Troilo e Cressida/Atto secondo
Questo testo è completo. |
◄ | Atto primo | Atto terzo | ► |
ATTO SECONDO
SCENA I.
Un’altra parte del campo Greco.
Entrano Ajace e Tersite.
Aj. Tersite...
Ter. Agamennone... s’egli avesse piaghe per tutto il corpo.
Aj. Tersite...
Ter. E quelle piaghe sanguinassero, allora somministrerebbe materia..
Aj. Cane..
Ter. Ed uscirebbe da lui qualche cosa; ma fino ad ora nulla ne esce.
Aj. Cane, non vorrai tu ascoltarmi? Vediamo se mi sentirai. (lo percuote)
Ter. La peste della Grecia ti colga, stupido, imbelle.
Aj. Rispondimi, o ti batterò fino a che tu divenga leggiadro.
Ter. Ed io ti schernirò fino che tu acquisti spirito mansuetudine; ma credo che il tuo cavallo imparerebbe prima un’orazione a memoria, che tu una preghiera senza libro. Tu mi vuoi battere? La peste ti colga.
Aj. Avanzo di rospo, dimmi di che cosa trattava il bando?
Ter. Credi tu ch’io non senta, per battermi così?
Aj. Il bando..
Ter. Credo si bandisse che tu sei pazzo.
Aj. Non provocarmi, maiale, che le dita mi prudono.
Ter. Vorrei prudessi da cima a fondo, e ch’io potessi grattarti, farei di te il più turpe lebbroso della Grecia.
Aj. Il bando, dico...
Ter. Tu borbotti e schernisci ad ogni istante Achille, sebbene ne invidii la grandezza, e ne sii geloso come Cerbero lo è di Prosperina: questo è che ti fa latrare contro di lui.
Aj. Tersite femmina!
Ter. Lui dovresti battere.
Aj. Stolto insensato!
Ter. Ei ti farebbe in minuzzoli col suo pugno potente, come un marinajo mette in minuzzoli un biscotto.
Aj. Maledetto cane! (battendolo di nuovo)
Ter. Continua, continua.
Aj. Sgabello da strega!
Ter. Uomo dal cervello cotto, tu hai tanto ingegno quanto se ne racchiude nel mio gomito; un ciuco potrebbe divenirti precettore. Tu, malandrino, fosti qui posto per abbattere i Troiani, e zimbello sei di tutti coloro che hanno un po’ di senno, come uno schiavo di Barberia. Se ti avvezzi a battermi, ti anatomizzerò dalla testa ai piedi, e ti dirò quel che vali oncia a oncia, volume di carne senza viscere.
Aj. Cane!
Ter. Lebbroso!
Aj. Cane! (battendolo)
Ter. Idiota, camello, continua pure a tuo talento. (entrano Achille e Patroclo)
Ach. Che v’è, Ajace? perchè lo battete così? Che facesti, Tersite?
Ter. Lo vedete, lo vedete!
Ach. Che fu?
Ter. Guardatelo.
Ach. Ebbene?
Ter. Guardatelo attentamente.
Ach. Questo ho fatto.
Ter. No, non l’avete considerato bene; perocchè per chiunque vel prendiate, egli è Ajace.
Ach. Lo so, pazzo.
Ter. Ma questo pazzo non si conosce da sè.
Aj. Perciò ti batto.
Ter. Maltrattai il suo cervello, ed egli battè le mie ossa. Quell’uomo che ha il cervello nel ventre, e le budella in testa... vuo’ dirvi quello ch’io dissi di lui.
Ach. Ebbene?
Ter. Dissi che questo Ajace... (Ajace vuol batterlo di nuovo, ma Achille s’interpone)
Ach. No, buon Ajace.
Ter. Non ha tanto ingegno...
Ach. Continua, ti difenderò.
Ter. Quanto ne occorrerebbe per turare la cruna dell’ago di Elena, per cui egli è venuto a combattere.
Ach. Taci, pazzo.
Ter. Vorrei un po’ di quiete, ma quel demente non me ne lascia: egli è sola cagione di ogni mio danno.
Aj. Oh maledetto cane! ti...
Ach. Volete sdegnarvi contro un pazzo?
Ter. No, ve ne assicuro, perchè il pazzo saprebbe confonderlo.
Patr. Moderazione, Tersite.
Ach. Ma qual è il motivo della contesa?
