XVII. In qual modo don Peppino disimpegna un’ambasciata

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XVII. In qual modo don Peppino disimpegna un’ambasciata
XVI XVIII

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XVII.

In qual modo don Peppino disimpegna

un’ambasciata.

Divina Lilia,

Non dovrei scrivere oggi perchè mi trovo sotto l’impressione di un fatto atrocemente bizzarro. Figuratevi che nel golfo di Quarnero venne ucciso un pescecane nel cui ventre si trovarono un paio di calzoni e due stivali. Mi direte che alla mia età dovrei pur sapere che il pescecane mangia l’uomo. E avete ragione, come sempre; ma [p. 249 modifica]sentire che lo ha digerito mentre le scarpe ed i calzoni resistettero all’azione chimica del suo stomaco, abbiate pazienza, ciò mi affligge e mi umilia.

Fra le considerazioni malinconiche suggeritemi da tale avventura va notato che da qualche tempo mi credevo agguerrito contro la morte prematura, avendo condensato in tre regole principali il segreto della salute: Primo, respirare bene, tenendo chiusa la bocca, largo il torace, busto eretto per emettere così l’aria cattiva che si trova nei polmoni e che attossica lentamente il sangue; poi immettere l’aria pura con lunghe profonde aspirazioni. Si vuole che tale sistema rinforzando l’intero organismo giovi anche contro la caduta dei capelli... ma lasciamo andare. La seconda regola consiste in una applicazione scrupolosa della massima di Voltaire: Nulla di troppo in qualsiasi genere. A buon intenditor poche parole, perchè gli abusi conducono alla arteriosclerosi, il quale nomaccio, per risparmiarvi o divina Lilia la fatica di cercare sul dizionario, vuol dire indurimento delle vene. Terza regola infine, una benintesa ginnastica per conservare agilità alle membra, vigorìa ai muscoli ed equilibrio fra gli umori. Ma a che serve tutto ciò se il primo pescecane in cui vi imbattete...

Oh! Dio, ho paura di somigliare ai postiglioni del buon tempo antico che facevano [p. 250 modifica] troppo scoppiettare la frusta al momento della partenza. Non crediate almeno che l’abbia fatto apposta! Un filosofo ha detto che l’albero cresce per via di sillogismi; invidio la terra che ha tanti sillogismi a sua disposizione mentre io non ne trovo uno solo per mandare avanti questa lettera in modo degno della squisita creatura a cui è diretta. Del resto, mi succede sempre così: sono tanto sciocco quando non ho nulla nel cuore e lo sono pure quando è troppo pieno... Per carità non affrettatevi a trarne una conclusione, altrimenti il sillogismo lo mettereste voi a tutto mio danno.

Sono stato all’Esposizione artistica pensando che vi farebbe piacere di saperne qualche cosa. Non c’è nulla, cara amica, nulla. Troppi alterano il vero scopo dell’arte coltivando il campo più gretto di essa, quale è l’esecuzione, dimenticando di studiare il cuore umano e le diverse passioni che lo agitano. E vi sono eziandio quelli che si immaginano che basti avere un pensiero mattacchione o strambo per fare un buon quadro. Ho incontrato laggiù X, uno dei vostri centomila innamorati, il quale, in attesa del divorzio spera sempre di farvi accettare la metà del suo cuore e del suo giornale. Io gli ho rammentato mister Wilss che viene regolarmente tutti gli anni da Filadelfia a mettere ai vostri piedi il suo cuore tutto intero e i suoi milioni, e [p. 251 modifica] l’ho esortato a non illudersi troppo. Che ne dite, mia regina? Non parlo di me che sono il più devoto dei vostri servitori.

In verità non so che diavolo m’abbia oggi; non mi riesce di raccapezzare le idee. Non vi ho detto nulla, nevvero? eppure ho tante cose da narrarvi. Un ufficiale mio amico aveva un can barbone addestrato a portare il paniere delle provviste. Accadde una volta che se lo lasciasse sfuggire di bocca rovesciando per terra il contenuto che si trovò essere per combinazione due o tre dozzine di gamberi vivi. La sorpresa del cane non fu piccola quando vide andare in giro la mercanzia del suo padrone, ed armeggiando or con l’una or con l’altra zampa tentava di ripigliarla, ma non riusciva ad altro che a farsi pungere senza ricondurre neppur uno dei fuorusciti al paniere.

