XVI. Il tempo si guasta

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XVI. Il tempo si guasta
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XVI.

Il tempo si guasta.

Accanto alla sala da pranzo, così gaia coi bei mobili laccati di verde e con le ampie vetrate, si apriva il salotto simpatico anch’esso nella sua intonazione vecchiotta, con un lungo piano a coda, una caminiera ornata di candelabri, un lampadario di vetro a faccette e un grandissimo paravento di stoffa damascata [p. 231 modifica] contro il quale se ne stava come dentro a una bussola la poltrona della contessa e nella poltrona Lilia, vestita di grigio, con un libro in mano.

Ippolito, in piedi accanto alla finestra, guardava il cielo che stava coprendosi di nubi. A un tratto, per un movimento troppo rapido, fece cadere dal tavolino sotto alla finestra un piccolo oggetto.

— Il tuo suggello, — disse raccattandolo. — Hai scritto questa mattina?

— Sì, ho scritto.

Ippolito voltava e rivoltava fra le dita il leggiadro ninnolo d’argento su cui era impressa la prima sillaba del motto di Lilia: Se.

— Vuol piovere, — osservò Lilia posando il libro sui ginocchi.

— Lo temo.

— È venuto il tempo di rovistare nella biblioteca della contessa. Sapessi quanti libri ho trovato di Balzac, di Chateaubriand, di Musset, tutti autori vecchiotti che conoscevo di nome ma dei quali non avevo mai letta una sola parola.

— E il volume che hai in mano?

Non era questo che Ippolito voleva dire. Egli voleva dire: «A chi hai scritto oggi?» ma siccome per un bizzarro sentimento di timidità gli uscì invece l’altra domanda, Lilia rispose:

— Ah! questo è un autore italiano. È Guerrazzi. Se devo essere schietta ti confesso che non [p. 232 modifica] capisco come mai si dimentichino tante belle pagine, mentre...

— Lo porti sempre con te il tuo suggello? — interruppe Ippolito.

— Sempre.

— «Se bene o male io stessa mi contento», Se bene o male... Chi ti ha suggerito questa motto?

— Nessuno. L’ho scelto da me, in un libro.

— Ti sembra tanto bello?

— Ignoro se sia bello. Lo sento conforme a me.

— Indifferente al bene o al male?...

— Che cosa è il bene? Che cosa è il male? Ippolito mio, ho paura delle discussioni. Amiamoci finchè è la buona stagione. Ho fatto accordare il piano, sai? Vuoi provarlo?

— Se uscissimo invece, intanto che non piove?

— Come ti piace.

Balzando in piedi, amabile, sorridente, corse nell’atrio a staccare dall’attaccapanni il suo canottiero grigio con la fascia bianca. Intanto che se lo accomodava dinanzi ad una vecchia specchiera arrugginita Ippolito la precedette di alcuni passi e passando presso l’uscio di cucina udì il custode che diceva a sua moglie:

— Le lettere d’America, per tua norma, hanno il francobollo diverso dai nostri. Quella che arrivò ieri per la signora era una lettera d’America. [p. 233 modifica]

— Ecco la lettera a cui ella ha risposto, — pensò Ippolito — e appena ricevuta!... Le premeva assai. Chi conosce ella mai in America?

Fecero una lunga passeggiata. Lilia era allegra, vivace. Ippolito pensieroso. A un certo punto della strada egli si fermò guardando le montagne in fondo al lago.

— La Valtellina... La Svizzera... Chi sa che bei monti!

— Non hai mai varcato le Alpi?

— Mai. E tu?

— Oh! io!... — fece Lilia con un sorriso per cui Ippolito, senza sapere il perchè, si sentì stringere il cuore.

A un tratto domandò:

— Sei stata in America?

— In America non ancora.

— Anderemo insieme.

— Non credo. Non è paese per gli innamorati.

— Ah! ah! — esclamò Ippolito preso da improvvisa gaiezza: — non è paese per gli innamorati! Dillo ancora. Dillo che gli innamorati si trovano solamente qui...

