Troilo e Cressida/Atto primo
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ATTO PRIMO
SCENA I
Troia - Dinanzi al palazzo di Priamo.
Entrano Troilo armato e Pandaro
Troil. Chiama il mio scudiere: vuo’ togliermi queste armi di dosso. Perchè debbo io guerreggiare fuori delle mura di Troia, quando ho a sostenere combattimenti sì crudeli qui nel mio seno? Il Troiano che è signore di sè vada al campo; il cuore di Troilo, oimè! non gli appartiene più.
Pan. Dovrò io intendere sempre questi lagni?
Troil. I Greci son destri al par che forti, fieri quanto abili, prodi al par che fieri. Ma io, io sono più debole delle lagrime di una donna, più pacifico del sonno, più stolto dell’ignoranza. Io son meno valente che non è una fanciulla fra le tenebre della notte, e più inesperto di un bambino di latte.
Pan. Via, dissi abbastanza, e nulla aggiungerò. Chi vuol raccogliere il grano è forza aspetti la mietitura.
Troil. Non ho io aspettato?
Pan. Non quanto basta.
Troil. Troppo ho aspettato.
Pan. Tale impazienza è stolta: quando si mangiano le vivande, allorchè scottano, si corre rischio di bruciarsi le labbra.
Troil. La pazienza stessa, sebbene Dea, soffre con minor moderazione di me. Io mi assido alla regia mensa di Priamo, e allorchè la bella Cressida mi apparisce..... mi apparisce? Che dico io insensato! Quand’è mai ch’io non l’abbia dinanzi?
Pan. Ieri sera ella mi sembrò più bella dell’usato; più bella di ogni altra donna, ch’io abbia vista.
Troil. Voleva dirti... che quando il mio cuore aperto come da un violento sospiro stava per iscoppiare, nella tema che Ettore, o mio padre non mi sorprendessero, ho nascosto quel sospiro sotto le apparenze di un sorriso; così sorride il sole allorchè rischiara un nembo: ma il dolore cui vela un’apparente gaiezza è come una gioia che il destino muta di subito in rammarico.
Pan. Se i di lei capelli non fossero più bruni di quelli di Elena, non vi sarebbe nessun paragone a fare fra quelle due donne: ma ella è mia parente, e non vorrei come suol dirsi celebrarla troppo: bramerei però che qualcuno l’avesse udita discorrere come l’ho intesa io, e sebbene io non voglia porre in dubbio l’ingegno di Cassandra, pure.....
Troil. Oh Pandaro! io ve lo dico, Pandaro: allorchè dichiaro il luogo dove stan sepolte tutte le mie speranze, non mi rispondete per dimandarmi a quale immensa profondità esse giacciono. Vi dico ch’io sono pazzamente amoroso della bella Cressida, e rispondendomi ch’ella è bella voi versate nella piaga aperta del mio cuore tutti i vezzi de’ suoi occhi, della sua capigliatura, delle sue gote, del suo portamento, della sua voce. Voi parlate di quella mano, vicino alla quale tutte le mani bianche non son che un inchiostro, che manifesta la propria vergogna; parlate della dolcezza del suo tatto, in paragone di cui la lanugine del cigno stesso è dura, e la pelle più morbida è callosa come quella del bifolco. — Ecco ciò che mi dite. E tutto questo che mi dite è vero, come vero è ch’io l’amo. Ma parlandomi così, invece di olio e di balsamo, voi immergete in ogni ferita che mi ha fatto l’amore il coltello stesso che mi ha dilacerate le viscere.
Pan. Non dico nulla più del vero.
Troil. Abbastanza ancora non dite.
Pan. Vi giuro che non ne parlerò più, sia essa quel che vuole: se è bella, meglio per lei; se no, faccia come può.
Troil. Buon Pandaro, buon Pandaro...
Pan. La ricompensa delle mie fatiche è di essere bistrattato da lei e da voi: pensai ad unirvi, ma niuna gratitudine ottengono le mie cure.
Troil. Saresti sdegnato, Pandaro? Saresti sdegnato con me?
Pan. Perchè è mia parente ella non è bella come Elena: ma se non fosse mia parente, sarebbe così bella il venerdì, come Elena lo è la domenica. Però che cale a me di ciò? Fosse ella una nera Etiopa, di questo non dovrebbe importarmi: io sarei a tal cosa indifferente.
Troil. Dico io forse che non sia bella?
Pan. Poco vale che lo diciate o nol diciate; ella è una stolta a restar qui dopo la partenza di suo padre; se ne vada ella pure fra i Greci, io gliene darò il mio assenso la prima volta che la vedrò: in tutti questi intrighi io non avrò più parte.
Troil. Pandaro....
Pan. No non mai.
Troil. Caro Pandaro...
