XVIII. Sull’ala del genio

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XVIII. Sull’ala del genio
XVII

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XVIII.

Sull’ala del genio.

Al tempo delle lunghe passeggiate sui monti, nella floridezza del settembre, essi avevano osservato lungo il ciglione un albero malamente piegato dalla bufera i cui rami erano sottili e le foglie palliducce tuttochè sembrasse ancor vivo. E ad una osservazione di Lilia Ippolito aveva risposto toccando le radici: «Il male è qui; quest’albero dovrà morire per quante fronde lo coronino ancora.»

Non era così del loro amore? Colla foga di un temperamento eccessivo Ippolito dandosi intero aveva creduto che ella pure gli sacrificasse tutto; un’anima come la sua, una volta confessata a sè stessa, doveva avere il coraggio di andare sino alla fine affrontando qualsiasi conseguenza. L’amore che ragiona non è più amore, la passione che riflette e che calcola non è più passione. Gli esseri superiori che amano veramente non [p. 267 modifica] hanno nè esitazioni nè rimpianti, nè rimorsi. Così egli amava! Era cecità? Era pazzia? Ebbene, senza cecità e senza pazzia non vi è amore.

Tutto ciò Ippolito disse colla violenza che era entrata oramai in quasi tutti i loro colloqui, che alterava la dolcezza dei loro rapporti e li teneva nell’ansia continua di chi cammina sopra un filo teso. Ai teneri languori succedevano scene di disperazione. Ippolito che l’aveva amata prima senza speranza, che l’avrebbe forse adorata per sempre in silenzio senza chiederle nulla, tacendo, quando si sentì riamato non ebbe più freni e si abbandonò a deliri, a frenesie cui non avrebbe mai creduto di poter arrivare, di quei deliri, di quelle frenesie che il mondo ignora o di cui ride; ma lui si sentiva uomo, si sentiva felice e non sapeva, non voleva saper altro se non che lei era giovane e bella e aveva dimenticato tutto il resto.

Che valore potevano assumere le osservazioni di Lilia sulla acerba giovinezza di lui, sui suoi vincoli di famiglia, sulla diversità della loro educazione, dei loro istinti, dello loro abitudini? Ella aveva compreso che in fondo al cuore di Ippolito c’era un bisogno di purezza e di vita semplice il quale, se pure momentaneamente soffocato, sarebbe risorto inesorabile e ad entrambi fatale. Gli parlava dell’avvenire con sicurezza veggente, ma da tutti i ragionamenti di [p. 268 modifica] Lilia Ippolito traeva una sola conclusione che lo esasperava: «Ella guarisce ed io no».

Ella guarisce! Ma lo aveva pure amato sinceramente, senza ipocrisie. Era venuta, lei, a offrirgli i tesori della sua bellezza, della sua intelligenza, di un amore quale non gli sarebbe stato permesso di sognare neppure nei più accesi delirî della fantasia; per lui si era eclissata dalla sua aureola di luce, dal suo trono dominatore; era venuta con lui a dividere la semplice vita della passione che null’altro chiede al mondo; regina di un dominio senza confini, aveva acconsentito a un tramutamento di tutte le sue abitudini per passare ignorata al suo fianco quattro mesi di oblìo completo. Quali promesse gli aveva fatte? Nessuna. Quale giuramento li legava, quale obbligo, quale fede? Lilia era stata franca, spontanea, generosa, leale. Davanti ad una onesta disamina dei fatti i suoi rimproveri vestivano una forma di ingordigia volgare che doveva dispiacere a lui stesso. Tutta la sua generosità d’uomo gli mostrava il dovere di una riconoscenza completa, senza recriminazioni e senza piagnistei. Egli doveva ringraziare l’Eletta che lo aveva beneficato dei suoi favori, chinare il capo e sparire, portando con sè la memoria indelebile delle gioie avute.