Procedevano stretti come nei primi giorni del loro amore, non ancora sazi di sentirsi vicini, cercando, tentando nuove sensazioni.

— Senti, mia vita, io non so se tutti gli uomini che amano una donna provino tutto ciò che [p. 234 modifica]io provo, ma è certo che se una parte sola di coloro che dicono di amare sentisse il fuoco che mi divora, la smania che mi strugge, io credo che il mondo non si conserverebbe così com’è nemmeno un giorno.

— Forse, — mormorò Lilia facendosi a sua volta pensosa.

— E alcune volte, vedi, non so s’io debba dirtelo... vorrei pregarti di uccidermi. Mi sembra che non possa attendermi gioia maggiore di quella di morire nelle tue braccia, soffocato da’ tuoi baci. Se mi vuoi bene davvero dovresti uccidermi con un bacio.

— Sempre queste idee di morte! — esclamò Lilia crollando il capo.

— Mi sembra di essere in un cerchio di ferro dal quale la morte sola mi debba liberare.

Tacquero per un pezzo, andando lentamente sulla riva del lago commosso da un forte vento che ne increspava le onde mentre il cielo si copriva di nubi.

— È questo il cerchio di ferro? — disse Lilia alla fine ponendogli un braccio intorno al collo.

Ippolito non rispose nulla. Tenne fermo il braccio, e la dolce mano che gli arrivava all’altezza della bocca baciò devotamente, appassionatamente come soleva, dito per dito.

· · · · · · · · ·

Secondo la minaccia le piogge vennero, in[p. 235 modifica]sistenti, continue. Il lago scomparve sotto un velo di nebbia, il giardino si fece impraticabile. I due innamorati non uscivano quasi più dalla villa. Certo la libreria fu loro in quei giorni di grande aiuto, ma Lilia si meravigliava che Ippolito non toccasse mai il piano. Ella sì, suonava per ore ed ore, accompagnandosi talvolta col canto, e Ippolito la stava ad ascoltare nella poltrona della contessa con la fronte fra le mani.

Solo alla sera, quando la pioggia sembrava diminuire un po’, si ravvolgevano nei mantelli calzando grosse scarpe, quasi col piacere infantile di un travestimento, e scendevano a passeggiare sulla riva cogliendo i brividi paurosi dell’oscurità e della solitudine che davano maggior sapore all’incontro tiepido delle labbra.

Ma anche allora Ippolito era perseguitato da una ignota smania, da un desiderio pazzo e crudele di soffrire e di far soffrire. La prima volta che fu assalito da tale morbosa tentazione credette di essere ammalato, d’una di quelle malattie profonde che si preparano con una lunga incubazione. L’aveva stretta così forte da farle male veramente e il grido di dolore di lei non lo aveva commosso. «Forse impazzisco», pensò Ippolito.

Un’altra volta, sorprendendola dinanzi allo specchio colle braccia alzate a provare una nuova foggia di acconciare i capelli, le andò presso con tale impeto che Lilia se ne spaventò. [p. 236 modifica]

— Sei troppo bella, — disse egli smarrito e confuso: — perchè vuoi farti più bella ancora? Io ti vorrei brutta, deforme, ma mia, mia per sempre.

— Se fossi brutta non mi ameresti, — rispose Lilia scostandolo con dolcezza.

— Non ti amerei? Ah! non ti amerei... Dio! Dio!

Fuggì colle mani nei capelli e pochi giorni dopo le fece una scena di gelosia a proposito di un nome d’uomo che trovò scritto nelle pagine del di lei taccuino. Poi le domandò scusa gettandosi ai suoi ginocchi, pallidissimo, colle lagrime che gli tremavano sotto le palpebre.

· · · · · · · · · ·

Pioveva, pioveva sempre, disperatamente, con una specie di frenesia.