Pan. Ve ne prego, non mi parlate più; lascio ogni cosa come la trovai, e qui han termine le mie fatiche. (esce. Allarme)
Troil. Tacete, odiosi clamori! Tacete, suoni terrìbili, insensati! Bisogna bene che Elena sia bella, poichè voi, pazzi che siete, versate ogni dì il sangue per accrescere lo splendore della sua beltà. Io non so risolvermi a combattere per tal soggetto; esso è troppo lieve per la mia spada. Ma Pandaro... oh Dei, come mi cruciate! io non posso ottenere Cressida che col ministero di Pandaro, ed è tanto difficile indurre colui a farle la corte per me, quanto è difficile la virtù della nipote sua. In nome del tuo amore per Dafne, dimmi, Apollo, che cosa è Cressida, che cosa è Pandaro, che cosa sono io! Il letto di questa bella è l’India; ell’è la perla che vi riposa; io veggo il mobile e vasto oceano nello spazio che sta fra Ilio e la sua dimora; io sono il mercatante, e codesto Pandaro, che voga dall’una all’altra sponda, è la mia incerta speranza, il mio vascello e il mio convoglio. (allarme; entra Enea)
En. Ebbene, principe Troilo? Perchè non siete al campo?
Troil. Perchè non vi sono: questa risposta da donna è dicevole, avvegnachè è un esser donna lo starne lontano. Quali novelle, Enea, della battaglia?
En. Paride ne è ritornato ferito.
Troil. Ferito da chi?
En. Da Menelao.
Troil. Sgorghi il sangue di Paride; è una ferita che merita spregio. Egli è stato ferito da un corno di Menelao. (allarme)
En. Udiamo qual sollazzo vi sia oggi fuori della città.
Troil. Ve ne sarebbe uno che mi piacerebbe assai dentro la città, e ch’io molto desidererei. — Ma usciamo: veniste qui per ciò?
En. Passai di qui per andare al campo.
Troil. Usciamo dunque insieme. (escono)
SCENA II.
La stessa. — Una strada.
Entrano Cressida e Alessandro.
Cres. Chi fu che ne passò vicino?
Al. Elena e la regina Ecuba.
Cres. E dove vanno?
Al. Alla torre d’oriente, da cui si scorge tutta la valle circostante, per assistere alla battaglia. Ettore, che ha una pazienza inconcussa come la virtù, si è oggi sdegnato. Egli ha garrito Andromaca ed ha percosso il suo scudiere; si è alzato prima del sole per andare al campo, bramoso di stragi e di carnificina.
Cres. Qual motivo ha per tanta collera?
Al. La voce sparsa, che dice che v’è fra i Greci un eroe di sangue troiano, nipote di Ettore, chiamato Aiace.
Cres. Bene; e che si narra di lui?
Al. Narrasi che è un uomo unico; e che non ha bisogno d’alcun appoggio.
Cres. Questo può dirsi di tutti gli uomini, a meno che non siano ubbriachi, infermi, o senza gambe.
Al. Quell’uomo, signora, si è appropriato le qualità distintive di varii animali. Egli è prode come il leone, feroce come l’orso, cauto come l’elefante; è un uomo in cui la natura ha talmente mescolati affetti diversi, che in lui il valore va unito alia follia, la follia alla prudenza; e non v’è alcuno che abbia una virtù a cui esso non partecipi, un difetto da cui egli non sia tocco. Così è mesto senza motivo, e gaio senza ragione; è una mistura di mille diverse cose; e tutto in lui è tanto mal contesto, che è un Briarèo gottoso con cento braccia senza l’uso d’alcuna; o un Argo cieco con cent’occhi coi quali nulla vede.
Cres. E come un tal uomo, che m’invoglia al riso, può egli eccitare la collera di Ettore?
Al. Si dice ch’ei combattè ieri contro di lui, e lo atterrò: per tale oltraggio non ha nè mangiato nè dormito. (entra Pandaro)
Cres. Chi viene?
Al. Signora, è vostro zio Pandaro.
Cres. Ettore è un prode guerriero.
Al. Al par d’ogni altro che possa esistere, signora.
Pan. Che dite? che dite?
Cres. Buon giorno, zio Fandaro.
Pan. Buon giorno, nipote Cressida: di che parlavate? — Buon giorno, Alessandro. — Ebbene, come state, cugina? Quant’è che avete lasciato il palazzo d’Ilio?
Cres. Da questa mattina, zio.
Pan. Di che parlavate quando son venuto? Ettore era egli armato, e già escito prima che lasciaste il palazzo? Elena era alzata?
Cres. Ettore stava già fuori, ma Elena non era ancora in piedi.
Pan. Ettore si mosse assai per tempo.
Cres. Di questo appunto parlavamo, e della sua collera.
Pan. Era egli in collera?
