Trionfi di donna/Senape inglese o senape francese?
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- SENAPE INGLESE
- O SENAPE FRANCESE?
Per trovare la ragione per cui il comm. Fabrizi — autorevole magistrato, uomo solidissimo, anzi una specie di cavallo della ditta Gondrand attaccato al forgone del più rigido dovere, uomo che morendo in pieno esercizio delle sue funzioni, avrebbe avuto uno splendido funerale di prima classe e avrebbe costituito uno spontaneo fatto di cronaca ne’ giornali — peccasse di pensiero e di azione, bisogna risalire al giorno prima.
Un più sottile osservatore potrebbe eziandio ricercarne le cause nel dolce aprile che blandamente, ma invincibilmente, risveglia le piante e gli uomini senza alcun rispetto alla matura età, al senno maturo, al loro grado sociale; ma accontentiamoci della prima spiegazione: cioè quella del giorno prima.
Ora che cosa era saltato in mente il giorno prima al quasi illustre C*** C*** di fermarlo per la via così? Così, con queste parole:
«Sapristi, sapete voi, caro Fabrizi, che voi siete ancora un bell’uomo, un imponente, un gagliardo uomo? I vostri occhi, sì, sono liebig! Peccato che portiate quella barba, indizio e rivelatrice del tempo, ahi, inesorabile ed edace!»
***
C*** C*** è un felice letterato mondano, il quale se non declinasse oramai per la inesorabile curva degli anni, avrebbe buona speranza di vedere avverato il suo lungo sogno di gloria. Ma la morte lo gabberà. Egli intanto si oppone per quanto può a questa crudele discesa, e un suo innocente artificio consiste nel ripetere alle dame le eterne, le uguali, le romantiche parole; e siccome tanto elle che lui discendono verso le rughe ed il grigio, così nè elle nè lui si avvedono del dolce inganno.
E fu manifestamente per effetto di questa sua inveterata abitudine di far complimenti che egli disse all’amico: «I vostri occhi sono liebig!»
E quel liebig voleva dire «sguardo concentrato come l’estratto omonimo» ovvero «amabile» come liebig significa in tedesco?
Il commendatore Fabrizi non si curò per allora di indagare, ma se ne sentì lusingato: tanto più che l’altro aggiunse enfaticamente: «Noi seguaci delle Muse, abbiamo un continuo ricambio di fosforo, laonde per noi la vecchiezza non è che un involucro apparente. In voi, seguaci della rigida Temi, avviene lo stesso, a quanto pare!»
Queste parole fermentarono nel sistema psiconervoso del commendator Fabrizi, perchè se non si fosse più ricordato che avea gli occhi liebig, non avrebbe risposto allo sguardo; se non avesse accettata per buona l’affermazione del ricambio di fosforo e la teoria dell’«involucro apparente», si sarebbe vergognato della sua debolezza, inconcepibile dopo tanti anni di virtuosa astinenza e di nobile esempio della virtù.
Ma per Dio! Se uno deve cadere in tentazione dopo venti o trent’anni di esercizio stoico dell’abstine-sustine, dopo tante rinunzie, tanto vale che ci cada prima!
Il vero è che questo grave magistrato si era così assuefatto all’abstine-sustine che se avesse dovuto rispondere perchè Iddio ha messo al mondo le belle, le folli, le amabili, le incoscienti, le seducenti donnine, si sarebbe trovato assai impacciato. La donna è il lievito primo delle passioni e dei delitti: ciò risultava evidentemente al commendatore Fabrizi. Se dunque si potessero abolire le incoscienti e seducenti donne come si potrebbero abolire le cartoline pornografiche, sarebbe abolito anche il delitto. Questo pure risultava evidente.
Ma in questo caso anche i magistrati, lui compreso, sarebbero stati aboliti: la vita stessa subirebbe un’abolizione! Manifestamente nel mondo ci sono delle questioni complesse e il miglior modo per comprenderle è di pensarci il meno possibile e lasciar da parte la logica.
La verità, anzi tutta la verità, è che, proprio in quella mattina, gliene capitò una seducentissima di donnine, di fronte a lui, in tram.
E, cosa inverosimile, costei guardava lui, proprio lui, negli occhi liebig.