Non tanto per il freddo quanto per l’umidità insopportabile facevano accendere il caminetto del salotto e tirato il paravento vi si chiudevano, alla sera, in una intimità piena di calore e di luce, guardando la fiamma che saliva alta dai ceppi di pino inghirlandati di ginestra, scoppiettando su per la cappa da tanti anni deserta con un gridìo amorevole quasi eco di vita lontana.

— Quante cose mi dice la fiamma! — mormorava Ippolito attizzandola con una cura che svelava una lunga abitudine. [p. 237 modifica]

— Sì, è bella, — confermava Lilia: — e per me quasi nuova. Le stufe e i caloriferi ci hanno tolta questa bellezza.

— Io invece non mi scaldai mai in altro modo.

— La tua infanzia deve essere stata tanto diversa dalla mia!


Una sera, in cui più aspra soffiava la tramontana e la si udiva sibilare tra gli alberi del giardino contorcendoli a guisa di dannati, Lilia precisò la sua inchiesta:

— Parlami della tua infanzia.

— Non la conosci un poco?

— Parlamene ancora. Tu non sei stato un bambino felice. Chi ti amava quando avevi cinque anni?

— Nessuno.

— E quando ne avevi dieci?

— Nessuno.

— E quindici?...

— Nessuno. Cioè...

Ippolito si interruppe. Una cara, buona, onesta faccia di vecchio gli si affacciò di colpo con una espressione così triste che gli parve di sentirsi stringere il cuore.

— Non vorrei essere ingrato; qualcuno mi amava.

— Tuo zio Remo?

Ippolito le fu riconoscente di avere indovinato. [p. 238 modifica]

— Sì, zio Remo, ma nessun altro.

— Nessuna donna prima di me?

— Nessuna donna prima di te.

Egli si fermò un istante ad ascoltare la pioggia che batteva sui vetri della finestra.

— In questa stagione era intorno al camino di cucina che si riuniva la mia famiglia dopo pranzo. Io mi rannicchiavo insieme al gatto sul gradino del focolare e tenevo così poco posto che finivano col dimenticarmi. Il fuoco con tutte le sue varianti di fiamma, di bragia, di cenere, esercitava un fascino straordinario sulla mia immaginazione. I folletti che si alternavano colle streghe nelle vecchie fole raccontate da Rosalba salivano e scendevano dalla cappa del camino; aspettavo sempre di vederne qualcuno. Nulla mi piaceva tanto come le piccole scintille che si spengono improvvisamente sui tizzi anneriti e che noi chiamavamo: le monachine che vanno a dormire. È incredibile ciò che può passare nella mente di un fanciullo! Io credo che tutto ciò che egli diventerà in seguito sta già scritto nel suo piccolo cranio, ma è ben difficile leggervi, ed egli non si comprende ancora...

Gli occhi di Lilia grandi ed aperti ricevevano come dentro a una conca lo zampillo del suo pensiero. La pioggia batteva sempre sui vetri della finestra, il silenzio fuori era profondo, il piccolo cerchio del paravento così tiepido e così intimo! Ippolito continuò: [p. 239 modifica]

— Ti ho cercata tanto, sai, quando i primi raggi della giovinezza vennero a scaldarmi il sangue. Hai mai amato, tu, senza sapere chi? Io sì. Io ti cercavo, e non trovandoti amavo l’aria dove un giorno avresti respirato, i fiori che avresti còlti... Ti sembro un po’ pazzo?

— No, no, povero amore, povero bambino! Come avrei voluto conoscerti allora... Oh, se ci fossimo conosciuti allora!

Un rammarico straziante risuonò nella voce di Lilia mentre pronunciava queste parole. Ippolito mormorò con accento sommesso, quasi di sospiro:

— Dove eri tu allora?

— Dove ero?... Dopo, dopo ti parlerò di me. Dimmi la tua vita, dimmela tutta.

— La mia vita è qui tutta, in un sogno!

Le ore suonarono con tocco tremulo di ottuagenario alla pendola che si trovava sul caminetto fra i due candelabri di bronzo.