Cres. Così dice Alessandro.
Pand. In verità era sdegnatissimo, ed io ne so la cagione. Egli ucciderà ben molti Greci oggi, ve ne assicuro, e Troilo non lo seguirà da lontano. Badino a Troilo, perchè oggi farà grandi stragi.
Cres. Che! È egli pure sdegnato?
Pan. Chi, Troilo? Troilo è il più prode dei due.
Cres. Oh Giove! non v’è paragone.
Pan. Non v’è paragone fra Troilo ed Ettore? Conoscete voi un uomo, vedendolo?
Cres. Sì, se l’ho veduto e conosciuto innanzi.
Pan. Bene; io vi dico che Troilo è Troilo.
Cres. Dunque dite com’io dico: perocchè io son sicura che egli non è Ettore.
Pan. No, e Ettore non è Troilo sotto certi rispetti.
Cres. Così sta; egli è quello che è.
Pan. Quello che è? Oimè, povero Troilo! vorrei bene che lo fosse.
Cres. Tale è.
Pan. Se lo fosse, vorrei andar a piedi ignudi fino in India.
Cres. Egli non è Ettore.
Pan. Se stesso non è, no più non è quello che era. — Piacesse al Cielo che lo fosse ancora! Ma gli Dei ne stanno sopra e ci governano. Povero Troilo, vorrei che il mio cuore fosse nel suo seno! — No, Ettore non è da più di Troilo.
Cres. Scusatemi.
Pan. Egli è più vecchio.
Cres. Perdonatemi, perdonatemi.
Pan. L’altro non è ancora giunto alla virilità: me ne parlerete poi quando ci sarà giunto. Ettore non possederà mai la metà del suo ingegno...
Cres. Non ne avrà bisogno.
Pan. Nè delle sue qualità.
Cres. Che importa?
Pan. Nè della sua bellesza.
Cres. Ettore è abbastanza bello.
Pan. Non avete giudizio, nipote. Elena stessa giurava l’altro di che Troilo, quantunque bruno (perchè convien confossarlo egli è bruno), aveva... un volto superiore assai a quello di Paride. Vi giuro ch’io credo che Elena lo ami a preferenza di quel suo rapitore.
Cres. È dunque un’allegra Greca?
Pan. Sì, son sicuro che lo ama. Ella andò l’altro dì a parlargli ad un verone, e voi sapete ch’ei non ha più di quattro peli sul mento.
Cres. Oh sì! l’aritmetica d’un fanciullo varrebhe a calcolare la somma di tutti quelli che possiede.
Pan. E nondimeno quantunque sì giovine Elena ne è innamorata, e me ne avvidi dal modo con cui gli accarezzò colla mano il mento.
Cres. Giunone abbia pietà di noi! Ella gli accarezzò il mento?
Pan. E ben sapete ch’egli vi ha una pozzetta, nè credo che vi sia uomo in tutta la Frigia che sorrida di miglior grazia.
Cres. Oh! egli sorride bene.
Pan. Non è vero?
Cres. Il suo sorriso sembra una nube in autunno.
Pan. Continuate. Ma per provarvi che Elena ama Troilo...
Cres. Troilo accetterà la prova, se voi glielo provate.
Pan. Troilo? Ei non si cura di lei, più che io non mi curi di un uovo di serpente. Non posso astenermi dal ridere quando penso al modo con cui essa lo accarezzava. È vero però ch’ella ha una mano d’una bianchezza divina: e voleva per forza trovare un pelo bianco sopra il suo mento.
Cres. Povero mento! Le palme di molte mani son meglio fornite di pelo.
Pan. Ma se n’è riso tanto; la regina Ecuba se n’è tanto ilarizzata che i suoi occhi piangevano: e Cassandra divideva tutta la sua gaiezza.
Cres. Cassandra pure piangeva?
Pan. Nè Ettore poteva contenersi.
Cres. E qual era la cagione di tanta allegria?
Pan. Il pelo bianco che Elena cercava sul mento di Troilo.
Cres. Se fosse stato un pelo verde, io pure ne avrei riso.
Pan. Essi non si sono così allietati del pelo, come della bella risposta di Troilo.
Cres. Qual fu la sua risposta?
Pan. Essa gli disse: «non vi sono che cinquant’un peli su tutto il vostro mento, e ve n’è uno bianco».
Cres. Questo disse Elena?
Pan. Sì, «cinquant’un peli, rispose Troilo, ed uno bianco? Quel pelo bianco è mio padre, e tutti gli altri sono figli suoi». «— Giove! diss’ella, quale di questi peli è Paride, il mio sposo?» «Il forcuto, egli replicò: strappatelo, e fategliene dono». Di ciò tanto si rise, ed Elena arrossì per modo che Paride sdegnato partì bestemmiando.