Aj. Dissi a quel vil gufo, che m’istruisse del bando promulgato, ed ei si fe’ beffe di me.
Ter. Non sono tuo schiavo.
Aj. Bene sta; vattene.
Ter. Servo qui volontariamente.
Ach. L’ultimo servizio però che prestasti fu forzato. Niuno si lascia battere volontariamente.
Ter. Da senno? Anche una parte del vostro spirito sta dunque nei vostri muscoli: è vero il detto. Se Ettore vi fende il capo egli vi troverà tanta midolla, quanta se ne trova nei gusci di una noce vuota.
Ach. Come! Anche a me, Tersite?
Ter. V’è Ulisse e il vecchio Nestore i di cui ingegni erano già maturi, prima che i vostri nonni avessero unghie ai piedi; essi sono che vi hanno aggiogati come due buoi al vomere, e che vi fanno sudare in questa terra.
Ach. Che, che?
Ter. Parlo il vero. Achille, Ajace; oh, oh! (ridendo)
Aj. Ti taglierò la lingua.
Ter. Non me ne cale; parlerò come te anche senza.
Patr. Basta, Tersite; taci.
Ter. Tacerò quando Achille mi dirà di tacere.
Ach. Questa tocca a te, Patrocolo.
Ter. Vuo’ vedervi appiccati come due cani prima di rientrare nelle vostre tende; muoverò verso i luoghi dove trovasi un po’ d’ingegno, e abbandonerò la schiera degli insensati. (esce)
Patr. Una buona lingua!
Ach. Ecco quello che si è pubblicato pel campo: Ettore, verso l’ora prima del sole, verrà con una tromba fra le nostre tende e le mura di Troja dimani mattina, a sfidare ogni nostro guerriero più coraggioso, che oserà sostenere..... non so che cosa. Mera stoltezza, addio.
Aj. Addio. Chi gli risponderà?
Ach. Nol so, lo deciderà la sorte; altrimenti egli avrebbe trovato un degno avversario.
Aj. Credo parliate di voi... ma vuo’ andarmi ad informare di quanto è avvenuto. (escono)SCENA II.
Troja. — Una stanza nel palazzo di Priamo.
Entrano Priamo, Ettore, Troilo, Paride ed Eleno.
Pr. Dopo tante ore, tante contese e tante parole, Nestore riede ancora per dirne, in nome dei Greci, che restituiamo Elena, e che così s’obblierà tutto il passato. Che rispondete a tal risposta, Ettore?
Ett. Ne fo ragione, dicendo che niuno v’ha che tema meno di me i Greci; ma nondimeno, augusto Priamo, niuno l’ha pure che sia più di me sensibile alle sventure di questa terra. Una soverchia fidanza in se stessi è cagione soventi di terribili mali; un saggio timore è fecondo di sicurezza e di pace. Elena esca di Troja. Da che la prima spada è stata sguainata in questo litigio, fra le tante vittime immolata più di cento per mille erano di prezzo eguale ad Elena: parlo di quelle che perdute abbiamo. Se tante stragi abbiam tollerate per conservar un bene che non è nostro, e che quando pure lo fosse, non varrebbe il prezzo di dieci olocausti; qual valore può avere il motivo che ci fa ricusare di restituirlo?
Troil. Vergogna, vergogna, fratello. Pesate voi il prezzo e l’onore d’un re, d’un re così grande come lo è il nostro augusto padre, nella bilancia che serve agli oggetti volgari? Volete computare colla norma usata il valore dell’infinito suo merito, e ridurne la misura a proporzione così piccola, com’è quella dei ragionamenti e dei timori? Ne attesto gli Dei, quest’è un obbrobrio.
El. Non è da meravigliare che voi facciate sì poco conto della ragione, voi che sfornito ne siete. Dovrebbe dunque il padre nostro regger l’impero suo senza il soccorso dell’intelletto, perchè il vostro discorso che glielo consiglia n’è privo?
Troil. Fratello sacerdote, voi vi avvantaggiate nel sostenere i sogni e le visioni: l’arte del ragionare conserva la fodera ai vostri guanti. Ecco i vostri argomenti. Voi sapete che un nemico vuole la vostra perdita, sapete che una spada è pericolosa a trattarsi, e la ragione rifugge da ogni oggetto che le è di timore; chi stupirà dunque se Eleno, quando vede dinanzi a sè un Greco armato, impenna tosto ai piedi le ali della prudenza, e fugge così rapido come Mercurio dinanzi a Giove, così celere come una stella lanciata fuori della sua orbita? Se vogliamo favellar di ragione chiudiamo le nostre porte, e abbandoniamoci al sonno; il coraggio e l’onore avrebbero cuori di lepre, se non si alimentassero che di sì insipida vivanda. La ragione e la prudenza fanno impallidire i prodi, e abbattono i generosi.