Ma com’era possibile ciò se egli l’amava disperatamente ancora? Ancora, mentre lei [p. 269 modifica] guariva! E perchè guariva? Questo voleva sapere: È dunque un inganno l’ora divina che sembra fondere due anime in una sola, e le anime restano disgiunte anche quando le labbra si sono unite nel bacio più fervido? Che vogliono dire allora quei pallori, quei fremiti, quel gelo di morte che sorprende gli amanti nell’estasi dell’amplesso? Perchè l’aveva egli sentita tutta sua, non più persona ma cosa, tutta sua nell’abbandono estremo della volontà, e il trepido cuore sotto la sua mano aveva quasi cessato di battere e l’iride dello sguardo fuggente sotto le palpebre sembrava rinnegare tutti i tesori della terra per lui, per lui, se ora poteva parlargli con tanta serenità della loro prossima dipartita?

· · · · · · · · · · ·

Fu un mattino, appena alzati, dopo di avere spedito un telegramma a Filadelfia, che Lilia gli annunciò l’irrevocabile decreto delle separazione. Ippolito non sapeva, non seppe mai il tenore di quel fatale biglietto portato alla prossima stazione telegrafica dalla mano inconscia del custode; ma da questo fatto e dal contegno risoluto di Lilia e da un intimo personale senso di terrore preannunciante la sventura, egli comprese che la fine era giunta.

Quante lagrime nel lago! Quanti gridi nelle foglie divelte dai rami, turbinanti sulle balze lungo il pendio delle montagne non più ridenti [p. 270 modifica] sotto il loro manto estivo ma coi fianchi scoperti che mostravano le secolari cicatrici delle lotte coll’acqua e col vento! O bei giardini dove più non olezzava l’olea fragrans, o terrazzi sporgenti, o boschi, o sentieri, o grotte erbose testimoni di tanta felicità perduta!

Tutto il giorno Ippolito percorse con una furia pazzesca i dintorni della villa, ora accusando Lilia del più nero tradimento, ora accusando sè stesso di ingratitudine, ma disperato sempre e in preda a un indicibile martirio. Al pensiero di perdere l’adorata donna se ne congiungeva un altro anche più tormentoso, non formulato con precisione di parole ma pur terribile nel suo fluttuare geloso di presentimento...

Andava, andava, andava, senza trovare requie, ora esaltato e delirante, ora in preda allo sconforto, inciampando nelle pietre che non vedeva con un traballamento da ubriaco, dato il capo nudo e il collo all’aria fredda di tramontana che trovava nelle sue membra una insensibilità di macigno. Avrebbe voluto farsi male o fare del male, uccidersi o uccidere, pur che uscisse dal suo corpo quel demone che lo investiva e potesse alla fine trovare un istante di sollievo anche a costo dell’annientamento.

Quando fece ritorno alla villa, girando dietro la casa del custode, vide Ni ritto sulla soglia ammantato nel suo contegno più fiero e più [p. 271 modifica] risoluto. Egli rispondeva con una scala crescente di «no» agli inviti di Mansa che voleva mutargli il grembiulino. L’apparizione del bimbo, come sempre, ebbe il potere di attrarre lo sguardo di Ippolito che ne risentì una improvvisa tenerezza dolente e quasi compassione, non sapeva bene se per sè stesso o per quel bimbo che nulla sapeva della vita.

— No — ripetè ancora una volta il piccolo uomo per la difesa della propria libertà.

Allora Mansa senza sprecare altro fiato lo prese sotto le ascelle, lo sollevò in alto, gli tolse il grembiulino ad onta de’ suoi strilli e gliene rimise uno pulito deponendolo poi di nuovo sulla soglia dove era prima. Vinto dalla forza, un gran dolore, come di onta ricevuta, alterò i lineamenti del bimbo che si gettò in terra a guisa di protesta mordendo il suolo, mentre ne’ suoi occhi del colore di un’acqua corrente sotto i salici tremarono due piccole lagrime.

— Dunque — pensò Ippolito — la vita incomincia anche per lui tirannica e crudele. A due anni appena conosce le catene. Egli sa ormai che deve piegare. Piegare agli uomini, al destino, alle leggi, al volere dei più forti, alla pietà dei più deboli, alla verità o all’errore. Questa è la vita. Piangi, piangi, piccolo Ni, mordi la terra, urla, protesta... Troverai sempre qualcuno o qualche cosa che ti vincerà.