Cres. Finiamo su questa materia: se n’è parlato anche troppo.
Pan. A meraviglia, nipote, ma pensate che ieri vi ho fatta una confidenza: pensateci.
Cres. È quello che fo.
Pan. Giurerei che è vero: ed egli piangerebbe per voi, se fosse un uomo nato in aprile.
Cres. Ed io fiorirei annaffiata dalle sue lagrime, se fossi un’ortica pullulata di maggio. (si ode una ritirata)
Pan. Udite, ritornano dal campo. Vogliam restar qui per vederli andare verso Dio? Restiamo, cara nipote, amabile Cressida.
Cres. Come volete.
Pan. Questo è un eccellente posto; qui li possiamo veder tutti; io li conoscerò mentre passeranno: ma attendete sopra tutto a Troilo. (Enea passa sopra il ponte che conduce al palazzo di Priamo, e così in seguito gli altri)
Cres. Non parlate tanto forte.
Pan. Quegli è Enea. Non è un valentuomo? È uno dei fiori di Troia, ve ne assicuro: ma badate a Troilo; lo vedrete fra poco.
Cres. Chi è quello? (passa Antenore)
Pan. È Antenore; ha un ingegno acutissimo, ed è una delle menti più forti che siavi in Troia. — Ma quando giungerà Troilo? Frappoco ve lo additerò, e se ei ci vede noterete come ci saluterà.
Cres. Ci saluterà?
Pan. Vedrete. Ecco intanto Ettore (passa Ettore); il grande, il generoso Ettore! Segui la tua via, Ettore, tu sei un valente. Oh prode Ettore! com’è nobile nell’aspetto! Non è quello un guerrier prode?
Cres. Prode oltre ogni credere.
Pan. Diletto reca il vederlo. Mirate come è tutto armato di ferro, e quanti colpi mostrano d’aver avute le sue armi.
Cres. Son colpi di spada?
Pan. Di spada, e d’ogni altr’arma: a lui ciò che fia? Andasse l’inferno ad attaccarlo, ei lo affronterebbe. Pel lucido Febo! gioia reca il vederlo. Ma ecco Paride che passa, (passa Paride) Guardatelo, nipote. Non è un leggiadro guerriero? e magnanimo è anche oggi. Chi è che diceva che era rientrato ferito? Ferito non è. Cotesto recherà gran gioia al cuore di Elena. Ah quanto vorrei ora veder Troilo! In breve verrà.
Cres. Chi è quell’altro? (passa Eleno)
Pan. Eleno. — Meraviglio di non veder seco Troilo. — È Eleno. — Comincio a credere che Troilo non sia uscito. — È Eleno.
Cres. Sa combattere Eleno, zio?
Pan. Eleno? No... Sì, egli combatte abbastanza bene. Ma stupisco di non veder Troilo! — Silenzio! Non udite voi il popolo che grida Troilo? — Eleno è un sacerdote.
Cres. Chi è quell’omiciattolo che si avanza di laggiù? (passa Troilo)
Pan. Dove? Laggiù? È Deifobo... oh no, è Troilo! Quello è un uomo, nipote! Oh prode Troilo! Oh principe dei cavalieri!
Cres. Tacete, per pietà! tacete.
Pan. Osservatelo bene. — Illustre Troilo! Figgete in lui i vostri sguardi, nipote, e mirate come la sua spada è sanguinosa, ed il suo elmo anche più pesto che nol sia quello di Ettore! il suo occhio poi... il suo portamento... Oh egregio giovane! Ed ei non ha ancora ventitrè anni. Continua, Troilo, continua. Se avessi per sorella una Grazia, o per figlia una Dea, ei la potrebbe scegliere. Oh guerriero illustre! Paride non è fango presso a te? e credo che Elena, per mutar Paride in Troilo, darebbe uno de’ suoi occhi. (passano varie schiere)
Cres. Eccone molti altri.
Pan. Bestie son coloro, bestie deformi. Io vivrei o morirei guardando Troilo: attendete ad esso solo voi pure, e non guardiate coloro. Vorrei piuttosto esser Troilo, che Agamennone con tutti i Greci insieme.
Cres. Vi è fra i Greci Achille, eroe maggiore assai di Troilo.
Pan. Achille! Un villano, un camello, un vero animale da soma, in paragone di Troilo.
Cres. Sta, sta!
Pan. Sta, sta? Avete voi qualche discernimento? avete occhi? sapete cosa sia un uomo? La nascita, la bellezza, le buone creanze, il coraggio, la civiltà, il valore, la scienza, la virtù, la giovinezza, l’ingegno, non sono come le droghe che condiscono un uomo?
Cres. Sì, un uomo affettato, e che dovesse esser cotto.
Pan. Voi siete così strana donna, che non si sa mai da qual lato prendervi.