Ma era verosimile, ripeto, che una donna guardasse lui? Verosimile come se il buon diavolo Asmodeo comparisse nel nostro studiolo e ci dicesse: «Pronto, signore, a trasportarvi per l’aria!» così pareva verosimile al commendatore Fabrizi di esser guardato a quel modo da una bella donna.
Il commendatore sbirciò a destra e a sinistra: nessuno! Dunque la causa della fissazione di quelle due maliarde pupille non era che lui. Cosa più che inverosimile!
La donna che lo guardava non era dama ma neanche cortigiana; non crestaina vestita da festa; non di quelle femmine che imparano bensì per istinto in poche prove l’arte dell’eleganza, ma, apriti o cielo se schiudon la bocca! colei invece non solo la apriva e mostrava una boccuccia fresca ed odorosa con una doppia fila di denti madidi e perlacei, ma parlava vezzosamente, finamente alla sua compagna; sempre però fissando lui negli occhi liebig.
Un feltro alla studentesca, due sbuffi di capelli castani in su le tempie, un ovale di giovanetta ventenne, pallido e fresco che dava l’idea della giunchiglia d’aprile! Ricordava quei tipi di ragazze che si attaccano con predilezione ai seguaci di Minerva, cioè agli studenti, e che erano in uso un trent’anni fa. Lui — il fiero magistrato — in trent’anni era mutato moltissimo, ma quel tipo di ragazze, spensierate e gaie, modeste di prezzo e di peso, rimaneva tuttora a conforto dell’umana specie! Quella lì ne faceva fede.
Il solenne magistrato da prima si seccò di quello sguardo insistente, poi si irrigidì in tutta la sua dignità, infine concentrò tutto il fuoco di cui era capace negli occhi liebig, imponendo alla fanciulla di smettere. Macchè! quegli occhi maliardi non subirono alcuna perturbazione. Che fare? Il magistrato, di scatto, fece fermare il tram e scese.
Ma appunto, approfittando della fermata, scese anche lei con la compagna.
Ciò era soverchio!
Il commendatore Fabrizi aveva gravi cure in quel dì. E non solo il presidente della Corte d’Appello lo attendeva nel suo studio, ma si trattava anche di conferire col senatore X*** e col marchese C*** e con altri valentuomini intorno ad un fiero proclama da lanciare al paese contro la nefasta propaganda del divorzio.
***
Perchè in quella mattina il commendator Fabrizi, sorbendo il caffè, in veste da camera, si era sentito brillare la splendida idea di rivolgere a tutte le persone, note e notorie, un formulario in proposito di questo tenore:
«Crede Ella che in un popolo pervenuto ad un alto grado di civiltà, dove è ammessa la indissolubilità del coniugio, l’introduzione del divorzio rappresenti un progresso?
«Non teme Ella che dalla adozione del divorzio possa risultare un crescente dissolversi della famiglia?» Queste le domande.
L’idea era bellissima e la trovata degna del suo amore per la conservazione sociale. Bisogna cioè vincere l’Idra rivoluzionaria col metodo suo stesso. Ad referendum! e il commendatore Fabrizi volse il passo verso la casa del senatore.
Ma proprio sull’angolo della via la giovinetta si era fermata per vedere se era seguita, come a dire: «coraggio!»
Ciò oltrepassava i limiti della libertà e dell’audacia! E allora per mostrare a sè, a colei, al manifesto che aveva in tasca, a tutto il mondo, insomma, che egli non ubbidiva ad eccitamenti peccaminosi, si fermò; anzi avendo a mezzo della via trovata una buvette, vi entrò, ed egli, uomo astemio, fu indotto a bere un acerbo ed eccitante liquore. Obbediva forse inconsciamente a quel motto della sapienza popolare: «chiodo scaccia chiodo: un diavolo ne espelle un altro?»
Poichè ebbe bevuto, uscì fiducioso di aver libera la via, e proseguì il cammino verso la casa del senatore. Il feltro chiaro era scomparso dall’orizzonte. «Il divorzio — pensava — disgrega la cellula protoplastica della famiglia. E allora....» ma mentre esaminava entro di sè tutte le terribili conseguenze di questa premessa, proprio sotto il voltone di un palazzo deserto, immobile, sola, lo aspettava al varco il feltro bianco. Ciò si legge anche nelle rime di Francesco Petrarca:
- E fecesegli incontro
- A mezza via come nemico armato!
