Vae Victis/Parte seconda/VI
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VI.
È piacevole cosa, in un mite pomeriggio settembrino, starsene seduti nella verde quiete di un giardino in Inghilterra. Piacevole è sorseggiare il thè e discorrere del tempo e della guerra, mentre i passerotti avventurosi vi saltellano vicini sull’erba vellutata, e una lieve brezza vi porta, misto a un profumo di reseda, il lontano alito del mare.
Così pensavano nella loro anima pacata le due sorelle, Miss Jane e Miss Julia Corry, volgendo intorno gli occhi azzurri, sereni, soddisfatti a mirare i prati, i passerotti, il servizio d’argenteria, i crostini imburrati, e la loro migliore amica Miss Lorena Marshall, venuta da Harrow a prendere il thè con loro e di cui le serene pupille brune riflettevano la stessa pacata felicità.
Tutte e tre avevano, sotto alle ravviate chiome grige, il viso ancora giovane; tutte e tre avevano entro il severo petto verginale un cuore impressionabile e tenero; tutte e tre avevano attraversato l’esistenza, contegnose ed impeccabili, senza deviare mai dalla più rigorosa anglosassone convenzionalità.
Erano sublimemente ingenue, divinamente caritatevoli, e inflessibilmente austere.
«È piacevole cosa, invero,» ripetè Miss Julia colla sua voce in falsetto un po’ querula. Essa era la più giovane delle tre — aveva appena quarantacinque anni — e sua sorella e l’amica la trovavano di vedute assai moderne. «Ammetto che anche sul Continente non si sta male, se si passa l’estate nella Svizzera e l’inverno a Montecarlo —»
«Oh! Julia, cosa dici!» interruppe scandolezzata Miss Jane. «Perchè parli di Montecarlo? Se non ci siamo rimaste che un quarto d’ora?»
«Tanto peggio!» ribattè la ribelle Miss Julia. «Dovevamo rimanerci di più. Il mare era di un’azzurrità di sogno, e le toilettes di quelle donne! — una rivelazione! Tuttavia, come dicevamo, l’Inghilterra resta pur sempre....»
Noi tutti sappiamo ciò che resta sempre per il cuore delle inglesi l’Inghilterra. E nell’enumerazione dei pregi e privilegi di quella beata isola sarebbe trascorso piacevolmente tutto il pomeriggio, se non veniva Barratt, il domestico, ad annunziare l’arrivo di altre visite.
Era Lady Mulholland e sua figlia Kitty che giungevano in dog-cart da Windford, ed ora s’affrettavano attraverso il prato, colle gonne fruscianti, i cappelli infiorati e le velette di trina al vento.
Si rifece il thè per loro ed esse portarono la loro nota nuova alla conversazione.
«Figuratevi che siamo state a trovare la signora Davidson,» disse Kitty.
«A proposito, non pensate anche voi di prendervi in casa qualche profuga?» chiese Lady Mulholland a Miss Jane. «I Davidson ne hanno presa una.»
«Ma come! I Davidson ne hanno presa una?» esclamò Miss Marshall.
«I Davidson ne hanno presa una!» fecero eco Miss Jane e Miss Julia Corry.
«Sicuro,» disse in tono un po’ sarcastico Lady Mulholland. «E mi pare che se loro si permettono di tenerne una in quella meschina casa che hanno, ce lo potremmo permettere anche noi.»
«Già; sono di gran moda oggi i rifugiati,» osservò Kitty a Miss Lorena Marshall. «Tutte le migliori famiglie ne hanno.»
«Sì, ma via! I Davidson!...» esclamò Miss Marshall. «Come mai possono permettersi questo lusso?»
«Hanno licenziata la cameriera,» spiegò Lady Mulholland, «e fanno fare da sguattera a questa povera donna belga.»
«Che a casa sua,» saltò su a dire Kitty, «era una signora dell’aristocrazia. Molly Davidson mi ha assicurato che è veramente una gran dama! Marchesa, contessa, o che so io.»
«Già;» soggiunse sua madre. «Mi hanno anche detto che i letti li rifà molto male.»
«Povera creatura!» sospirò Miss Jane.