Così è. Ho rovesciato anch’io il mio paniere e i pensieri scappano un po’ qua un po’ là, molti di essi a ritroso per fatale analogia! Basta, abbiate pazienza, che cercherò dal mio canto di trovare un po’ di coraggio, e chi sa che pian pianino non si arrivi. Tanto, la giornata è pessima. Le nebbie di novembre sono già cominciate. Che tempo fa sul lago?

A proposito: stavo ieri nella mia camera rileggendo i pensieri di Rivarol, quando mi venne introdotto un ometto... Pazienza, vi ripeto, [p. 252 modifica] pazienza. Se lo aveste visto che cara fisonomia di galantuomo, che occhi ingenui pur attraverso un velo di lagrime... Sulle prime pensai quello che certamente pensate anche voi in questo momento; ma non si trattava di ciò. L’ometto (vi giuro che bisogna volergli bene per forza) mi disse che Egli è la speranza più fulgida della famiglia e la sua sola consolazione, povero vecchio, che prometteva tanto dopo quello splendido esame, che lo aspettano, che c’è a Bergamo il posto pronto, che se tarda ancora lo offriranno ad un altro... No, non potete immaginarvi quale eloquenza si sprigioni da un volto che soffre e che pare vi dica con una fede profonda nella fratellanza umana: Tu puoi aiutarmi!

L’amore, lo so benissimo, è l’ala che Dio ha dato all’uomo per salire. È l’architetto dell’universo. Ed è anche il più piccolo e il più potente degli Iddii mitologici. Diana di Poitier, che alla morte del marito aveva assunto per divisa una freccia uscente da una tomba col motto: Restée seule elle vit en lui, quando fu la favorita in titolo di Enrico II scelse quest’altro motto: Omnes victorem vici. Il piccolo Iddio, crescendo, aveva mutato opinione. Sono cose che si vedono tutti i giorni.

Del resto giudicate voi. Solo vi ripeto che quell’ometto nella sua semplicità grandiosa mi [p. 253 modifica] ha fatto una impressione vivissima e gli ho promesso... Ecco, ecco che i gamberi pungono. Lilia, cara amica, scappo come avrà fatto probabilmente il can barbone e lascio ai vostri piedi il mio paniere rovesciato.

Don Peppino

· · · · · · · · · · · · ·

Seduta nella poltrona bassa della contessa, davanti a un grigio mattino di novembre, Lilia meditava cogli occhi fissi sugli alberi del giardino non più verdeggianti come un tempo ma rari di foglie e di colore bruno; e alternava l’attenzione concessa agli alberi con lente occhiate ad uno specchietto ovale abbandonato sul tavolino della vecchia contessa, accanto a un fermacarte reggente la figura coricata di una ninfa.

L’equilibrio che era la dote spiccatissima della sua bellezza fisica trovava un riscontro nell’anima aperta ad ogni sentimento e di nessuno schiava. L’eccesso non esisteva per lei; tutto ciò che non era armonico la urtava come una stonatura o come una tinta di cattivo gusto. Sincera, non aveva mai mentito nè a sè nè ad altri. Libera, nel significato più assoluto, seguiva la logica naturale del suo temperamento e di una coscienza che provava difficilmente le oscillazioni del dubbio. Per questo la lettera del vecchio amico non l’aveva sorpresa; era anzi venuta in aiuto alle sue proprie riflessioni e la [p. 254 modifica] conclusione doveva scaturirne limpida, senza reticenze.

— Per me e per lui, — mormorò a fior di labbra tentando con l’indice la gota davanti allo specchietto: — È necessario.