Era troppo! Il degno magistrato si fermò e si trovò nell’assoluto dovere professionale di inquisire e domandò: «Chi siete voi? Come vi chiamate? Quanti anni avete? Che professione esercitate? Donde venite? Quali sono i vostri mezzi di sussistenza? Da quanto tempo dimorate in questa città? e — finalmente — dove abitate?»
Tutte queste domande che avrebbero offeso qualunque persona, non turbarono che mediocremente la giovinetta: la quale come imputata che non ha nulla da nascondere, nulla da rimproverarsi, rispose a tutto con soavissima voce; e infine da un minuscolo portafogli trasse e porse il suo biglietto di visita con l’annesso recapito: «Sola, orfana, straniera in quella città, anni ventidue, abbandonata dal tutore: commessa viaggiatrice per la casa Band in articoli di mode.» Una vita tersa come uno specchio!
— E allora — replicò il magistrato — che cosa fa lei, qui, sotto questo portone?
— La mia amica — ella rispose — è salita al terzo piano per prendere il suo piccino che oggi fa la prima comunione, ed io ne sono la madrina.
— Va bene: ho piacere di vedere che ella è di principî morali!
— Per fortuna, signore — confermò la giovinetta — in tante mie traversie e vicissitudini infelici la religione non mi ha mai abbandonata. Guai se la Madonna non mi avesse tenuto le sante mani sul capo! Chi sa che cosa sarebbe avvenuto di me, in che abisso sarei caduta, sola, orfana, abbandonata dal tutore, dopo avere egli abusato indegnamente della fiducia che io, povera inesperta fanciulla, riponevo in lui!
Il signor magistrato a queste parole umili e dolenti, al commento che vi facea il pallido volto, si sentì intenerire, onde domandò con voce più mansueta: — Ebbene, cara ragazza, ditemi perchè quell’insistenza nel fissarmi, come facevate in tram.
Il sorriso zampillò negli occhi e sulle labbra di lei: poi si confuse, chinò con ritrosia il volto, in fine, col rapido trapasso dal pianto al riso che è virtù della donna, disse:
— Perchè, o signore, i suoi amabili occhi azzurri mi hanno fatto un’impressione sorprendente, strana. Ella, capisco, potrà pensar male di me, ma avrà proprio torto.
(Evidentemente quel liebig del giorno prima voleva dire amabile. Oramai ne era sicuro: la spiegazione della signorina escludeva ogni altra indagine filologica).
— Veniamo, veniamo a noi — disse più gravemente l’uomo della legge. — Sono vere tutte le cose esposte, proprio vere?
— Verissime, signore, dall’a alla z, e poi, dopo mezzogiorno, finita la comunione, se ha la bontà di venire da me, potrà sincerarsene; vedrà il campionario.
— Perchè no? Se le mie occupazioni me lo permetteranno.
— Come crede, signore. Per mio conto già tutt’oggi bisogna che rimanga in casa.
***
Il degno magistrato salutò severamente, si allontanò e, riscontrando nel suo cammino una seconda buvette, sentì il bisogno di entrarvi. La sua gola, per le poche parole dette, era arsa come dopo un’intera concione.
Un raggio di sole faceva scintillare tutta la bottega e tutti i veleni opalini, verdi, amaranto, che occhieggiavano nelle fiale.
Le commesse del collarino e dai polsini candidi, occhieggiavano anch’elle: ed egli bevve e non provò affatto quel senso nobile di sdegno che lo accompagnava da anni, e per cui tutti i luoghi in cui belle donne fanno da richiamo, gli pareano turpissimi lenocini. Anzi, centellinando, ebbe questa idea: «E se tali luoghi sono lenocinio, come chiameremmo noi gli spettacoli di gala al teatro, i grandi balli ufficiali, ove noi pure, uomini della legge, siamo chiamati ad intervenire? E pure ci intervengono le compite dame, in grande scollato, che mi rivolgono questa prudente e saggia domanda:
«Non teme Ella, commendatore, che dalla adozione del divorzio possa risultare un crescente dissolversi della famiglia?»
«No, signora, non temo, non temo niente,» fu la risposta che allora diede il commendatore.