«Secondo me,» proseguì Lady Mulholland, «è assurdo che i Davidson si diano il lusso di avere una contessa forestiera a rifare i loro letti, mentre noi, che abbiamo delle discrete entrate e delle case decenti, stiamo a guardare. — Grazie, cara, due pezzi di zucchero. — Difatti, oggi ho scritto al Comitato offrendo ospitalità ad una famiglia di due o tre persone.»
«Quanto sei generosa!» esclamò Miss Jane; e Miss Julia fece una timida carezza alla mano grassoccia di Lady Mulholland che reggeva la tazza di thè.
«Noi altre, a dir vero, non ci avevamo ancora pensato,» si scusò Miss Jane. «Ma se possiamo in qualche modo soccorrere queste infelici, lo faremo con molto piacere.»
«Oh, certo! Siete così angeliche!» esclamò l’impulsiva Kitty, circondando d’un braccio robusto le rigidette spalle di Miss Jane e schioccandole un bacio sulla guancia.
Miss Jane arrossì di piacere.
«E allora, che passi si fanno per avere una di queste profughe?» chiese Miss Lorena Marshall. «Anch’io potrei trovar posto per qualcuna in casa mia. Anzi, non mi spiacerebbe affatto. Sono lunghe le serate per me che vivo sola; e riprenderei volentieri un po’ di conversazione francese.»
Lady Mulholland, a cui ella s’era rivolta, indugiò alquanto a rispondere; quindi in tono piuttosto asciutto disse: «Potete scrivere al Comitato per i rifugiati, a Kingsway; oppure al Consolato Belga.» Vi fu una pausa. «I Davidson devono averla avuta dalla Lega pel suffragio femminile. La prevengo però,» soggiunse guardando con occhio frigido la signorina Marshall, «che il Comitato, a quanto mi si dice, è particolarmente rigoroso. S’informa per filo e per segno sul conto di coloro che vogliono i profughi. Non li manda, così, a chiunque ne faccia domanda.»
Vi fu un nuovo silenzio; quindi Lady Mulholland e sua figlia si alzarono e presero commiato.
A Miss Julia, che le accompagnò fino al cancello, la signora osservò a bassa voce: «Ma guarda un po’ che impertinenza! Quella Miss Marshall che ha il coraggio di voler prendersi in casa una profuga! Lei!... Col suo passato!»
«Che passato?» chiese stupita Miss Julia, spalancando gli occhi cilestri un po’ sbiaditi. «Che cosa dici mai?!»
«So ben io cosa dico,» ribattè l’amica con una crollata del capo che fece fluttuare ai venti il velo di trina bianca. «So ben io!... cara Julia, credimi: quando si vive tanto tempo all’estero» — e Lady Mulholland scosse vicino al naso di Miss Julia un indice sapiente e ammonitore — «c’è sempre qualche cosa sotto! Qualche gatta che ci cova.
— Dunque addio. Vi aspetto mercoledì al thè in casa mia.»
E la gentildonna salì in carrozza seguita dalla sorridente Kitty, lasciando Miss Julia muta ed esterrefatta sotto gli alberi del suo giardino.
Dopo qualche istante di dolorosa riflessione Miss Julia ritraversò il giardino colla fronte pensosa e l’animo turbato. Ma come! Nè lei nè sua sorella si erano mai preoccupate del passato di Miss Lorena Marshall.
Era prudente questo?
Miss Marshall a vero dire non evocava per nulla l’idea di un passato; tanto meno di un passato esotico, che alla mente di Miss Julia e di Miss Jane si associava vagamente a un terribile libro intitolato — «Pour lire au bain» — che era loro capitato in mano, ed a certi lochi infernali chiamati Bullier e Tabarin.
No; il pudico cappellino nero, correttamente assiso sulla capigliatura color pepe e sale di Miss Marshall non mostrava invero la più lontana parentela con quei folli «petits bonnets» che si buttano al disopra dei mulini in un momento di giovanile ebbrezza. Le sue solide scarpe a tacco basso e punta quadra respingevano risolutamente ogni idea che il piede così giudiziosamente calzato avesse potuto un tempo scendere danzando la fiorita china del peccato.
«Secondo me, è una malvagia e crudele calunnia,» mormorò Miss Julia; e appena fu sola con la sorella gliene parlò.