Ett. Elena, fratello, non vale quel che ci costa per ritenerla.
Troil. Chi può misurare un prezzo d’affezione?
Ett. Ma il prezzo d’una cosa non dipende dalla volontà d’un uomo: esso risiede così nel merito reale dell’oggetto prezioso, come nell’opinione di quegli che lo estima. Strana idolatria è l’offrire un culto maggiore che non è il Dio a cui vien pòrto; delirio affezionarsi ad un oggetto che vi seduce e v’inganna, senza neppure quelle apparenze del merito che l’illusione soltanto trova in esso.
Troil. Poniamo ch’io oggi sposi una donna, e la mia scelta segua la mia inclinazione: quest’inclinazione si è sviluppata col ministero delle mie orecchie e de’ miei occhi, piloti sempre naviganti fra le pericolose rive della passione e della ragione. Come poss’io disfarmi della donna che ho scelto, quand’essa pur divenga odiosa alla mia ragione? Non v’è mezzo per svincolarsene, volendo rimanere in pari tempo sulla strada dell’onore. Noi non rimandiamo al mercante le sue sete dopo che le abbiamo portate; non imbandiamo cogli avanzi d’uno splendido banchetto un banchetto nuovo. Fu creduto bene che Paride si vendicasse dei Greci, e fu il soffio dei suffragi unanimi che gonfiò le sue vele; i venti, desistendo dalle loro contese, fecer tregua per secondare i suoi disegni; ed egli giunse alla fine al porto desiderato, recando per una parente decrepita che i Greci han ritenuta cattiva, una regina la cui giovinezza e la di cui venustà fanno impallidire Apollo e l’Aurora. Perchè la conserviamo noi? Perchè ritengono i Greci l’avola nostra? Merita ella d’esser trattenuta? Oh! Elena è una perla, pel conquisto della quale sonosi avventurati mille vascelli, e che ha trasmutati in navigatori cento re coronati. Se voi consentite che il viaggio di Paride fu saggio, come siete costretti a convenirne avendolo voi stessi approvato; se consentite ch’ei fra di noi ricondusse una nobile gemma, come consentirlo dovete avendo fatto risuonar Troja dei vostri applausi allorchè la vedeste; perchè biasimereste oggi le conseguenze dei vostri medesimi consigli, e disprezzereste un oggetto che avete stimato al disopra delle ricchezze dei mari e della terra; vile sarebbe stato il furto, trafugando con astuzia un bene che tremiamo a difendere! Indegni, immeritevoli del tesoro che rapito abbiamo saremmo, se dopo aver fatto oltraggio a coloro nel seno stesso del loro paese, di loro ora temessimo fra le mura della nostra patria. (s’ode al di dentro Cassandra che grida: Piangete, Trojani, piangete!)
Pr. Che strepito è questo? Chi è che grida?
Troil. È l’invasa nostra sorella; la riconosco alla voce.
Cas. (dal di dentro) Piangete, Trojani!
Ett. È Cassandra. (entra Cassandra delirante)
Cas. Piangete, Trojani, piangete! Datemi cento occhi ed io li riempirò tutti di profetiche lagrime.
Ett. Calmatevi, sorella, calmatevi.
Cas. Vergini e garzoni, adulti e vecchi, fanciullettl, che non sapete che guaire, accompagnate i miei clamori. Paghiamo prima del tempo la metà dell’enorme tributo dì dolori e di gemiti, che l’avvenire ne prepara. Raddoppiate le vostre grida, Trojani: avvezzate i vostri occhi al pianto. Troja deve cadere, e il superbo palagio d’Ilio dev’essere raso. Paride, il fratello nostro, è l’avventata torcia che tutti debbo abbruciarne. Innalzate le vostre grida, Trojani; non proferite che voci di dolore: sventura, sventura! Troja è in fiamme, se Elena non si diparte presto dalle sue mura. (esce)
Ett. Ebbene, giovine Troilo, quegli accenti profetici della nostra sorella non fanno essi alcuna impressione sull’anima vostra? O il vostro sangue è egli tanto ardente che i savii consigli, e il timore d’un cattivo successo in una triste causa non possano calmarlo?