La famiglia! Il papà al posto d’onore, la mamma di fronte col naso lungo acerbo, la signorina e il signorino ai lati: la domestica ogni giorno col solito piatto di bollito e la solita domanda: «La senape francese o la senape inglese?»
Ciò evidentemente era troppo pel signor magistrato: era un rifare a precipizio in un giorno solo il cammino lento e progressivo di trent’anni per la via della virtù. Se ne accorse anche lui. «Certamente — seguitava pensando — i confini del diritto sono incerti, esistono delle conflagrazioni fra diritto e diritto: ma egli è pur vero che se si dovesse chiudere questo negozio qui in nome della morale e dei santi principî, bisognerebbe chiudere anche quello là: insomma chiudere tutto. Insomma una clausura universale.
No! così la faccenda non va: i conti non vengono. Bisognerebbe cominciare da capo: tutto libero, tutto aperto, tutto permesso! Qui l’orizzonte gli si allargò in una visione mirabile ancorchè fosse tardi, come disse Dante.
Ma poi sopravvenne un’idea che chiuse tutto quell’orizzonte sconfinato di libertà perchè si ricordò del motto di quel famoso filosofo che disse: Cosa disse? Se fosse stato un filosofo antico, un Aristotele, un San Tommaso, un beato Lattanzio, il commendatore Fabrizi se ne sarebbe riso davvero della sentenza di quel filosofo!
Ma si trattava di un filosofo moderno, positivista celebre: egli in quel punto non si ricordava del nome, ma probabilmente si trattava di parecchi filosofi che dissero tutti, press’a poco, la stessa cosa, cioè questa: La civiltà non è stata altro che una continua vittoria contro gli impulsi del senso.
E allora?
Allora non rimane che un rimedio: «abbasso la civiltà e torniamo alla barbarie!»
A questo punto il commendatore ebbe paura delle sue idee e retrocesse, in altri termini uscì dal negozio ove occhieggiavano le fiale velenose in fondo alle quali cova un Asmodeo, loico e demoniaco. Non però che prima non consegnasse ad una di quelle banchiere tutto l’incartamento sul divorzio, pel quale e sul quale doveva conferire col senatore X***. Quell’incartamento anzi tutto gli usciva dalle tasche del soprabito e stava male, inoltre lo sapeva tutto a memoria.
«Crede Ella (domanda ottava) che in un popolo pervenuto ad un alto grado di civiltà dove è ammessa la indissolubilità del coniugio, l’introduzione del divorzio rappresenti un progresso?»
Cosa posso credere io? Io credo, io credo, io credo che far da salice piangente sull’argine del fiume dove corre il torrente dell’umanità sia professione infelice fra le infelicissime! Questo io fermamente credo: — Tenga, signorina, questo pacco di carte: passerò a riprenderlo.
— Si figuri, signor commendatore! — rispose colei inchinando. — Ciò fu un colpo di stile. Anche lì era conosciuto, lì, dovunque, lì come da per tutto la sua barba e la sua dignità sono note: tutta gente che trema, che allibisce davanti a lui: tutti lo riconoscono per il temuto, il rigido custode della legge, a cui nessuno osa dire di no! Cioè, v’è una persona che non solamente osa dire, ma dice sempre di no: La marchesa sua moglie.
Il commendatore uscì molto avvilito.
***
Eppure tutto in quella magnifica mattinata di aprile scintillava superbamente, allegramente, liberamente. E il commendatore Fabrizi pensò che se gli occhi erano ancora liebig, la barba era fatalmente grigia.
Date le idee radicali che gli lampeggiavano in quella mattina, egli ebbe questa prima e felice idea: recarsi dal barbiere e sopprimere interamente il fatale grigio della barba. Ma dopo? No, non si poteva. Tutt’al più si poteva correggerla, appuntirla, ringiovanirla, fare una barba da cavaliere di grazia. E si recò dal suo barbiere. Ma poi, no! Lì si incontrano i soliti gravi e benpensanti amici e conoscenti.
Egli, quella mattina, non era in vena di fare da tutore della società....
«Andremo da un barbiere eccentrico, fuori dazio: dove non sono conosciuto» pensò e salì in tram. Il tram correva nel sole con un’allegria insolita di movimento. Evidentemente le correnti elettriche in quella mattina si risentivano della primavera.