Anche Miss Jane respinse sdegnata l’ingiuriosa insinuazione, e quando nella serata il Reverendo Smyth, curato di Pinner, venne per discutere con loro i preparativi di un imminente concerto di beneficenza, le due sorelle confidenzialmente chiesero la sua opinione. Da quanto tempo conosceva egli Miss Marshall? Ne aveva udito parlare prima ch’essa venisse a Pinner? Gli pareva possibile ch’ella avesse un passato? Un passato.... continentale?
Il giovane Reverendo sorrise, e disse che secondo lui tale sospetto era ridicolo e poco caritatevole.
«Lei dirà, caro Mr. Smyth,» disse Miss Jane, «che mia sorella ed io siamo due zitellone noiose, dalle idee ristrette — » il curato fece un gesto di cortese protesta.
«Già; bisogna compatirci. Siamo zitellone noiose dalle idee ristrette,» ripetè Miss Julia.
Era questa una frase prediletta dalle due signorine Corry; la dicevano ad ogni istante — un po’ per farsi contraddire e un po’ per una specie d’umiltà che sta assai vicina all’orgoglio. Non era già un segno d’indubbia superiorità il riconoscersi dei difetti? E poi questa «ristrettezza d’idee», non è quasi sinonimo di «nobiltà d’idee,» quando significa il giusto aborrimento d’ogni volgarità e sconvenienza?
Quando, il mercoledì seguente, le due signorine Corry andarono a rendere la visita a Lady Mulholland trovarono la sala di ricevimento piena di gente. Tutta Pinner e Hatch End e Harrow si dava convegno ai thè di Park House.
Le due sorelle entrarono, un po’ timide; Lady Mulholland, molto circondata e prodigandosi a tutti, le accolse con distratta gentilezza.
Kitty, gaia e affettuosissima, offrì loro con premura il thè.
C’erano anche le Davidson. («Che pessimo gusto hanno nel vestire,» osservò Miss Jane a Miss Julia; «nessuno porta il raso per l’afternoon tea!») Madre e figlia Davidson formavano il centro di un gruppo di persone, e, rosse in viso, stavano narrando la serie di guai avuti con la loro profuga contessa belga.
«Anzitutto non era affatto contessa,» diceva Dolly Davidson, con broncio puerile.
«E poi non era nemmeno belga,» soggiunse la povera signora Davidson, scotendo il capo piumato. «Mi stupisco che la Lega per il Suffragio Femminile ce l’abbia mandata. Figuratevi che ci confessò, partendo, d’essere una artista di varietà, nata a Linz! E non sapeva parlare che il tedesco e lo czeco. Dire che noi abbiamo sempre creduto che parlasse fiammingo!»
Le ascoltatrici dissimularono appena sotto un’apparenza di lieve commiserazione i loro sorrisi di giubilo. Ah, che meritata lezione! Ma come?! Questa insignificante Clara Davidson (Davidson padre aveva qualche oscuro impiego nella city) si era data tante arie con quella sua contessa! Ed ecco che doveva confessare d’aver ospitata una canzonettista austriaca!
«Mia povera cara amica!» esclamò Lady Mulholland. «Come avete fatto a liberarvene?»
«Ma...» balbettò la infelice signora Davidson arrossendo, «venne un uomo — un brutto tipo — a cercare di lei tardi l’altra sera, e fecero molto chiasso in anticamera. Non so se litigavano o altro...»
«Poi sono andati disopra tutt’e due,» aggiunse la loquace Dolly Davidson. «La mamma ha mandato su Reggy a chiamarli.» Reggy, un torpido adolescente che in quel momento aveva la bocca piena di torta, arrossì — «per dire che dovevano scendere e andar via subito. Ma Reggy rimase su, e quando sono salita io a cercarlo l’ho trovato che guardava dal buco della chiave.»
«Non è vero,» borbottò Reggy.
«Basta; abbiamo dovuto chiamare un policeman,» concluse rapida la signora Davidson. «E’ stata una cosa veramente spiacevole.»
Il penoso silenzio che seguì fu rotto da Lady Mulholland.