Un’ombra si interpose tra la finestra e gli alberi. Era Mansa che attraversava il giardino tenendo in braccio il figliuoletto della sua nuora. Lilia la chiamò dirigendole la parola al disopra della finestra. La donna allora depose a terra il piccolo Ni e rimase ad ascoltare con la sua calma sicura, le braccia appoggiate all’ampio grembo materno, con un sorriso buono dischiuso fra poche rughe composte quasi non si arrischiassero ad invadere quel volto di serenità antica. Ni le saltellava intorno come un pulcino ed ella senza guardarlo lo vedeva e gli sorrideva.

— Mansa, — disse Lilia ad un tratto: — voi non avete mai pianto?

— Oh! signora, come sarebbe possibile? Ho pianto tanto quando morirono i miei figliuoli, e altre volte ancora, tante volte!

— Sembrate così felice ora...

— Mi accontento.

— Si guarisce dunque?

— Di tutto si guarisce; e poi si ammala e si guarisce ancora. Facciamo tutti così, poveri e ricchi, sapienti e ignoranti. Io penso che le [p. 255 modifica] condizioni sono diverse, ma la vita è sempre quella e bisogna viverla.

— Bisogna viverla, — ripetè Lilia nel suo interno, mentre Ni prendeva la rincorsa sul viale e Mansa con dolcezza lo chiamava: Ni! Ni!

Come era soavemente malinconico quel mattino di novembre! Le nebbie di cui parlava don Peppino non erano giunte fin là e non vi sarebbero giunte forse mai, ma alitava pure sulla spiaggia ridente un soffio del gelo vicino; il lago più deserto, gli alberi meno densi, gli insetti morti o rintanati. Lilia ebbe un leggero brivido stringendosi nella vestaglia di morbida flanella del colore delle rose morte. Si guardò ancora nello specchietto ovale della contessa e ancora fuori della finestra, e sospirò.

Ippolito sopravvenne in quel punto, eccitato da una lunga corsa, con le guance fresche, l’occhio acceso. Aveva visto la neve sulle montagne della Valtellina e questo spettacolo lo riconduceva alla sua non lontana adolescenza, quando la prima neve gli offriva le maggiori distrazioni al paese natìo e che Rosalba diceva: «Bisogna mettere da parte le tre mele per guarire i geloni: una da mangiarsi in dicembre, l’altra in gennaio, l’altra in febbraio». Entrò nel salotto quasi correndo e si fermò davanti a Lilia gettandole sui ginocchi un ramoscello di gaggie.

— Invece dell’olea, — disse. [p. 256 modifica]

Ella, raccogliendo i fiori, si alzò per abbracciare l’amico e intanto la lettera che era scivolata dietro la poltrona cadde a terra. Ippolito fece per metterla sul tavolino.

— Tienila. La leggerai poi.

— Ma è per te.

— Non importa. Leggila.

Nel salotto vicino li attendeva la colazione. Ippolito guardò le prime parole della lettera, guardò la firma, sorrise, si pose la lettera in tasca e offerse il braccio a Lilia.

Lilia restava sempre mesta. Il terribile dono di vedere chiaro davanti a sè le metteva in luce tutte le sinuosità del pericolo e l’asprezza della lotta che stava per combattere. E una stanchezza inusitata l’assaliva dopo un così lungo periodo di pace, una repulsione a combattere ancora, un profondo ineluttabile bisogno di riposo. Ma comprendeva egli ciò? No, non lo comprendeva.

Questa era la tristezza maggiore. In qual modo levargli la benda dagli occhi? Come dirgli che tutto era stato un sogno? Ciò che in lei era tristezza non diventerebbe per lui disperazione? Tanto era giovane! Tanto inesperto! Oh! egli non aveva mai amato prima, egli non sapeva le dure leggi che governano il più soave dei sentimenti! Un abisso li divideva... ed egli non lo sospettava neppure. [p. 257 modifica]

Sul finire della colazione Mansa portò in tavola un piatto di noci.

— Se fossero ciliege! — esclamò Ippolito: — Questa primavera, Lilia, questa primavera anderemo noi stessi a coglierle da quell’albero in fondo all’orto.

Ma che cosa sperava? Che cosa credeva? Lilia volle abbozzare un sorriso che le riuscì forzato e Ippolito naturalmente lo interpretò in un senso opposto al vero.