Era appena salito che una mano piatta gli si posò sul panciotto e una voce ben vibrata disse: — Caro Commendatore, che fortuna! — Allora guardò: avea davanti a sè qualcosa di eccelso, di nero, di rosso, di argenteo. Era il signor colonnello della legione dei carabinieri, il quale con un gentiluomo suo amico ragionava calorosamente; e avea interrotto vedendo salire lui.
Però anche lui, l’egregio colonnello, ragionava al vanvera quella mattinata. Almeno così parve al commendatore Fabrizi.
— Avanti di questo passo, caro Commendatore — seguitava il detto colonnello rivolgendo anche a lui l’interrotto discorso — si va a rotta di collo. L’immoralità dilaga, le licenze della stampa e delle cartoline pornografiche non conoscono più limiti; noi siamo in un treno lanciato a tutto vapore senza più forza di freni. Se ne accorge lei di questo? Il principio d’autorità è sconvolto! Qui bisogna provvedere, pensare il rimedio...
— Già il rimedio... — ripetè balordamente il commendatore.
— Semplicissimo! Volere!
— Sarebbe a dire?
— Come? E me lo domanda? — Sì anche lui, il colonnello, ragionava a vanvera. Si vede che avea fatto un’eccellente colazione e si era attaccato ad un’idea fissa proprio come il sigaro verginia si era attaccato ai folti baffi grigi.
— Volere! volere! — sentenziò il colonnello. — Sic volo, sic jubeo, stat pro ratione voluntas! Ecco la massima! Nel medio evo vi fu la superstizione del diavolo; oggi c’è la superstizione della libertà! Come si rimedia? Semplicissimo! Volere! Si stampa un avviso in cui si dice che i signori deputati non saranno più eletti dal popolo sovrano, ma dalla sorte. Si mettono i nomi in un bussolotto e si estraggono a sorte. È questione, creda, di vincere il punto morto della superstizione, dopo la ruota va da sè. Veda le nostre reclute! Ve n’è d’ogni sorta, buoni e cattivi, docili e ribelli, pelandroni e svelti, ascritti alle sette, anarchici..., e pure quando vestono questa qui — indicava la lucente, nero-rossa assisa — diventano uguali. I bisogni del popolo? Ma certamente! Tutti hanno diritto di mangiar bene, vestir bene, lavorare quel tanto che è giusto e basta: nessuno deve più fare da bestia da soma. Crede che anche noi non siamo all’altezza dei tempi? È vero, amici miei?
E pronunciando queste parole il signor colonnello si rivolse non al commendatore, non al suo amico ma al conduttore del tram e ad un altro personaggio, tipo d’operaio e di sovversivo; i quali due stavano pur essi ad ascoltare con tanto d’occhi fissi.
Il signor Commendatore paventò da parte di costoro una risposta insolente. Macchè! Il colonnello battè allegramente sulle spalle del conduttore e dell’operaio che si posero in posizione d’attenti. — Bravi figliuoli! Il principio d’autorità, ecco tutto! Disse allora lo scamiciato: — Non sono, signor colonnello, le giacchette sporche quelle che fanno la ribellione; sono le giacchette pulite come quelle di questi signori. Se le giacchette pulite si scalmanano per domandare cento, come si fa? per forza noi dobbiamo domandare cento e uno. Non è così? A noi, come noi, basterebbe quello che ha detto lei prima, aver da mangiare, aver la giustizia in casa! Già che questo non c’è, noi si va dietro l’onda sicuri di non sbagliare mai.
— Vedete — esclamò trionfante il colonnello volto ai due gentiluomini — quale è il posto nostro! dobbiamo noi entrare in mezzo al popolo, vivere con lui! altro che reprimere, reprimere, null’altro che reprimere, null’altro che applicare gli articoli del codice!
E mentre quegli così dicea, al commendatore a cui le idee si confondevano più che mai, parve sentire un peso nella tasca sinistra: il codice. Vi mise la mano e, in quel punto, il colonnello senza far fermare nè arrestare il tram, balzò giù, piombò dritto, risuonò con la dragona, con la sciabola, con gli sproni come un corazziere della guardia napoleonica. Ma il verginia non pencolò!
— Addio, cari! — e il tram fuggiva fuor della barriera nello scintillante mattino.