— Ecco una voce della mia infanzia! — esclamò Ippolito: — Io li conosco questi suoni stanchi. Nella mia camera avevo undici pendole vecchie che accompagnavano tutte le fantasticherie delle mie notti insonni. È su questa orchestra che feci i primi studi musicali.

— Erano buona gente, però, i tuoi?

— Buonissimi.

— E semplici? [p. 240 modifica]

— Oh! semplici poi in un modo incredibile. Ti ho descritti i miei zii, ma figurati che un mio cugino a nove anni non aveva ancor vista la luna, perchè in casa sua c’era l’abitudine di andare a letto prima che sorgesse. E le sue sorelle, che erano cinque, avevano due soli cappelli che facevan il servizio cumulativo per tutte nelle rare occasioni in cui si recavano, non mai più di due alla volta, a Bergamo. Queste fanciulle rimasero tutte zitelle. Erano così timorose e schive che trovandosi alla presenza di persone dell’altro sesso tenevano le mani sotto al grembiule per evitare il pericolo di doverle offrire nel momento dei saluti. Una sola, Paolina, si fidanzò col farmacista del paese, ma prima delle nozze costui scherzando con un’arma da fuoco si uccise. Ella ricamò allora coi propri capelli...

— Ah! sì, mi ricordo. Dillo, dillo ancora.

— Ricamò un salice piangente chino sopra una tomba...

— E sulla tomba dei versi... Dilli.

Piangi pure, o salcio amico, sul destin di Fortunato. — È un conforto al cor piagato il tuo pensile dolor.

Lilia si raccolse tutta, coi ginocchi, la testa e le mani insieme, in un gruppo silenzioso e stette così alcuni momenti. Poi si levò di scatto come spinta da una molla e si diede a percorrere il [p. 241 modifica] salotto a passi concitati. Quando ritornò presso al suo innamorato aveva il volto sofferente per intensa commozione. Invece di riprendere il posto di prima sedette sui ginocchi di Ippolito e gettandogli le braccia al collo gli mormorò piano:

— Vuoi sentire come ho passato io l’infanzia? Sono nata, anzitutto, sotto un baldacchino di raso, fra tappeti persiani, e il mio corredino costò mille e cinquecento lire.

— Io, il primo giubbetto che portai fu tagliato fuori da una sottana di flanella di mia nonna: — disse Ippolito umilmente.

— La prima vestina che io ricordo invece era di pizzo di Malines con trasparente di seta rosa.

— Era dunque molto ricco tuo padre?

— Non so. In casa nostra il denaro andava e veniva nello stesso modo fantastico; sembrava un giuoco di bussolotti. Mio padre aveva molto ingegno, mia madre una grande bellezza. Mio padre teneva uno studio di avvocato, mia madre un salotto elegante. Con tre persone di servizio mio padre si lagnava del disordine del suo guardarobe e una volta vidi mia madre girare in camicia tutto l’appartamento per trovare una camicia di ricambio. Io ebbi di buonissima ora una governante francese che mi piaceva e alla quale volevo molto bene. Avevo imparato da lei la storiella: Arlequin tient sa boutique e la [p. 242 modifica] recitavo nel salotto di mia madre fra acclamazioni entusiastiche, quando un giorno un orribile battibecco avvenne tra la governante e i miei genitori; mia madre avendola sorpresa insieme a mio padre le aveva dato uno schiaffo; tu intendi il resto...

Lilia, affannata da una recitazione precipitosa, si fermò un istante a pigliar fiato.

— C’era corte bandita in casa mia. Pranzi, ricevimenti continui. Avendomi un amico regalato una fontana automatica con zampillo perenne, mio padre la tenne in movimento tutta una sera alimentandola con vino di Champagne. Nello stesso tempo il fornaio veniva a fare delle scenate perchè non gli si pagava il pane.

— E chi aveva cura di te?