Cres. Sono cioè abbastanza prudente per non cadere ne’ lacci.
Pan. Siete, ve lo ripeto, una donna assai strana. (entra il paggio di Troilo)
Pag. Il mio padrone, signore, vorrebbe parlarvi tosto.
Pan. Dove?
Pag. In vostra casa: è là che si disarma.
Pan. Va a dirgli, buon paggio, che vengo. (il paggio esce) Temo non sia ferito; addio, cara nipote.
Cres. Addio, zio.
Pan. Vi rivedrò fra poco.
Cres. Per portarmi, zio...
Pan. Sì, un pegno dell’amore di Troilo.
Cres. Così facendo diverrete un mezzano. — (Pan. tace) Parole, voti, doni, lagrime e ogni altra cosa d’amore, egli offre per un altro. Ma io veggo diecimila volte più merito in Troilo, che non ne chiarisca l’elogio che Pandaro fa di lui, e nondimeno lo tengo da me lontano. Le donne sono angeli finchè si ricercano, ma ottenute una volta, tutto è finito. Il vero piacere sta nella brama del piacere stesso. La donna amata non sa nulla se non sa ciò: gli uomini le apprezzano prima della conquista molto al disopra del loro valore, nè mai visse donna che ritrovasse tante dolcezze nell’amor soddisfatto, quante ve n’ha nel desiderio dell’amore. Io insegno dunque questa massima, che la servitù segue la conquista, e l’umile preghiera accompagna la dimanda. Così, sebbene il mio cuore sia determinato di amare, i miei sentimenti non traspireranno ne’ miei occhi.(esce)
SCENA III.
Il campo greco. — Dinanzi alla tenda di Agamennone.
Squillo di trombe. — Entrano Agamennone, Nestore, Ulisse, Menelao ed altri.
Ag. Principi, perchè il dolore scolora così le vostre gote? In tutte le imprese della terra, le vaste promesse della speranza non si avverano mai pienamente, gli ostacoli e le sventure nascono dal seno medesimo dei più sublimi fatti. Non è dunque cosa strana o nuova il vedere che, dopo sette anni di assedio, le mura di Troia sussistono ancora. In tutte le guerre dei secoli scorsi di cui la tradizione ci ha trasmesso il ricordo, l’esecuzione fu attraversata sempre da avvenimenti incalcolabili, il successo non si vide mai vestito di forme così splendide, come l’immaginazione ne avea raffigurate. Perchè dunque, principi, contemplate l’opera nostra con fronte così umile? Perchè vedete tanti mali nella lentezza, che non è che una prova, che fa subire il gran Giove per consolidare la perseveranza nei cuori umani? Non è nei favori della fortuna che la tempra della virtù ha risalto; avvegnachè allora il vile e il prode, il savio e lo stolto, il dotto e l’ignorante, l’uomo duro e il sensibile si rassomigliano e mostrano i lineamenti di una famiglia stessa. È fra le tempeste che solleva lo sdegno di quella Dea, che sì manifesta la bontà degli amici, e che vien posto in vera luce chi fu dotato di un alto cuore.
Nes. Coll’omaggio dovuto al vostro seggio sublime, in cui rappresentate gli Dei, illustre Agamennone, io farò un commento a queste vostre ultime parole. Fra le ire della fortuna il vero coraggio si manifesta. Allorchè il mare è placido, quanti lievi schifi osano avventurarsi sul suo seno e farsi strada accanto agli alti vascelli! Ma se l’impetuoso borea viene a sommuovere il pacifico Teti, mirate allora i vascelli dai fianchi robusti fendere le montagne di acqua, e come il cavallo di Perseo avventarsi fra i due umidi elementi: ma dove è allora la presuntuosa navicella, la cui debole costruttura osava un istante prima seco loro contendere? Fuggita ell’è nel porto, o è stata inghiottita da Nettuno; e così è fra le tempeste dell’avversità che il valore apparente e il valore reale si addimostrano. Fra lo splendore e ai raggi d’un sol sereno, il gregge è più cruciato dagl’insetti che dalle tigri; ma quando il gelido aquilone abbatte le quercie antiche, l’insetto fugge sotterra, e l’animale coraggioso s’infiamma di sdegno; allo sdegno della tempesta si irrita, e risponde alla fortuna nemica in tuono eguale al suo furore.