Il negozio del barbiere — un gran negozio del ventino — che lì si apriva, prometteva alla vista la desiata garanzia dell’incognito. Entrò, dunque, e quando il giovane gli ebbe fasciato il collo coll’accappatoio, il comm. Fabrizi notò che gli altri giovani e alcuni clienti pendevano dalla bocca di un narratore tranquillo ed acuto.
— Il signore desidera?
— Appuntire un poco questa barba, raggentilendola.
La domanda del barbiere era molto logica attesochè il comm. Fabrizio Fabrizi non offriva nel capo valida presa al pettine e molto meno alle forbici: d’altronde la barba di color misto, quadrata come quella di Enrico di Navarra, con tutti i peli per isquadra, una barba magistrale in tutti i sensi, incuteva un giusto senso di rispetto anche alle forbici di un parrucchiere. Da ciò la dubitosa domanda, a cui fu aggiunto: — Solo un pochino, in fondo, è vero, signore?
— Oh, anche più che un pochino!
Il parrucchiere mise la sordina a questo pensiero: «che peccato profanare una così bella barba!» e brandì l’arma.
E mentre i peli cadevano sotto il prudente taglio, non il savio pensiero che in quei peli or dalla forbice recisi era molta parte della dignità del suo ufficio, balenò alla mente: invece balenò alla mente questo pensiero, degno di ogni biasimo:
«Come inutilmente la folta mia chioma è caduta, come inutilmente questa barba si è fatta grigia, anzi bianca!»
E allora una nuova luce si formò nella sua mente, giacchè se il liquore contiene nelle sue intime cellule un demonio, non è detto che cotestui sia un demonio stupido e sonnolento: anzi è un demonio vigile, dalla vista acuta, che ampiamente scopre le cose passate e le future, anche là, dove il tempo, procedendo, opera nella memoria come il male della cateratta nella pupilla: cioè chiude lento, ma inesorabile.
Ora ecco quello che egli scoprì: «Omero (ricordo di infanzia) Omero immutabile ed alato (mentre il codice delle leggi è mutabile e pesante) Omero dove fa parlare quel tale, o Ulisse o Agamennone o Achille divino!... Certo qualcuno di costoro parla con alate parole e fa giuramento per il suo scettro, e come è vero che fu strappato dalla selva e più non metterà fiore nè fronda..., così... ah, così i suoi capelli più non fioriranno sulla lucida, convessa superficie di quel perfetto cranio che niuno appiglio dava oramai più alle forbici: nel modo istesso che il suo esemplare e rotondissimo cranio nessuna presa offriva nè meno alle sottili chiose degli antropologi criminalisti, suoi ottimi amici, ed avversari, secondo i casi.
Non fiorirà più, mai più, inesorabilmente mai più!
— Che uso avete fatto dei miei doni? — domanda il diavolo.
Invece come di biscie nere, come di serpentelli accesi e di ceraste (il diavolo gli ricordava anche Dante) fioriva il capo meraviglioso dell’umile commessa in passamanterie, fatta diserta ed infelice per l’abbandono del suo tutore. Ella, la giovanetta dal volto di perla era ben umile; ma le sue gagliarde chiome ventenni erano ben orgogliose e superbe! Sfidavano la miseria ed il mondo.
— O Fabrizio — disse a se stesso il commendatore Fabrizi — proverai tu nel profondo del tuo cuore rimorso alcuno nel distruggere, come stai per fare e come hai intendimento, una di quelle cellule del Consorzio Civile che tu sei chiamato a difendere?
Ed attese la risposta della coscienza.
È cosa nota: i liquori eccitano e deprimono nel tempo stesso: ora la coscienza del commendator Fabrizi, già fatta inferma per le libazioni soverchie, dormiva di un profondo sonno come sogliono i tre giudici dei tribunali, specie nelle udienze estive: invece i demoni erano desti ed avanzarono superbamente con pifferi e trombette, ed uno gridò: «No! Nessun rimorso, avanti!»
Quando il rumore dei tamburi e delle trombette dei demoni cessò, il comm. Fabrizio Fabrizi potè porgere ascolto alle parole di quel cotal narratore che non aveva ancor finito di parlare. A rigor di termini il Commendatore avrebbe dovuto capir subito dalle prime parole perchè si trattava di un delitto a lui bensì noto come fatto, del pari che ignoto nelle sue vere cause.