Poi Lilia sali nella sua camera e Ippolito rimase in salotto a sfogliare vecchi libri. Lesse qualche poema di Ossian, ma gli parve freddo. Non così egli avrebbe scritto versi se fosse stato poeta. Fuoco! Fuoco! Fuoco! Stava gridando questa parola tutto solo nel mezzo del salotto quando Lilia riapparve e gli domandò scherzando se c’era qualche nuovo incendio da spegnere. Parlarono così per successione di idee del suo paesello, di Bergamo, di una medaglia al merito civile che gli era stata decretata ma che non era giunta ancora.

— E che ne sappiamo noi se è giunta? — esclamò Lilia: — È molto tempo che non ricevi notizie di casa tua?

Ippolito dovette confessare a se stesso (non lo disse però) che aveva lasciato senza risposta parecchie lettere di suo zio Remo e una violentissima dello zio Romolo. Quest’ultima lo aveva [p. 258 modifica] anzi disgustato al punto da coinvolgere nel suo sdegnoso silenzio anche l’anima candida di Remo che non lo meritava davvero, che gli aveva pure mandato del denaro perchè potesse fare buona figura «in casa degli ospiti». Rispose asciutto:

— Sì, molto tempo.

— È forse per questo che...

— Che cosa?

— Non hai letto la lettera di don Peppino?

Anche quella ci voleva! Ebbene, no, non l’aveva letta. La trasse in fretta dalla tasca dove era rimasta tutto quel tempo completamente dimenticata e si pose a scorrerla con indifferenza. Si fece serio all’ultima pagina e terminò cacciando una esclamazione dispettosa.

— Che ne dici? — domandò Lilia.

— Che vuoi che dica!?

Lilia se ne stava nel vano della finestra, ritta, colle spalle volte a Ippolito, guardando con ostinazione il paesaggio esterno. Senza cambiare positura mormorò:

— Dovresti scrivere a tuo zio per rassicurarlo.

— Rassicurarlo di che?

Lilia grattò leggermente coll’unghia una macchiolina sul cristallo; si udì il piccolo rumore muto e il colpo secco ch’ella vi diede poi prima di pronunciare la risposta. Venne alla fine, un po’ tremula, quasi fioca: [p. 259 modifica]

— Non possiamo restar qui in eterno.

Egli diede un balzo e la prese per l’alto delle braccia immergendole uno sguardo fino in fondo alle pupille.

— E dunque?

Ansimarono l’uno di fronte all’altro, pallidi, torturati, paurosi eppure decisi. Gli sguardi si incontrarono perdutamente. Qualche cosa in vero si franse da quell’istante nelle loro anime.

— Senti.

Lilia aveva detto: «senti», lasciandosi cadere sulla poltrona, trascinando con sè l’amante che le si inginocchiò dinanzi. Ma parve che in quello sforzo si fosse momentaneamente esaurita perchè rimase colle mani appoggiate sulle spalle di Ippolito, muta; forse sentiva che parlando avrebbe pianto; e non voleva piangere.

— Lilia? Lilia?

Nella voce di Ippolito bassa e supplichevole c’erano singulti, c’erano lagrime, c’eran voluttà e speranze, c’erano dolci tirannie ed umili dedizioni e squilli di vittoria; c’era tutta la sua passione schietta, giovanile, impetuosa, ignara.

— Lilia, che vuoi dirmi?

Oh! il rapido volgere degli istanti su quel dramma intimo di due cuori! Ella levò le palpebre sul fanciullo inginocchiato, suo, così suo che avrebbe potuto annientarlo con un semplice cenno della sua volontà, e tanta onnipotenza [p. 260 modifica] invece di inebriarla la penetrava di una tristezza sempre più profonda.

— Ippolito, dobbiamo separarci.

Erano quelle veramente le parole pronunciate da Lilia, le parole che l’aria avea trasmesse, che le pareti tutte intorno avevano raccolte, le parole mostruose e sacrileghe? Quelle? E nessuno protestava, ed egli stesso, l’ardente innamorato, giaceva come percosso da fulmine? Giaceva immobile colla fronte sui ginocchi di Lilia.