Troil. Mi sarà ben permesso, fratello Ettore, io credo, di non giudicare della giustizia d’un’impresa dal suo successo; e di non abbandonarmi allo scoraggiamento solo perchè Cassandra delira. Gl’impeti frenetici del suo cervello non possono snaturare la equità d’una contesa, che l’onor nostro è obbligato a sostenere. Per me non v’ho che l’interesse di tutti gli altri figli di Priamo; ma Giove non consenta che sia fra di noi presa alcuna risoluzione, che ci lasci poscia qualche rimorso.
Par. Altrimenti il mondo potrebbe dar nota di leggerezza alle mie opere, come ai consigli vostri; ma attesto gli Dei, che fa il vostro libero consenso che mi fe’ forte nella mia tendenza e spense ogni mio dubbio: perocchè cosa avrebbe potuto la forza del mio braccio solo? Qual difesa poteva opporre un uomo solo ai tanti nemici, che armar doveva quel litigio? E nondimeno dichiaro che se dovessi io solo subirne i pericoli, quando il mio potere eguagliasse la mia volontà, non mai Paride si disdirebbe da quel che ha fatto, o s’arresterebbe a metà della via.
Pr. Paride, voi parlate come uomo ebbro di voluttà: voi gustate il miele, e a noi tutti toccano le amarezze: non vi si può quindi saper grado d’esser prode.
Par. Signore, non ho soltanto dinanzi i piaoeri congiunti al possedimento d’Elena: vorrei cancellare anche la macchia del suo felice ratto, solo per aver l’onore di conservarla. Qual tradimento non sarebbe contro quella principessa, quale obbrobrio pel vostro onore, quale ignominia per me l’abbandonarla oggi per un vil timore! Può idea così vile insinuarsi pure nelle vostre anime generose? Fra i più deboli del nostro esercito non ve ne ha uno che non ardisca sguainare la spada, allorchè si tratti di difender Elena; nè alcuno v’è, per quanto nobile o grande, la cui vita fosse male spesa, o la morte inonorata quando Elena ne divenisse l’oggetto: conchiudo quindi che noi dobbiamo difendere una bellezza che val più di tutti i regni di questo mondo.
Ett. Paride e Troilo, voi avete entrambi parlato superbamente, ma leggiere furono le vostre obbiezioni, siccome quelle di giovani inetti, come dice Aristotile, a conoscere la vera morale. Gli argomenti che voi allegate s’addicono meglio all’ardore del sangue, che alla scelta fra il giusto e l’ingiusto; il piacere e la vendetta han l’orecchio più sordo del serpe alla voce d’una saggia decisione. È la natura che vuole che si renda al legittimo possessore il bene che gli appartiene; e qual diritto più sacro vi ha di quello d’uno sposo sopra una sposa? Se questa regola è infranta dalla passione, e i cuori le resistono per un’indulgenza parziale alle loro inclinazioni, v’è in ogni paese ben retto una legge, che vuole che si superino passioni sa sfrenate, le quali sconvolgerebbero ogni ordine. Se dunque Elena è sposa d’un re di Sparta (com’è noto ch’essa è), queste leggi di natura e di morale richiedono che rimandata venga allo sposo suo. Persistere in un’ingiustizia non è porvi riparo; è al contrario vieppiù aggravarla. Quest’è il mio consiglio, ove io voglia consultare solo la giustizia; ma continuerò con voi, miei fratelli, a difendere Elena, s’ella deve restare fra di noi.
Troil. Ettore generoso, ella è un oggetto d’onore, e perciò deve essere difesa. Il nostro valore, che per lei si dispiegherà interamente, consacrerà i nostri nomi alla gloria nei temi avvenire; e per tutti i tesori del mondo credo che tu non volessi perdere la palma d’onore che raccoglierai in quest’impresa.
Ett. Ebbene, ciò sia. Io ho già sfidato i Greci sediziosi a lascivi con parole che scenderanno fino al fondo delle loro anime. Seppi e il loro gran duce dormiva, intantochè la gelosia trascorreva pel suo esercito: spero che la mia sfida lo saprà risvegliare. (escono)
SCENA III.
Il campo greco. — Dinanzi alla tenda d’Achille.
Entra Tersite.