Ecco di che si trattava: un terribile lôcch, o masnadiero cittadino, di quelli che in Milano infestano quadrivi e sobborghi (e lôcch deriva da loco spagnuolo che significa stupido: i quali lôcch fioriscono stupendamente sotto le nebbie di Milano come fiorivano stupendamente i bravi al tempo di Don Gonzalez Fernandez de Cordova) dunque un terribile lôcch, anzi il più terribile fra i terribili, era stato trovato fuori di via X*** steso morto a terra, morto sul serio — giacchè i lôcch — chi sa mai perchè? — quando anche ricevano un paio di pallottole di rivoltella nei fianchi, ritornano dopo pochi giorni d’ospedale sani e gagliardi alle loro occupazioni quasi che la divina Angelica fosse passata con le sue erbe magiche come avvenne pel fante Medoro — cosa che ai galantuomini feriti non accadrà mai.
La giustizia aveva fatto arresti sopra arresti, aveva smosso tutto il sottosuolo putrido di Milano, ma non aveva scoperto nulla. Il giudice istruttore aveva collegato con acutissima fantasia quell’omicidio ad altri fatti altrettanto gravi quanto rimasti ignoti, e non aveva scoperto niente.
La stampa eccitava il troppo lento passo burocratico della giustizia con articoli giornalieri.
Ora quel narratore lì, nella bottega del barbiere, spiegava la cosa con una semplicità stupenda; così: «Lui, il morto, con i suoi compagni erano fermi all’appostamento per quando passano i fittavoli che tornano alle loro campagne.
Vengono costoro dal mercato ed hanno la borsa piena pe’ traffici e pe’ baratti compiuti nel dì. Di questi colpi dieci vanno bene, uno va male: questo era andato male. Il fittavolo, assalito nel buio, si vede che aveva con sè il revolver ed ha fatto fuoco a bruciapelo e lo ha colpito nella nuca.» Se non lo colpiva lì, in modo da lasciarlo sul colpo, garantisco — dicea il narratore — che colui non moriva: lui le palle della questura che ha preso in corpo le ha sempre digerite, come fossero state delle prugne, un po’ acerbe, ma le ha digerite!
— All’Osteria del Bianco — confermò uno degli ascoltatori con sincera espressione di rimpianto e di rispetto — era capace di mangiarsi da solo un tacchino, e sempre in piedi, povero diavolo, sempre con quella benedetta paura di essere sorpreso dalla visita dalla questura.
Disse un terzo ammirando — E la forza che aveva? Per lui rompere un mazzo di carte era conto di ridere! Una volta che gli avevano messo le manette, non ebbe il coraggio di farle saltare spezzandole sopra un paracarro? E quanti anni poteva avere?
— Ventidue, ventitrè anni! — disse il primo raccontatore — un fegato da leone!
***
Al comm. Fabrizi quella gente faceva un effetto nuovo e curioso, in questo senso: gli pareva cioè che in tutti coloro che lì erano, fosse questo convincimento filosofico della vita, il quale può essere espresso in queste brevi considerazioni:
I lôcch quando rubano, percuotono, uccidono, non fanno altro che il loro mestiere! nel che sta la ragione della loro esistenza.
Ma per la stessa causa fanno bene i questurini ed i carabinieri a perseguitarli perchè tale è, alla lor volta, il loro mestiere e vivono di quello.
Se le parti fossero invertite, i lôcch sarebbero questurini e i questurini sarebbero i lôcch. E così estendendo sempre, gli apparivano di cotale strana natura formate tutte le azioni del mondo, e le basi del diritto, del premio e della pena, gli apparivano sconvolte; giacchè il demonio è un estensore meraviglioso di argomenti e basta dargli un grano di sabbia perchè edifichi una casa, basta dargli un filo solo perchè intessa una tela, basta fargli una concessione perchè vi annodi da capo a piedi nella sua implacabile logica.
O buon angelo custode, e voi impotenti spiriti del bene, vigilate, vigilate voi alle porte della abbandonata fortezza del mio cuore, affinchè il demone non penetri! Nell’animo del commendator Fabrizi era già penetrato e proseguiva estendendo e facendo sue chiose. