossì e si schiarì la gola. Finalmente domandò con impeto:
«S’il vous plaît Londres?»
Aveva rivolto questa interrogazione alla più alta delle tre, ma essa lo guardò con occhi trasognati e parve non capire. Vicino a lei stava la bambina, ma anche questa nè rispose, nè parve avere udito; teneva i grandi occhi sbarrati, fissi in volto alla sconosciuta signora Mulholland, nè sembrava accorgersi che altri fossero intorno a lei.
Giorgio si fece anche più rosso in viso e si rivolse verso il terzo spettro. Tossì nuovamente, e ripetè la sua domanda:
«S’il vous plaît Londres?»
Allora accadde una cosa strana.
Il terzo spettro — sorrise!
Fu un vero sorriso, un sorriso radioso, un sorriso a fossette che trasformò subitamente lo spettro in una fanciulla incantevole.
«Merci. L’Angleterre nous plaît beaucoup;» diss’ella in francese per non offendere il suo interlocutore. Poi soggiunse in un inglese timido e corretto: «Abbiamo trovato che Londra è molto bella.»
«Oh! guarda!» esclamò la signora Whitaker in tono risentito. «Ma voi sapete dunque l’inglese?»
E la sua voce esprimeva lo stupore e l’offesa di chi vede altri adoperare senza suo permesso una cosa di sua esclusiva proprietà.
«Un poco, signora,» mormorò la giovanetta. E sotto lo sguardo austero della signora Whitaker il soave sorriso svanì, le fossette sparvero e la fanciulla ridiventò il pallido spettro di prima.
Le due dame con un cenno di saluto si allontanarono.
Giorgio ed Eva, dopo un momento d’esitazione e d’imbarazzo, le seguirono.
«Ma guarda che ipocrisia! Che falsità!» esclamò sdegnata la signora Whitaker. «Non mi hanno mai detto che capivano l’inglese!»
«Già. Avranno voluto scoprire tutti i vostri fatti di casa,» commentò Lady Mulholland.
Un mormorio indistinto uscì dalle labbra di Giorgio. Ma Lady Mulholland si convinse d’aver frainteso. Impossibile che quel caro ragazzo avesse detto «Vecchia pettegola!»
In tutti i modi non potè accertarsene, perchè il giovane senza dir altro era entrato in casa.
«Non credo affatto che siano ipocrite,» asserì Eva. «Mi sembrano piuttosto intontite, sbalordite ancora dalle sofferenze, dal viaggio.... Povere creature! Non m’ero accorta che fossero così giovani. Hai visto, mamma? La più piccola è proprio una bambina.» Fece una piroetta sui tacchi ed esclamò: «Io torno da loro a discorrere un pochino.»
«No!» fece sua madre secca e recisa. «Resterai qui.»
Quella sera, allorchè il signor Whitaker tornò dalla città, la sua diletta figliola Eva aveva molte cose da raccontargli; e anche Giorgio, che di solito aveva un contegno piuttosto distratto e indifferente, degnò interessarsi alla conversazione.
«Figùrati! I fantasmi hanno parlato, babbo!» gridò Eva correndogli incontro nell’anticamera. Poi, attaccatasi al suo braccio lo trasse in salotto e lo fece sedere in poltrona. «Ti assicuro — una rivelazione! Non sono fantasmi! E te lo dirà anche Giorgio. Sono tutte giovani; e ce n’è una che è bellissima. Vero, mamma?»
Ma sua madre non rispose, nè alzò gli occhi dal lavoro.
Fu il signor Whitaker che parlò.
«Al Comitato mi hanno detto che erano ottime persone — moglie, sorella e figlia di un dottore.»
«Misericordia! E sembrano pezzenti!» fece Eva.
«Sembrano spaventa-passeri,» disse Giorgio.
«Anche il console belga,» continuò il signor Whitaker, «mi ha detto che erano persone distintissime. Teresa,» soggiunse guardando sua moglie, «credo che avremmo dovuto insistere perchè prendessero i loro pasti con noi.»
«Ma se ho insistito,» rispose un po’ aspra la signora. «Mi hanno risposto che preferivano mangiare da sole.»
«E allora rispettiamo il loro desiderio,» concluse il signor Whitaker, aprendo una rivista commerciale.
«Ma pensa, papà,» seguitò Eva, issandosi sul bracciolo della poltrona e carezzando i capelli un po’ radi di suo padre; «pensa! la più piccola — quella cogli occhi così spauriti — è sordomuta.»
«Chi te l’ha detto?» chiese la signora Whitaker alzando gli occhi dal lavoro. «Sua madre?»
«No; me l’ha detto quell’altra — quella delle fossette, che parla inglese. Ah! quanto è carina quella! Vero, Giorgio?»
«Si chiama Chérie,» osservò il fratello.
«Si può sapere chi t’ha detto il suo nome?» chiese severamente la signora Whitaker posando in grembo il lavoro e fissando gli occhi inquisitori sul figliolo.
«Me l’ha detto lei,» rispose questi, senza scomporsi.
«Te l’ha detto lei?» ripetè sua madre. «Io non sapevo che tu facessi della conversazione con quelle donne.»
«Non ho fatto conversazione. L’ho incontrata in giardino, l’ho fermata e le ho chiesto: «Come vi chiamate?» E lei mi ha risposto «Chérie.» Ecco tutto.»
«Un nome curioso,» osservò il babbo.
«Caro Anselmo; la questione non è lì —»
Ma Anselmo non seppe mai la questione dove fosse, perchè il sonoro appello del gong li mandò tutti nelle loro camere a vestirsi per il pranzo.
Quella sera, dopo il pranzo, Eva andò come di consueto nel salotto attiguo e aprì il pianoforte; suo padre, in poltrona in sala da pranzo colle doppie porte aperte, la vedeva e ne udiva la musica mentre gustava tranquillamente il suo bicchiere di Porto e la sua pipa.
«Che cosa ti suono stasera, papà? — Rachmaninoff?»
«No. Quello che hai suonato ieri,» disse il signor Whitaker accomodandosi meglio nella poltrona, mentre il domestico sparecchiava silenziosamente la tavola.
«Ma è precisamente Rachmaninoff, angelo di un papà,» rise Eva aprendo il magnifico Erard.
Giorgio le si avvicinò e si chinò a dirle qualche cosa sottovoce.
«Sì! sì!» esclamò Eva. «Dillo alla mamma.»
«Diglielo tu,» fece Giorgio; e tornò in sala da pranzo a sedere accanto a suo padre, accendendo una sigaretta.
La signora Whitaker si fece un poco pregare; ma Eva, che sapeva essere molto carezzevole e persuasiva ottenne il consenso chiesto.
Uscì correndo dalla stanza, e ritornò quasi subito conducendo seco le tre figure nero-vestite; e poichè queste ristavano esitanti sulla soglia, essa infilò amichevolmente il suo braccio sotto quello della riluttante «Chérie.»
«Avanti, avanti! Venné!»
E i tre fantasmi entrarono.
Parevano fantasmi davvero con quei tre visi pallidi, quegli occhi fissi, e l’andatura a scatti come sonnambule.
Sedettero mute, in fila, lungo il muro. Eva andò al pianoforte e suonò.
Suonò il preludio di Rachmaninoff.
Quando l’ebbe terminato le tre ascoltatici nè si mossero, nè parlarono. Allora con arpeggiante preludio Eva passò alla Barcarola di Godard; ma la dolce malinconia di quella musica non strappò alle tre ombre nè un commento, nè un gesto. Il Carnevale di Schumann non le rallegrò; nè le commosse la Sonata al Chiaro di Luna.
Infine Eva chiuse il pianoforte.
Allora le due più alte si alzarono, s’inchinarono in silenzio ed uscirono, conducendo per mano come si conduce una cieca la più piccola, il cui pallore sembrava ancor più spettrale, il cui silenzio pareva ancor più profondo del loro.
«Infelici! Infelici!» mormorò il signor Whitaker seguendole con occhio commosso. «Teresa mia, guarda che non manchino di nulla. E quanto a voialtri» volgendosi ad Eva e a Giorgio «spero che avrete sempre tutti i riguardi per queste sventurate che abbiamo l’onore di ospitare. Giorgio,» soggiunse volgendosi al suo bel figliolo con un cipiglio che intendeva essere assai severo, «ho notato che tu le guardavi molto. Non farlo più. La sventura è sensitiva e non vuole essere osservata.»
Giorgio mormorò che non le aveva affatto guardate e se ne andò, imbronciato. Eva mise le braccia intorno al collo del babbo e gli scoccò sulle guancie quei baci rumorosi ed infantili ch’egli tanto amava.
«Vero papà, che posso andare da loro a discorrere un pochino?» gli susurrò.
«E perchè no?»
Eva non aspettò altro e se ne andò correndo nel momento stesso in cui sua madre alzando gli occhi dal suo lavoro domandava: «Che cosa c’è?»
«Ho mandato Eva a fare un po’ di compagnia a quelle infelici,» disse suo marito. «E’ nostro dovere il cercare di sollevarle, anche moralmente, quelle disgraziate! Veramente, Teresa,» sospirò, «non ho mai veduto uno spettacolo più desolante!»
La signora Whitaker si levò, agitata.
«Dove vai?» le chiese suo marito.
«A richiamare Eva,» rispose la signora.
Il signor Whitaker le prese la mano e la trattenne.
«Ma che idea, Teresa? Perchè non vuoi che quella bambina segua gli impulsi generosi del suo cuore?»
Sua moglie volse verso di lui gli occhi azzurri e turbati — begli occhi irlandesi che vent’anni fa a Dublino.... Ma quella è un’altra storia.
«Anselmo, tu non capisci. Eva non è più una bambina.»
«E che c’entra?»
«C’entra.... Insomma, non voglio che stia con quelle donne.»
Il brav’uomo si raddrizzò con viso severo. «Teresa, vuoi ch’io ti creda senza cuore?»
La fronte di lei si colorò fin sotto le morbide chiome ancora bionde, pacatamente e rigidamente divise nel mezzo della fronte.
«Pensa ciò che vuoi,» disse. «Io ti confesso che a me quelle donne dispiacciono e fanno paura.» E leggendo lo sdegno e lo stupore nel viso di lui, continuò:
«Sì, sì! paura. Non so... mi pare che qualche cosa di sinistro aleggi intorno a loro. Quando vedo Eva avvicinarle, parlare con loro... mi vien freddo — come se la nostra figliola entrasse in un mondo buio e sconosciuto. Ah! che cosa avranno veduto — che cosa avranno subìto quelle donne? E tu, Anselmo, vuoi mettere a contatto di questi sinistri misteri la candida anima di tua figlia?»
Suo marito la fissava attonito, senza rispondere.
«So che mi credi cattiva, Anselmo; so che mi credi fredda e senza cuore —»
«Un po’ severa lo sei...» disse Anselmo approfittando subito di questo stato d’animo e di cose.
«E guai se non lo fossi con voi altri tre,» disse la signora Whitaker, e gli occhi azzurri lampeggiarono.
Anselmo non osò proseguire su quella via.
«Mi pare che dovresti essere più gentile, più tenera per queste sventurate.»
«Lo so. E lo vorrei. Vorrei poter essere gentile ed affettuosa, vorrei incoraggiare i figlioli alla bontà verso di loro. Ma c’è qualche cosa — qualche cosa negli occhi di quelle donne, che mi fa orrore. E non posso, non posso vedere Eva a contatto con loro. Non so spiegarti questo istinto — ma è più forte di me.»
Vi fu un breve silenzio.
«Non ti nascondo,» disse suo marito, «che a me sembra un istinto egoista e crudele.»
Ella si alzò in piedi e di nuovo una vampa dolorosa le salì alla fronte.
«Dovremo dunque sacrificare la purezza d’animo di nostra figlia a queste estranee? Immolare a loro la sua ignoranza del male? E’ possibile che sia nostro dovere incoraggiare dei rapporti che potrebbero strappare dai suoi occhi il candido velo dell’innocenza?»
«Non lo so,» rispose grave il signor Whitaker. «Mi pare che qui ci troviamo di faccia ad uno dei mille problemi creati dalla guerra. Un problema minore se si vuole, ma tuttavia un problema. Secondo me, una ragazza che oggi è chiamata a curare i feriti — i feriti nel corpo e nell’anima — non può più vivere nella bella e puerile ignoranza d’una volta... La vera carità non può essere cieca. Per poter compatire le miserie umane bisogna conoscerle.» E come, con un gesto di dolore, sua moglie protestava, «Teresa,» continuò, «è questo un altro sacrificio che noi genitori dobbiamo portare in olocausto alla guerra. Dobbiamo dare non soltanto la vita dei nostri ragazzi — ma, se ci viene richiesta, anche la santa innocenza delle nostre figlie.»
«È crudele, è crudele!» esclamò la signora Whitaker.
«Sì. La guerra è crudele. E la vita è crudele. Ma non aggiungiamo, tu ed io, altre crudeltà alle umane tristezze!» Egli le posò una mano affettuosa sulla spalla. «Se per poter fare il bene, nostra figlia deve conoscere il male — così sia. Muoia l’incoscienza nel suo cuore, purchè vi nasca qualche cosa di più nobile — la pietà.»
Vi fu un altro silenzio; un lungo silenzio.
Indi la signora Whitaker prese la mano di suo marito, e la baciò.