— Chi vuoi che l’avesse? Mio padre non lo vedevo neppure tutti i giorni; mia madre ora mi baciava, ora mi sgridava; ora mi voleva vicina a sè rimpinzandomi di dolciumi, ora mi cacciava a spasso colla governante raccomandandole di star fuori a lungo.

— L’avevi dunque ancora una governante?

— Ne ebbi a dozzine! Esse non stavano in casa più di due o tre mesi. Quando credevo di essermene affezionata una, sopravveniva uno schiaffo di mia madre... e si tornava da capo.

— Sempre così?

— Sempre così. [p. 243 modifica]

— E — disse Ippolito grave e pensoso — quando fosti una giovinetta?

Lilia non rispose subito. Ippolito soggiunse:

— La tua cultura non è di quelle che si raccolgono a strascichi.

— Ciò che tu chiami la mia cultura è il frutto della mia osservazione e di un felice intuito. È vero che mi posero anche in collegio, il primo della città, naturalmente.

— E quando fosti una giovinetta?

— Quando fui una giovinetta mi ripresero in casa. Trovai quattro servitori in luogo di tre, un equipaggio e una camera da letto che mio padre aveva fatto venire da Parigi per offrirmela, copiata sullo stile di quella che aveva Maria Antonietta a Trianon.

— Come passavi allora le tue giornate?

— Facevo molta musica.

— Sola?

— Avevo un maestro.

Fu il tono della voce? Fu un rossore improvviso? Fu la divinazione dell’amore?... Ippolito trasalì.

— Giovine?

— Giovine.

Ippolito si morse le labbra a sangue. Nel silenzio che seguì, il lene mormorio della pioggia sembrava un pianto. A che interrogare? Ella tremava col petto contro il suo petto. A che interrogare? [p. 244 modifica]

— I tuoi genitori morirono presto? — disse Ippolito dopo un po’ di tempo allontanandola con un movimento dolce che gli permise di vederla meglio, quasi fosse una donna nuova o che egli credesse di trovarla mutata in volto.

— Mio padre morì lasciandoci un cumulo di debiti. Non dimenticherò mai il disordine e il terrore di quelle giornate. Tutta la mobilia fu venduta. Vidi uomini che non conoscevo minacciare mia madre della prigione. Si parlò di mettermi in un ritiro. Un giorno pranzammo con due biscotti e mezza bottiglia di vino di Madera. Mia madre aveva ancora i suoi diamanti, ma i servitori che avanzavano annate intere di servizio glieli strapparono di dosso coprendola di contumelie. Mi ricordo che piansi il dì che mi portarono via il mio piano e che la nostra cameriera mi disse con un sorriso cattivo: «Adesso anderà a servire anche lei». Ella intanto aveva gonfiato il suo baule di tovaglioli di Fiandra.

— E poi? — fece Ippolito interrompendo una nuova pausa.

— Poi non so cosa avvenne. Mia madre ed io andammo a Parigi. Il lusso ritornò nella nostra casa per cui smisi subito di dare alcune lezioni di piano che avevo io stessa sollecitate. E basta nevvero? basta!

Lilia si passò una mano sugli occhi. Nè smanie, nè rimproveri, nè rimpianti. Disse ancora [p. 245 modifica] con una lieve sfumatura di tristezza contenuta:

— Ecco la spiegazione del mio motto. Nessuno m’insegnò che cosa è il male. Io stessa non l’ho cercato; mi accontento che il male, se è male, non nuoccia ad altri. Anche questo principio nessuno me lo ha insegnato.

— Non hai mai avuto il desiderio di una famiglia tua, di figli tuoi? di un’altra vita più pura, più tranquilla?

— No, — rispose Lilia candidamente.

— Se tu fossi nata nel mio paese, nella mia famiglia, che cosa avresti fatto? Tu disprezzi certamente la povertà degli ideali che circondarono la mia infanzia...