In questa apparenza di morte risorse il coraggio della donna. Ella incominciò ad accarezzargli blandamente i capelli con una tenerezza che indulgeva al di lui dolore, con una sapienza di mano esperta che fascia le ferite da lei stessa procacciate. E continuò a parlare, dapprima lentamente, a frasi interrotte:

— Fanciullo mio, mio povero amico...

Più indovinato che inteso cadde fra i suoi ginocchi questo lamento:

— Non mi ami più.

— No, Ippolito, non è vero. Ti amo sempre, ma bisogna essere ragionevoli, posso io disporre della tua vita, puoi tu stesso sacrificarmela quando una intera famiglia riposa su di te, quando l’arte ti chiama, quando l’avvenire ti aspetta e devi tu stesso muovere a conquistarlo? Serba nella tua memoria questi mesi d’amore. Serba l’immagine mia come quella di una [p. 261 modifica] donna che ti ha sinceramente amato, che resterà la più devota, la più sicura delle tue amiche.

— Basta, — interruppe Ippolito alzandosi colle palpebre rosse e la faccia stravolta: — io amo e tu ragioni!

Una nuova ironia fischiava nel suo accento mentre a passi concitati percorreva il salotto.

— Ragiono perchè ho più esperienza di te.

— Certamente. Adescando e abbandonando mille amanti hai pur dovuto impararla l’arte di impossessarti di un’anima vergine, di avvincerla alla tua bellezza, di succhiarla nel pieno rigoglio delle sue forze e di disfartene quando la noia o altre esche te lo consigliano.

Fin dalle prime parole Lilia si era fatta pallida.

All’ultimo insulto non potè reggere e poichè già malinconica ed abbattuta aveva frenato a stento le lagrime, non si contenne più e ruppe in singhiozzi col capo fra le palme. Ippolito, al colmo dell’eccitazione, ne sentiva gli strappi ripercossi nel petto delicato, e lungi dal commuoverlo quei singhiozzi esaltavano l’erotismo della sua disperazione. Finalmente, finalmente la vedeva soffrire! Ma soffriva davvero? E perchè soffriva? Se era lei stessa che domandava la fine? Impostura, commedia, teatralità.

Egli sì, soffriva. Egli sì, sentiva squarciarsi il petto non da un singhiozzo ma da mille vipere [p. 262 modifica] che lo attanagliavano, che gli sbranavano il cuore, le viscere, tutto. Egli sì, moriva nell’amore di quella donna, la prima, la sola, la tanto a lungo attesa e invocata! Pensava egli forse alla famiglia, all’arte, all’avvenire, egli che amava di quell’amore che tutto assorbe, che trascina sentimenti, vincoli, affetti, doveri, che arriva fino al suicidio, fino al delitto?

Che cosa lo separava dal delitto se non la materiale volgarità dell’atto? Forse che nel suo animo non era già compiuto? Sul collo sottile di Lilia, su quel collo che usciva pari ad uno stelo dall’abito del colore di una morta rosa, non si torcevano già furibonde le sue mani? Non la vedeva egli piegare sotto la stretta disperata? Non la udiva gemere? Non sentiva il bel corpo cadere inerme e per sempre sotto il fatale amplesso?

Ma perchè taceva ora? Accasciata sulla poltrona, col volto tuttavia celato tra le palme, sembrava impietrita. I soavi capelli nella piena luce della finestra fulgevano, aureola di bellezza rigogliosa intorno alla fronte, e nella attitudine china lasciavano scorgere sul pendio della nuca una fioritura di giovani ciocche nascenti, quasi tenere nel loro incerto ondeggiamento di peluria infantile. Le spalle e le braccia volgenti verso terra presentavano la linea spezzata di un rosaio sotto la tempesta; perfino le mani, nella [p. 263 modifica] loro attitudine di ali raccolte a velare il dolore ed a farlo pudico, avevano la grazia toccante della fragilità. Che poco spazio occupava! Come era indifesa! Come erano piccoli i suoi piedi uscenti dalla rosea gonna! Si ricordò che una volta per la puntura di una vespa quasi sveniva.