Ter. Ebbene, Tersite? Tu ti smarrisci nel labirinto del tuo furore? Quell’elefante d’Aiace ne escirà egli a sì buon patto? Ei mi crucia ed io lo beffo: bel compenso affè! Vorrei mutar parte con lui; vorrei batterlo io e ch’egli mi schernisse. Per l’inferno! apprenderò a scongiurare e ad evocare i demoni piuttosto che veder senza effetto le imprecazioni della mia collera. E questo Achille ancora!.... Leggiadra macchina da guerra! Se Troia non è presa che quando questi due assediatori avran minate le sue fondamenta, le sue mura si sosterranno fino a che cadano da loro stesse. — Oh tu gran scaglia-fulmini, obblìa d’esser Giove re degli Dei; e tu, Mercurio, dimentica l’astuzia dei serpenti attorcigliati intorno al tuo caduceo, e venite entrambi da questi due campioni ad imparare cosa sia forza e destrezza. Ma chiamiamo costoro. — Olà, Achille! (entra Patroclo)
Pat. Chi è costà? Tersite! Buon Tersite, entra e vieni a rallegrarne.
Ter. (a parte) La maledizione che pesa su di tutto il genere umano cada sopra di te largamente! Il Cielo voglia lasciarti senza alcun tutore, onde la prudenza ti rimanga sempre sconosciuta. L’ardore del tuo sangue ti sia sola guida sino alla morte: e allora se quella che ti sepellirà dice che sei bello, giurerò ch’essa non avrà mai sepolto che lebbrosi. Così sia. — Dov’è Achille?
Pat. Sei tu divenuto devoto? Oravi dianzi?
Ter. Sì, e prego il Cielo che m’ascolti. (entra Achille)
Ach. Chi è qui?
Pat. Tersite, signore.
Ach. Dove, dove? Sei tu venuto? Perchè mio cacio, mio sussidio alla digestione, non sei stato posto colle altre vivande sulla mia mensa? Su via, dimmi che cosa è Agamennone.
Ter. È il tuo duce. Achille: dimmi tu, Patroclo, che cosa è Achille?
Pat. Il tuo signore, Tersite; palesami ora che cosa sei tu stesso.
Ter. Un uomo che ti conosce, Patroclo; e che sei tu?
Pat. Lo potrai dire se ti son noto.
Ach. Oh! dillo, dillo.
Ter. Biassamerò tutte le dimande. Agamennone comanda ad Achille, Achille a me, io sono il conoscitore di Patroclo, e Patroclo è un pazzo.
Pat. Miserabile!
Ter. Taci, demente, non ho finito.
Ach. Egli è un uomo privilegiato: continua, Tersite.
Ter. Agamennone è un pazzo; Tersite è un pazzo, Achille è un pazzo, e, come si disse innanzi, Patroclo è demente.
Ach. Provalo: vediamo.
Ter. Agamennone è un pazzo, volendo comandare ad Achille; Achille lo è lasciandosi comandare da Agamennone; Tersite è un insensato stando ai servigi di un padrone qual è Achille; e Patroclo è demente senza bisogno di prove.
Pat. Perchè son io demente?
Ter. Chiedilo a quello che ti ha fatto. — A me basta che lo sii. — Mirate chi viene verso di noi! (entrano Agamennone, Ulisse, Nestore, Diomede e Ajace)
Ach. Non vuo’ parlar con nessuno: vieni con me, Tersite. (esce)
Ter. Quanti intrighi, e quante superbie, quanto sangue, e quante stragi per una meretrice ed uno sposo tradito! Nobile contesa in verità da eccitare tante fazioni gelose! Maledizione sopra tutti gli stolidi, e non se ne salvi uno da questa guerra! (esce)
Ag. Dov’è Achille?
Pat. Nella sua tenda, ma indisposto, signore.
Ag. Fategli sapere che siamo qui: ei non volle ricevere i nostri inviati, ed obbliando le prerogative che abbiamo, venimmo per visitarlo. Non dimenticate di fargli conoscere ciò, per tema che ei non imagini che non osiamo ricordarci dei nostri diritti che disconosciamo il nostro grado.
Pat. Glielo dirò. (esce)
Ul. Noi lo vedemmo dinanzi alla sua tenda; ei non è infermo.
Aj. Si, lo è, ma del male del leone, di superbia di cuore: potete chiamarla malinconia, se vi piace; ma io lo reputo puro orgoglio. Perchè poi lo sente egli? Ce ne desse almeno ragione. — Una parola con voi, signore. (parla ad Agamennone in disparte)
Nest. Perchè Ajace è così sdegnato contro di lui?