Entrò in casa in preda ad una malinconia [p. 272 modifica] profonda sotto la quale si raccolsero momentaneamente come dentro a un velo pudico le sue smanie tempestose. Incontrò Lilia ai piedi della scala. Anch’ella era uscita e rientrava allora. Aveva il suo abito grigio e sotto la veletta bianca i bellissimi occhi apparivano arrossati... Dal pianto? dal freddo? Una volta Ippolito non avrebbe esitato sulla interpretazione; ma ora, ironico e dubbioso, ripeteva a sè stesso: — Dal pianto o dal freddo? — Dolcemente ella disse:

— Ti ho cercato... ti venni incontro...

— Grazie, sono stanco; credo di avere un po’ d’emicrania.

Ippolito non sapeva precisamente quel che si dicesse, ma non era preparato ancora a trovarsi con Lilia. Istintivamente sentiva il bisogno di essere solo. Ella comprese e salì alle camere superiori.

Anche per lei c’era stata lotta; certo meno violenta, meno appassionata, poichè avviene del dolore umano come delle malattie che la prima volta scoppiano con veemenza e poi vanno di volta in volta acclimatandosi con forme sempre più benigne. Inoltre Lilia non subiva alcun disinganno, essendole noto fin dai primordi che quella relazione non poteva essere duratura più di un sogno, più di un raggio, più di un fiore — l’ultimo forse — colto nel bizzarro giardino della sua vita. Eppure si staccava a malincuore [p. 273 modifica] dall’innamorato giovane. Quando mai aveva conosciuta un’anima così vibrante, un così squisito intuito di tutte le finezze amorose, una intelligenza così aperta al sentimento puro della bellezza? Abituata agli omaggi ella sapeva che non troverebbe mai più una adorazione così ardente e così ingenua. Non le aveva egli, in un momento di follia, proposto di sposarla? Racchiudeva tale immagine di vita futura una visione triste e grottesca insieme, e fu appunto ripensandoci che Lilia si sentiva presa di grande pietà per Ippolito. Povero fanciullo, che cosa farebbe? L’uragano che passava ora sul suo giovine capo non poteva lasciarlo intatto; quella passione doveva imprimere nella sua esistenza una traccia incancellabile. Lilia lo sapeva, lo vedeva, paventando e sperando per lui con un’alternativa di tenerezza e di ansia quasi materne.

Passeggiava in su e in giù dalla sua camera illudendo la trepidazione del cuore con alcuni preparativi di partenza, ripiegando un nastro, chiudendo un cofanetto, alla luce incerta del giorno che stava per morire. D’improvviso si arrestò tendendo l’orecchio. Un suono flebile, una specie di gemito l’aveva colpita, nè le riusciva discernere sulle prime d’onde venisse, tanto era inusitato. Poi le parve di comprendere: balzò alla finestra, l’aperse e allora salirono distinte fino a lei le note del piano: ma erano note [p. 274 modifica] bassissime, simili a sospiri, simili a lagrime cadute sugli avorî che ne rimanevano appena scossi.

— Ippolito!

Il caro nome le era sfuggito dalle labbra mentre appoggiata al davanzale ascoltava avidamente. In tutto il tempo che si trovavano alla villa mai Ippolito aveva toccato il piano. Nessun pensiero, nessun desiderio che non fosse quello del loro amore lo aveva tentato mai. Ed ora quale angelo lo guidava alle soglie dell’armonia perchè egli vi sfogasse tutto il suo pianto? Ecco, ecco. Veniva lento, proprio come se rare gocce sforzassero le porte chiuse delle palpebre irrigando di scarso umore la carne bruciata dalla gran passione. Che soavità, che freschezza in quelle prime lagrime! Quale giovanile trasparenza di rugiada! E crescevano fitte, sempre più fitte, dilagando con uno scrosciare di cateratta dove tutti i gridi della terra sembravano trovare un’eco. L’improvvisazione era viva, calda; vi scorreva dentro a guisa di filo d’oro una vena di dolcezza incomparabile, come una preghiera che si levasse dalla vittima sofferente per il suo carnefice, come una parola d’amore ancora in mezzo ai muggiti della disperazione. Era ben quella l’anima di Ippolito soave e ardente, tenera e generosa, la sua forte, la sua grande anima di artista! [p. 275 modifica]