Tutto ricordò: le care lettere, i fiori, la meravigliosa apparizione in carrozza, i colloqui sul verone, la gelosia dei rivali, e quel giorno della prova al Conservatorio dove l’aveva sentita prima ancora di vederla; e la fuga, e il viaggio, e l’estasi delle notti passate sul lago, tutti i baci, tutti i deliri di quei tre mesi di folle amore.

Quante dolci parole portate via dalla brezza, portate via dal vento! Parole disperse, parole perdute, parole che non torneranno mai più!

Ecco perchè ella taceva. Ed era così immobile, dopo avere tanto singhiozzato, come se proprio le parole fossero morte accanto all’amore che stava per morire. Ma era pur lei la donna adorata, la bellissima, l’irresistibile! Da quel muto simulacro femmineo egli ben sapeva quali scintille potevano accendere i suoi baci! Egli sapeva la trasformazione raggiante del viso e come il sangue correva rapido al cuore, come le mani tremavano avvinte al suo collo, come pulsavano le arterie, come scottavano le labbra, egli sapeva!.... egli sapeva! Addormentatosi bambino [p. 264 modifica] a’ suoi piedi s’era svegliato uomo con mille desiderî nuovi, rinascenti, appagati eppure insoddisfatti, e s’era creduto felice mentre tanta infelicità piombava su di lui.

Ogni nozione di tempo, di luogo, di spazio, ogni criterio, ogni riflessione, ogni memoria che non fosse del suo amore, sembrava averlo abbandonato per sempre. Forse qualche istante di pazzia si trova nell’esistenza di tutti gli uomini che sentono fortemente; forse l’eccesso del dolore e l’eccesso del piacere conducendo ai limiti estremi della vita ne asportano la volontà gettandola nei gorghi misteriosi del nulla. In quell’ora di atroce sofferenza, vicina per intensità di vibrazione all’ora di voluttà trascorsa la prima notte sul lago, Ippolito misurò ancora una volta i ceppi che limitano ai mortali la visione dell’infinito: ancora una volta il freddo della morte lo toccò in fronte.

— Uccidimi, uccidimi qui. Fa che non mi rialzi più, che non veda, che non senta più, che l’ultimo soffio mio spiri in un tuo bacio!

Era caduto di nuovo ai ginocchi di Lilia, nascondendovi disperatamente il volto, annientandosi nel suo grembo.

E piansero! Piansero insieme alternando sospiri e parole d’amore, baci e promesse, riconoscendo l’impossibilità di separarsi, con una furia di vincersi l’un l’altro nell’ardore della [p. 265 modifica] passione, facendosi male e godendo di quel castigo della carne quasi per esso dovesse salire più alta la fiamma ideale. Fu una ebbrezza nuova, dolce e tormentosa, la più profonda, la più completa di tutte quelle provate. Pari ai due alberelli scossi dalla bufera si alzarono tuttora tremanti e irrorati di lagrime, sostenendosi a vicenda, meravigliati di ritrovarsi giovani ed esuberanti di vita dopo tanto schianto dei loro cuori.

Tutto era così calmo intorno ad essi! Il salotto co’ suoi mobili antichi, colla poltrona coperta da un vecchio ricamo sul quale erano sorvolate le dita della contessa morta prima che i fiorellini del trapunto perdessero i loro colori, prima che il filo di seta si rompesse, prima che la pendola sul caminetto in mezzo ai due candelabri di bronzo cessasse di suonare le ore. Calmo il paesaggio che si scorgeva dalla finestra, malinconico ma calmo, cogli alberi del giardino un po’ sfrondati, un po’ pallidi sul fondo grigio del cielo e colla fascia del lago in fondo di un colore attenuato simile a un nastro di mezzo lutto.

Un ultimo sospiro sollevò il seno di Lilia.

— Mi ami? — gemette Ippolito, tanto vicino al di lei orecchio che l’aria non ripercosse alcun suono.

Ma nel mentre colla mano accarezzava la molle [p. 266 modifica] chioma di lei allentata nell’uragano del pianto e dei baci, tutta la chioma si sciolse e Lilia cingendone con improvviso abbandono il collo dell’innamorato vi soffocò la bocca e la parola.