Ul. Perchè Achille gli ha sedotto il suo pazzo.
Nest. Chi? Tersite?
Ul. Sì.
Nest. La loro disunione coopera meglio ai nostri intenti che nol potesse il loro accordo: ma dovevano essere vincoli ben forti se un pazzo ha potuto romperli.
Ul. L’amicizia, a cui la saviezza non è base, cessa facilmente. Ecco Patroclo che ritorna.
Nest. Nè Achille vien con lui.
Ul. L’elefante ha le giunture, ma non per atti civili: le sue gambe servono ai suoi bisogni, ma non per genuflettere. (rientra Patroclo)
Pat. Achille vuol sappiate che è ben dolente, se qualche cosa diversa dal vostro piacere vi ha fatto venire alla sua tenda; egli spera che l’intento di questa visita sarà stato solo quello di dar moto alle membra per assecondare la concozione dei cibi.
Ag. Udite, Patroclo, noi non siam che troppo avvezzi a simili risposte; e queste parole di spregio che ei ne manda sono da noi accolte come meritano. Egli possiede egregie doti, e noi abbiam molta ragione per fargli giustizia; nondimeno tutte le sue virtù, che egli stesso non mostra in modo molto glorioso, cominciano a perdere il loro splendore ai nostri occhi, e sono riputate da noi come un bel frutto in una vivanda mal sana, che seccar si potrebbe senza che alcuno ne gustasse. Andate, e ditegli che venimmo qui per favellargli: ditegli che noi lo tassiamo di un eccesso d’orgoglio e di mancanza di cortesia. Egli si stima più grande nell’opinione sua presuntuosa, che non lo rassembri all’occhio imparziale della verità. Ditegli che uomini più degni di lui notano la villana arroganza che ostenta, ma dissimulano, e si rassegnano con umile deferenza alla sua superiorità, assecondando il flusso del suo umore, come se il buon esito di quest’impresa da lui solo dipendesse. Andate ad esporgli tutto ciò; e aggiungete che se egli si pone ad un prezzo troppo alto, noi farem senza dei suoi servigii, e simile ad una macchina da guerra, che trasportare non si possa, lo lascieremo qui giacente, bersaglio ai rimproveri di tutti. Un nano operoso val più di un gigante addormentato. Ditegli questo.
Patr. Così farò, e vi riporterò la sua risposta. (esce)
Ag. Neppure questa sua seconda risposta ci appagherà. Qui venimmo per parlargli... Entrate, Ulisse, nella sua tenda. (Ul. esce)
Aj. E che è egli più degli altri?
Ag. Da più non è di quello ch’ei si crede.
Aj. Ma neppure è tanto: pensate voi ch’ei non si reputi superiore a me?
Ag. Oh senza dubbio.
Aj. E consentireste in ciò con lui?
Ag. No, nobile Ajace; voi siete del pari forte, valente e savio, non meno nobile, molto più cortese, e assai più mansueto.
Aj. Come si può essere orgogliosi? In qual guisa nasce l’orgogllo? Io non so che cosa sia.
Ag. Il vostro spirito è più placido, Ajace, e le vostre virtù più belle. L’uomo superbo finisce per divorare se stesso: l’orgoglio è a se medesimo specchio, cronaca e tromba: ed ogni opera ch’ei loda toglie ad essa il merito che aveva.
Aj. Odio i superbi come la razza dei rospi.
Nest. (a parte) E nondimeno ama se stesso: non è ciò strano? (rientra Ulisse)
Ul. Achille non verrà sul campo dimani.
Ag. Per qual motivo?
Ul. Alcuno non ne adduce; ma segue il suo talento senza curarsi di noi, tenace nei suoi voleri e nella sua presunzione.
Ag. Perchè non vuol egli, aderendo alla nostra inchiesta, mostrarsi fuori della sua tenda?
Ul. Da che si prega, ei muta le cose più piccole negli oggetti più importanti. Pieno è della sua grandezza e non parla seco stesso che con un orgoglio sdegnoso. L’idea che ha del suo merito eccita nel di lui sangue così bollente emozione, che pieno tutto di sè gli altri non vede che con infinito disprezzo.
Ag. Ajace vada a trovarlo: si dice ch’ei lo estimi assai: alla sua preghiera si lascierà smuovere.