Lilia chiuse rapidamente la finestra e scese le scale. Sul ballatoio incontrò Mansa che veniva a chiederle se voleva i lumi di sopra.

— No — rispose Lilia senza fermarsi, — e il signore?

— Il signore non mi ha neppure risposto quando glieli ho offerti. Dio benedetto! Suona in modo da far piangere.

Lilia penetrò con passo leggero nel salotto dove già si addensavano le ombre. Ippolito non la vide. Continuava a svolgere le note sul tema di un lamento dove sembravano rivivere a tratti le visioni felici del passato. Con un grido che potè appena frenare Lilia riconobbe lo spunto del Cantico dei Cantici: «O tu che l’anima mia ama!» e la musica ardente, appassionata, voluttuosa, descrisse con poche battute i misteri che si comunicano i nidi affondati nei boschi quando sorge su di essi l’aurora, gli amori soavi come il miele nei dolci orti chiusi dove le fonti mormorano sommessamente, dove ali invisibili frusciano tra gli alti steli e lente si aprono le rose nel mistero dei cespugli. La rievocazione era così nitida che Lilia credette ancora di udire le acclamazioni del pubblico, nella sala del Conservatorio, sorpreso e scosso dal vigore dell’ispirazione. Ma il ricordo, appena tòcco, scomparve sopraffatto da un torrente di note vertiginose in cui il motivo si allargava sorgendo alla [p. 276 modifica] elevatezza concettosa della sintesi; e non erano più gridi, non più lagrime, non più lamenti; solo un palpitare d’ala ferita e un ritornello lento, lontano, come di singhiozzi soffocati.

· · · · · · · · · · ·

Non ci si vedeva quasi più nel salotto. Lilia, a tentoni, raggiunse il piano. Ippolito la sentì venire e rimase colle mani irrigidite sui tasti mentre ella gli circondava la testa adducendola con dolce violenza a riposare sul proprio seno. Poche gocce di sudore rendevano madida la fronte del giovine. Ella le asciugò pietosamente in silenzio.

— Lilia...

— Amore!

Alcuni suoni inarticolati uscirono a stento dalle labbra di Ippolito, e Lilia, nello stesso modo che si acqueta un bambino, lo andava accarezzando e mormorava piano dei «sì» che non rispondendo a nulla di concreto sembravano pure allearsi al di lui dolore e farsene compagni. A un tratto, curvandosi con un movimento alieno da ogni sensualità, gli appoggiò la bocca sulle palpebre.

— Queste lagrime — disse — si convertiranno in serti di gloria. Perchè tu sai amare è tua la vittoria del poeta, perchè tu sai piangere sarà tuo il cuore delle moltitudini.

— Io volli solamente il tuo, — mormorò Ippolito. [p. 277 modifica]

— Ah! esso non è che un povero cuore! — esclamò la donna con uno slancio di umiltà sincera: — Ben altra è la tua missione, Ippolito. Trattieni le tue lagrime, povero amico. Tu le devi portare nel mondo, in mezzo agli uomini che non le conoscono e che le chiameranno poesia; ma questa poesia sgorgata da un cuore sanguinante sanerà molte ferite. Tu non sai quanti soffrono per la mancanza di comunicazione con un’anima sorella perchè cercando anche fra quelli che sembrano i bardi e i custodi della sacra fiamma non trovano che fredda erudizione e calcolo di vanità. Ma tu perchè ami e perchè piangi avrai qualche cosa da dire a’ tuoi simili, tu scenderai nei loro cuori, siederai in mezzo a loro e parlando de’ tuoi affanni essi crederanno di vedere i propri e ti ameranno per questo.