Ul. Agamennone, illustre generale, nerbo e colonna della Grecia, cuore, anima e mente dell’intero esercito, centro dove si uniscono e debbono fondersi tutti i caratteri, tutte le volontà, odi quello che dice Ulisse. Prima d’ogni altro, debbo approvare l’aringa di voi entrambi, di voi, re dei Greci, di voi, venerabile per un secolo di vita. I discorsi di Agamennone dovrebbero essere incisi nel bronzo, e tenuti sotto gli occhi di tutti dalla mano di Agamennone da un lato, e dall’altro da quella della Grecia; e l’antico Nestore, cui la bianca barba e i bianchi capelli fan somigliare ad una figura effigiata sull’argento, potrebbe colla sua lingua eloquente, e coll’esperienza sua avvincere indissolubilmente i cuori di tutti gli Elleni. Nondimeno col beneplacito di tutti e due voi, di voi, potente re, e di voi, saggio vecchio, degnatevi ascoltare Ulisse.
Ag. Parla, principe d’Itaca; noi siam certi che tu non favelli che per trattar temi della più alta importanza.
Ul. Troia, che ancora ci resiste sarebbe crollata e la spada del grand’Ettore non avrebbe più signore, senza le cose di cui vi parlerò. I diritti dell’autorità fra noi sono stati dispregiati: mirate quante tende greche vennero erette sopra questa pianura, e con esse contate altrettante fazioni. Allorchè quella del duce supremo non somiglia all’arnia, a cui venir debbono tutte le pecchie disperse pei campi, qual miele v’è a sperare? Quando la distinzione dei gradi è sconosciuta, l’ultimo degli uomini sembra eguale al primo. I Cieli stessi, le stelle e questo globo, centro dell’universo, osservano certe leggi, seguono un ordine invariabile. In virtù di tale ordine, il sole, pianeta glorioso che siede in trono, splende qual re fra gli altri pianeti che lo circondano, e il suo occhio benefico corregge le malefiche influenze che pioverebbero, e governa senza ostacolo le buone e le cattive costellazioni. Ma allorchè gli astri turbati e confusi errano in disordine, quante pesti, quanti spaventosi flagelli! Qual sedizione allora per l’universo! Il mare sdegnato, la terra tremante, i venti scatenati, i terrori, le rivoluzioni, tutti i più orrendi mali infrangano l’unità, rompono l’accordo, tutto confondono, e struggono interamente la pace degli Stati tolti dalle loro basi, e dal tranquillo centro del loro riposo. Così quando la subordinazione è cessata; essa che è scala d’ogni più gran disegno, qualunque opera vien meno. Con qual altro mezzo, che colla subordinazione, le comunità, gli eserciti, le corporazioni, i diritti di natura ponono essere mantenuti? Togliete la subordinazione, mettete tal corda fuori dell’unisono, e ascoltate qual armonia ne seguirà. Gli uomini divengono nemici, e si combattono; le acque si gonfiano al disopra delle loro sponde, e sommergono la solida massa di questo globo; la forza divien signora della debolezza, e il figlio brutale, con un colpo parricida, stende morto ai suoi piedi il proprio genitore. La violenza si erige in diritto, o piuttosto il giusto e l’ingiusto perdono i loro nomi, e tutto s’arma di potere; il potere s’arma di volontà, la volontà di passione, e la passione, tigre insaziabile, assecondata cosi dal potere e dalla volontà, strugge necessariamente tutto, e finisce col divorare se stessa. Illustre Agamennone, ecco i disordini inevitabili quando la subordinazione è spenta; e la subordinazione perisce allorchè ognuno vuol salire in cima. Il capo è disprezzato dai suoi soldati, e la corruzione si comunica da un cuore all’altro. Quest’ambizione insana di sollevarsi senza meriti, che emulazione non è, ha invaso tutto il nostro campo, ed è quello che fa che Troia ancora sussista. Per dirla in breve, se la città non fu presa, la colpa è nostra, nè vuol lodarsi la sua resistenza.
Nes. Ulisse ha parlato con saviezza; egli ha scoperta la carie da cui è corroso tutto l’esercito.
Ag. Essendo conosciuto il carattere del morbo, quale ne è il rimedio, Ulisse?
Ul. Il grande Achille, che l’opinione ha dichiarato primo guerriero del nostro esercito, avendo l’orecchio pieno della sua fama, divien sollecito all’eccesso del proprio merito, e si rimane ozioso nella sua tenda, schernendoci. A’ suoi fianchi adagiato oziosamente sta Patroclo, e con esso fa prova di spirito. Ora, illustre Agamennone, colui vi imita come un attore da teatro prostrando nel fango la vostra dignità, e alle sue goffaggini il gigantesco Achille ride; ora imita Nestore e volge a beffa ogni sua più illustre dote. Così noi serviam di sollazzo a quei due egregi valentuomini, e così curano le nostre sventure.
Nes. L’esempio di quella coppia, che l’opinione ha posto in prima fila, guasta ogni dì più l’esercito. Ajace è divenuto orgoglioso come Achille, e sta come lui solo nella sua tenda, o vi dà feste sediziose, mettendo in riso i nostri disegni di guerra colla sicurezza di un oracolo, o eccitando Tersite, quel vile schiavo, la di cui lingua avvelenata inventa sempre nuove calunnie, a deturparci colle sue rozze comparazioni e a diffamare la nostra condotta e le nostre opere, qual che si sia il pericolo da cui ci veggiamo circondati.