Ul. Oh Agamennone! non fate neppur la prova. Dovremo noi prostituirgli un eroe che veneriamo più di lui? No, il generoso Ajace non deve umiliar se stesso dinanzi ad Achille. Tale omaggio non gioverebbe che ad enfiarlo vieppiù; sarebbe un aggiungere fuoco al cancro, allorchè è già infiammato, e che alimenta le vampe del grande Iperione. Ajace dovrebbe ire a trovarlo? Oh Giove! nol permettere, e fra un fragor dì tuoni rispondi: Achille venga a trovar Ajace.
Nes. (a parte) A meraviglia; ora egli lo tocca come va.
Diom. (a parte) Come si abbevera in silenzio Ajace di queste lodi!
Aj. S’io vado da lui, vuo’ dargli una guanciata.
Ag. Voi non v’andrete.
Aj. Se vuol farla da superbo con me, rintuzzerò il suo orgogiio. Lasciatemi andare.
Ul. No, per tutto il prezzo attaccato a questa guerra!
Aj. È un vile insolente, miserabile.....
Nest. (a parte) Come bene ei dipinge se stesso.
Aj. Perchè non è più cortese?
Ul. (a parte) Il corvo grida contro il color nero.
Aj. Gli farò pagar cara la sua tracotanza.
Ag. (a parte) Medico diverrà dunque quegli che dovrebbe essere infermo?
Aj. Se tutti pensassero com’io...
Ul. (a parte) L’ingegno andrebbe giù di moda.
Aj. Ei non ne uscirebbe così; converrebbe mangiasse le nostre spade prima. L’orgoglio otterrà esso vittoria?
Nest. (a parte) La metà di una tale vittoria toccherebbe a voi.
Ul. (a parte) Ne avreste dieci porzioni.
Aj. Lo domerò a dovere, e lo renderò, più pieghevole.
Nest. (a parte) Ei non è ancora abbastanza caldo; lodatelo anche di più: la sua ambizione lo esige.
Ul. (ad Ag.) Signore, avete anche di troppo pensato ad Achille.
Nest. Illustre duce, dimenticatevene, che è giusto.
Diom. Apparecchiatevi a combattere senza Achille.
Ul. Un vero eroe vi resta: ma nol loderò mentre è presente.
Nest. E perchè? Egli non è invidioso come Achille.
Ul. Sappia dunque l’intero mondo che questo nostro eroe è prode al pari di lui.
Aj. Un vil cane trattarne così? Quanto pagherei ch’ei fosse Troiano.
Nest. Qual colpa sarebbe ora in Ajace...
Ul. Ch’ei fosse orgoglioso.
Diom. O ambizioso di lodi.
Ul. O inquieto e intollerante.
Diom. O caparbio e pieno di sè.
Ul. Ringraziane il Cielo, Ajace; il tuo carattere è a prova di tal difetti. Loda quegli che ti ha generato, quella che ti allattò; gloria e fama a colui che prese a educarti, e i doni che ti ha prodigati la natura vadan famosi sopra quelli che conferisce lo studio. Marte divida l’eternità della sua gloria, e ne dia una parte a quegli che ti istrui a combattere: la tua forza è tale che Milone è appo te un fanciullo. Non celebrerò la tua saviezza che quasi argine è posta alle tue doti cospicue. Ecco qui Nestore; ei deve essere istrutto dalla sua lunga vita, ed è impossibile che non fosse saggio. Però, venerabile Nestore, se voi aveste gli anni d’Ajace, e il vostro cervello fosse della medesima tempra, non avreste la preminenza sopra di lui, ma gli sareste soltanto pari.
Aj. Vi chiamerò io padre?
Nest. Sì, mio buon figlio.
Diom. Lasciati guidare da lui, Ajace.
Ul. È inutile fermarsi di più in questo luogo; il cervo Achille ne sta racchiuso nel suo covo. Vuole il nostro illustre generale convocare il suo consiglio di guerra? Nuovi re sono entrati in Troia. Dimani dobbiamo combattere, e questo è un guerriero! Vengano quanti cavalieri si vuole da oriente e da occidente, e scelgano fra di essi il fiore de’ loro eroi; Ajace pugnerà contro il più altero di tutti.
Ag. Andiamo al consiglio. — Achille dorma. - I palischermi volano su le onde, intantochè i grandi vascelli stagnano nel fango.(escono)