— Che m’importa se non ho più te?

Con una gravità profetica Lilia rispose:

— Io devo morire e la tua gloria sarà immortale.

— Che m’importa? — ripetè Ippolito.

Quietamente Lilia soggiunse:

— Noi avremmo cessato di amarci un giorno forse maledicendoci. Invece ci separeremo con tanto desiderio ancora; tu metterai il nostro amore nelle tue opere future e ciò che era destinato a perire vivrà nei secoli.

— Vanità!... — mormorò ancora Ippolito. [p. 278 modifica]

— No, — disse Lilia col calore della convinzione — amore eterno! L’amore deve creare qualche cosa per raggiungere veramente il suo scopo.

La mano di Ippolito errante sulla tastiera traeva accordi spezzati.

— L’amore: — riprese Lilia con un filo di voce: — l’amore quale tu lo sognasti doveva essere l’incontro di due creature giovani e pure... Taci, taci, non protestare! Io lo so. Vorrei avere quindici anni e un casto fiore da offrirti...

— Lilia...

— Forse — continuò ella senza avvertire l’interruzione, — avremmo potuto essere felici. Bada, dico forse. Ad ogni modo la mia fierezza si sarebbe acchetata nell’olocausto di tutta me stessa. Così, vedi, non ora, ma più tardi...

Non compì il suo pensiero. Lasciandosi scivolare lungo la persona del giovine lo abbracciò alle spalle e rimase appoggiata a lui colla tenerezza incorporea di chi stringe un simulacro. Ippolito sentiva che ella era nella verità. Uccidendo il loro amore lo salvava dal disfacimento e dalla putrefazione. Ella amava meno, ma era perciò la più forte. L’opera del giustiziere faceva appena tremare la sua piccola mano.

Un sentimento virile di emulazione si fece strada nel cuore di Ippolito. Voleva bensì soffrire, piangere, morire anche, ma non essere vile, non [p. 279 modifica] essere inferiore a lei. Sotto il nuovo impulso una nuova onda di armonie fiorì sui tasti ricercati dalle sue dita nervose che sembravamo animare l’avorio, che fremevano al suo contatto come persone vive.

Onde meravigliose di suoni si sparsero così intorno ai due amanti, nell’ambiente chiuso del salotto, fra le tenebre sempre crescenti.

— Egli è forte — pensò Lilia con un sussulto di orgoglio: — Egli riuscirà! Chi udendo fra qualche anno queste melodie divine, sospetterà neppure che esse nacquero dallo schianto di due cuori, in una sera buia, nel deserto di questa riva e di questo lago? Domanderanno: «Dove ha studiato? Chi lo istruì nell’arte dei suoni? A quale scuola appartiene?» Nessuno saprà rispondere, ma tutti piangeranno con lui! O amore, amore, amore...

· · · · · · · · · · ·

L’oscurità della notte era scesa completa. Dalla camera attigua, dove i servitori si erano arrischiati ad accendere un lume, veniva il riflesso di una luce blanda appena percettibile nella quale il profilo dei due amanti emergeva con un contorno di sogno.

Nessuna parola fu pronunciata più!

Dalle spalle di Ippolito le mani di Lilia le erano cadute lungo i fianchi mentre soffocava le parole e il respiro per non interrompere la foga [p. 280 modifica] di quella ispirazione e se ne stava, lei regina di incanti, nell’offuscamento delle tenebre prona al suolo, lei trionfatrice del senso, avvinta al fascino della bellezza occulta. E tutte le sue ebbrezze passate le parvero cenere in confronto alla transumanazione di quell’ora.

Tacita intanto la grande rivale, la Consolatrice, si avanzava stendendo fra i due amanti le sue ali invisibili, sollevando con esse il povero cuore che l’amore aveva straziato, portandolo più alto, sempre più alto, dove lo chiamava la pietà del suo destino, dove l’arte assorbe le lagrime dell’amore e le tramuta in gloria.

fine.