— No — disse Lilia per la seconda volta: — Non solo non li disprezzo, ma li comprendo. Probabilmente se fossi nata nel tuo paese e nella tua famiglia avrei ricamato anch’io come tua cugina Paolina un salice piangente coi miei capelli. Non sono senza cuore, credi, ma ho la ragione fredda e la scuola della vita non è stata propizia allo sviluppo della mia sentimentalità.

Adesso Ippolito vedeva con una precisione cruda di pezzo anatomico tutto ciò che lo separava da quella donna. Si possono distruggere venti, trent’anni di una esistenza? L’amore solo compie questo miracolo; ma quanto durano i miracoli? e quanto l’amore? [p. 246 modifica]

Oh! egli l’amava disperatamente; eppure il sentimento di essere uno straniero presso a lei, quel sentimento che già da parecchi giorni gli rodeva l’anima, aveva acquistato nelle confidenze di quella sera una solidità di fatto compiuto, inesorabile. Perchè ella continuerebbe ad amarlo? Tanto ricca, tanto bella, abituata agli incanti del lusso e del miraggio mondano, aveva potuto per uno sforzo della sua intelligenza elastica, forse anche per una curiosità compassionevole, avvicinarsi a lui così povero, così meschino; ma era quella l’idealità dell’amore da lui sognato? Che cosa insorgeva dentro di lui, quale istinto ribelle, quale straordinaria veggenza a suggerirgli che tutto era illusione e delirio dei sensi? Altra, ben altra cosa doveva essere l’amore per appagare appieno l’anima sua.

Come soffriva! Perchè non era morto la prima notte che erano stati sul lago, quando la morte gli era apparsa così vicina e così dolce? Ella pure sarebbe morta allora con lui nello splendore della sua bellezza e di un amplesso divino.

La guardava, immaginandola nelle bianche vesti di quella notte, distesa sul fondo della barca, le molli chiome sciolte sotto la furia dei suoi baci, la pallida guancia lucente nel raggio della luna, rigata ancora dalle lagrime della voluttà...

— Ippolito! — ella fece sciogliendosi dalle sue braccia, grave ma serena. [p. 247 modifica]

Egli pensò come sarebbe stato facile ucciderla, con quella vita sottile, con quel collo sottile... la resistenza di un fiore spiccato dallo stelo!

— Vieni a vedere, non piove più.

Stettero colle fronti appoggiate ai cristalli della finestra, guardando nel giardino la massa bruna degli alberi goccianti a stille a stille la pioggia raccolta, e dietro agli alberi, in fondo, una striscia più chiara al posto del lago, una semplice sfumatura.

— Il battello! — fece Lilia.

Lontano, nella notte nera, i sei fanali apparvero coi loro occhi smisurati di mostro marino a fior d’acqua; dalle commessure dei cristalli entrava nel salotto un’aria fredda come un brivido.

— Chi viaggerà mai a quest’ora?

Era sempre Lilia che parlava. Ippolito se la sentiva appoggiata alla spalla ed al braccio, un po’ tremante, morbida, infantile. L’avanzarsi del battello in quel silenzio, in quel buio, aveva qualche cosa di misterioso e di fatale. Ma egli non pensava alle persone che vi potevano essere; in quella forma incerta movente verso il suo destino vedeva niente altro che un simbolo. La distesa del lago insensibile, la muta sentinella dei monti, le ville chiuse, i paesi dormenti, la riva deserta, gli alberi goccianti a stille a stille e il battello che si avanzava lentamente... lentamente... [p. 248 modifica]

Quando fu proprio dirimpetto (si avvertiva nel silenzio altissimo attenuato dalla distanza il rullio dell’elica), i fanali brillarono di luce diretta, due verdi, quattro gialli. Brillarono un istante, descrissero una curva, gettarono ancora un fascio di luce, sparvero! L’ultimo battello della giornata si allontanava nella notte nera, verso l’orizzonte nero...

I due amanti stretti contro i cristalli, lo seguirono a lungo colle pupille immote e tremanti, quasi si staccasse da loro una parte della loro vita.

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