Ul. Essi biasimano la nostra prudenza, e la dicono viltà; biasimano la nostra saviezza, e la nostra previdenza, e non istimano altri atti che quelli delle mani. Le facoltà che dirigono le braccia, e governano le migliaia che debbono solo combattere al momento opportuno, che, colle lunghe osservazioni, scrutano le forze del nemico, tali facoltà non son da loro apprezzate per nulla: onde la macchina, che inconscia di sè si muove, è da essi preferita alla mano che la creò, e all’anima intelligente che le diede l’impulso.
Nes. È per ciò che secondo essi il cavallo d’Achille potrebbe ingenerare molti figli a Teti. (squillo di trombe)
Ag. Che trombe son coteste? Vogliate informarvene, Menelao.
Men. Squillano in Troia. (entra Enea)
Ag. Chi vi conduce dinanzi alla nostra tenda?
En. È questa la tenda del grande Agamennone?
Ag. È questa.
En. Può un principe, divenuto araldo, far udire all’augusto suo orecchio un grazioso messaggio?
Ag. Ciò può e con maggior sicurezza che garantirgliene non saprebbe il braccio di Achille alla testa di tutti i Greci, che con voce unanime gridarono Agamennone loro generale.
En. Non v’è modo per concedere libertà di parlare più benigna, sicurezza maggiore. Ma come potrà uno straniero riconoscere gli sguardi sovrani di quell’illustre capo, e distinguerlo dagli altri guerrieri?
Ag. Come?
En. Sì; lo dimando, affinchè io possa fargli onore, e onde il rispetto colori le mie guancie del rossor modesto dell’aurora, allorchè essa contempla con occhio casto il giovine Febo. Dimando qual è quel Dio in dignità che guida qui gli altri eroi quale di fra voi è l’illustre e possente Agamennone?
Ag. Codesto Troiano irride alle opere nostre, o i guerrieri di Troia son cerimoniosi cortigiani.
En. Allorchè vanno disarmati son cortigiani, come li grida la fama; ma quando prendono le armi, Giove sa, che non vi son prodi più intrepidi di loro. Ma taci. Enea, perocchè l’elogio smarrisce ogni splendore allorchè esce dalla bocca medesima di chi ne è l’oggetto; la sola lode che la fama voglia pubblicare e quella che vien proferita dal nemico: e quella è la lode vera, la sola che si diffonde per l’universo.
Ag. Siete voi, Troiano, che vi chiamate Enea?
En. Sì, Greco; tale è il mio nome.
Ag. Qual bisogno vi conduce da noi?
En. Non debbo dirlo che all’orecchio di Agamennone.
Ag. Agamennone non concede udienze segrete a inviati che vengono da Troia.
En. Nè io vengo da Troia per dirgli a mezza voce un segreto: un trombetto sta meco per eccitare i suoi sensi all’attenzione più profonda.
Ag. parlate libero come il vento. Agamennone ora non dorme, e per convincervene è esso che ve lo dichiara.
En. Squilla tu tromba, e la tua voce possente risuoni fra tutte queste oziose tende, onde ogni Greco sappia quali nobili proposte offre Troia a tutto il campo. (squillo di tromba) Illustre Agamennone, noi abbiamo a Troia un principe chiamato Ettore, figlio di Priamo che muore per l’inerzia di questa tregua troppo lunga. Egli mi commise di dirvi queste parole: re, principi e duci, se fra i Greci più valorosi ve n’è uno che stimi il suo onore al disopra d’ogni altro bene, che più geloso sia della sua gloria che timido dei pericoli; che sicuro si tenga del suo valore e non conosca la paura; che ami la sua amante di vero amore ed osi sostenerne la bellezza e la virtù dovunque, questa sfida è a lui diretta: Ettore alla vista dei Troiani e dei Greci prenderà a provargli, ch’egli ama donna più savia, più fedele e più bella, che mai Greco alcuno non amasse, e dimani, avanzandosi fino in mezzo allo spazio che separa le vostre tende dalle mura di Troia, provocherà a suon di tromba ogni Greco che si tenga di lui più fortunato in amore. Se qualcuno si presenta, Ettore l’accoglierà come merita: se no, rientrato in Troia, vi pubblicherà che le bellezze della Grecia son tutte arse dal sole, e che non ve n’ha una che meriti che per lei sia rotta una lancia. Ho detto.