«Confesso,» disse, «che non è senza trepidanza ch’io attendo l’arrivo dei miei profughi.»
«Quanti ne aspetti, cara?» chiese Miss Julia Corry.
«Quattro,» rispose lugubre Lady Mulholland. «Se potessi mandare un contrordine!...»
«Ah, no!» esclamarono in coro tutte le amiche. «Una volta che le hai invitate devi accettarle.»
Arrivarono difatti il giorno seguente: una madre, magra e insignificante, due ragazzotti taciturni e grassi, e una ragazzina dall’aria furba, con due occhi vividi da furetto.
Si chiamavano Pitou.
Dal giorno che avevano abbandonato la patria, la casa e i beni — questi consistevano in un piccolo Restaurant in un’oscura viuzza di Bruxelles esalante un effluvio perenne di ragoût di montone — i quattro esuli non si erano trovati troppo male.
Appena sbarcati in Inghilterra avevano appreso ch’erano degli eroi. Erano stati acclamati, insieme ai loro compatrioti, quali salvatori d’Europa. Con stupore non disgiunto da compiacenza avevano ascoltato i discorsi pronunziati in loro onore, nei quali si assicurava che la riconoscenza del mondo intero non avrebbe mai ripagato il debito che la civiltà aveva contratto verso di loro.
Non c’era quindi da stupirsi se questi profughi — come molti altri — accettavano come di diritto e colla massima naturalezza tutto ciò che veniva loro offerto.
Mangiavano tutto il giorno — e nella notte tenevano accanto al letto dei biscotti che all’indomani buttavano via. Esigevano burro e marmellata a tutti i pasti; mettevano zucchero nel vino e acqua di fior d’arancio nel latte; si lagnavano assai che il caffè non era buono.
Se faceva freddo si mettevano sulle spalle il mantello di lontra di Lady Mulholland e le sciarpe di seta di Kitty. Parlavano poco, e sempre a bassa voce tra di loro.
Passavano gran parte della giornata nel salotto, sdraiati in poltrona a sfogliare le riviste illustrate. Scrivevano molte lettere e prendevano i francobolli dal cassetto della scrivania di Lady Mulholland.
Non ringraziavano mai di nulla.
Perchè avrebbero dovuto ringraziare?
Non avevano forse salvato l’Europa? Se non erano loro, dove sarebbe a quest’ora il mantello di lontra di Lady Mulholland? Se non era il Belgio a quest’ora sui divani di casa Mulholland si sdraiavano gli Ulani; e verrebbero gli Ussari della Morte a mangiarsi le conserve di casa Mulholland, a servirsi di francobolli e a criticare il caffè. Comment donc!
E non avevano essi, Pitou, per salvare l’Europa, abbandonato tutto? La patria? La casa? Gli affari?...
Ben presto il meschino Restaurant nel Passage de la Pompe assunse nei loro appassionati ricordi una magnificenza e un fasto di Grand Hôtel. Le souvenir, cet embellisseur, con un rapido gioco di prestidigitazione ne cancellava la sudicia insegna, faceva sparire candele, limoni, sardine e mosche dalla vetrina d’entrata, costruiva qualche piano di più, una facciata a colonne, e riempiva l’imponente fabbricato di clienti ricchi e titolati.
«A proposito, come si chiamava il vostro Hôtel?» chiese un giorno Lady Mulholland. «Noi, andando a Spa, abbiamo pernottato a Bruxelles; e mi ricordo che abbiamo alloggiato in un eccellente Albergo. Il Britannique, o il Métropole, o qualche cosa di simile.»
Madame Pitou si rivolse con un sospiro a sua figlia che soleva fare da interprete:
«Toinon, dille tu il nome del nostro albergo,» sospirò. «Traducilo dal francese.»
E Toinon tradusse: «Ristorante Al Gaio Anatolio o Alla Lepre Saporosa.»
«No; non Ristorante — Hôtel» corresse Madame Pitou. «Hôtel Alla Lepre Saporosa.» E sospirò profondamente.
Indi soggiunse: «Toinon, avvisa questa gente che vogliamo un potage aux poireaux per questa sera. Io non voglio nè posso più ingurgitare quelle brodaglie nere che in questo paese si ha il coraggio di chiamare minestra.»