Ag. Questa sfida verrà pubblicata, Enea, e se niuno fra di noi si sente il coraggio di rispondervi, sarà prova che avremo lasciati i nostri eroi nella nostra patria. Ma noi siamo guerrieri e possa il guerriero che non dà, o non ha dato, o che non promette di dare la sua fede ad una bella essere dichiarato vile e senza onore! Se ve n’ha un solo che tale infamia non meriti, ei si batterà contro Ettore; se alcuno non ve n’ha, combatterò io medesimo.
Nes. Parlagli anche di Nestore, di un vecchio che era già adulto allorchè l’avolo di Ettore poppava ancora. Egli è vecchio ora; ma se non si trovasse nel nostro esercito un Greco abbastanza nobile per sostenere l’onore della sua amante, di’ a Ettore per me, che io nasconderò la mia bianca barba sotto una visiera d’oro, che armerò questo debole braccio di uno scudo, e che andandogli incontro gli dichiarerò che la mia bella era più bella dell’avola sua, e casta al pari d’ogni altra donna del mondo. Mi impegno colle tre gocce di sangue che mi rimangono di provargli questa verità, a lui in tanto fiore di giovinezza.
En. Il Cielo non consenta così gran penuria di giovani prodi!
Ul. Così sia!
Ag. Nobile Enea, lasciate ch’io vi stringa la mano; vuo’ condurvi con onore nella nostra tenda. Achille sarà istrutto di questo messaggio, e con lui ogni altro Greco. Bisogna che partecipiate al nostro banchetto prima di lasciarci, e che abbiate le accoglienze dovute a un amico generoso. (escono tutti tranne Ulisse e Nestore)
Ul. Nestore...
Nes. Che dice Ulisse?
Ul. Il mio cervello ha concepito un germe d’idea: siate per me quello che è il tempo per i disegni, aiutatemi a svilupparlo.
Nest. Qual è esso?
Ul. Eccolo. L’orgoglio di Achille è giunto tant’oltre che bisogna necessariamente o abbatterlo, o permettere che divenga cagione di mille mali.
Nes. In qual modo abbatterlo?
Ul. La sfida del grande Ettore, quantunque indirizzata a tutti i Greci, è pure nella di lui intenzione rivolta al solo Achille.
Nes. Questo pare anche a me, e son certo che alla pubblicazione di quella sfida Achille non mancherà di credersi bersaglio ai dispregi di Ettore.
Ul. E ciò l’inciterà a rispondergli. Non è vero?
Nes. Sì, certamente, e se questo non fosse, qual altro guerriero potremo noi opporre ad Ettore? Sebbene tal combattimento non sia che un giuoco, pure ne scaturiranno molto previsioni, e il valor nostro sarà librato dalla fortuna di esso. Questo duello sarà come un disegno in miniatura degli avvenimenti che debbono seguire, e si supporrà che il campione che combatterà contro Ettore sia il nostro guerriero più detto, e in sè riassuma una parte di ognuno di noi, e d’ogni nostra virtù. Se egli cade, chi ne trarrà un presagio di future vittorie? chi affronterà con baldanza le vicissitudini che matura l’avvenire?
Ul. Perdonatemi, ma è per tali ragioni appunto che non è dicevole che Achille combatta contro Ettore. Imitiamo il marcatante; mostriamo prima, com’esso, quello che abbiamo di meno predoso; speriamo in una lieta ventura; quando questa non otteniamo, lo splendore di ciò che porremo quindi in visto risalterà vieppiù col confronto della prima esposizione. Non permettiamo dunque che Ettore ed Achille combattano; perocchè dall’esito di quel conflitto deriveranno grandi conseguenze per l’onor nostro, o per la nostra vergogna.
Nes. Quali sono esse? I miei deboli occhi non le veggono.
Ul. Achille già tanto orgoglioso, che cosa diverrà egli quando creda di porne a parte della sua vittoria sopra Ettore? Meno patiremmo dovendo sopportare gli ardori del sole dell’Africa, che gli spregi insultanti del suo occhio superbo, s’egli abbatter dovesse il campione di Troia: e se vinto ne restasse, ogni fiducia in noi stessi verrebbe meno insieme col nostro miglior guerriero. No: adoperiamo piuttosto in guisa che combatto lo stupido Ajace. Prodighiamo a lui i più alti elogii, siccome al nostro miglior guerriero, e ciò servirà a rintuzzare la superbia di Achille, il di cui pennacchio s’innalza più altero che l’azzurra ciarpa di Iride. Se il goffo Ajace non soccombe, lo colmeremo di elogii; se soccombe, durerà sempre l’opinione che guerrieri più prodi ne restano. Così vincitori o vinti noi otterremo il nostro intento poco nulla rischiando.
Nes. Lodo la vostra idea, Ulisse, e vado a farne consapevole Agamennone. Corriamo da lui tosto: i due cani s’addomesticheranno l’uno con l’altro, gettando fra di essi quell’osso che varrà di più ad irritarli.(escono)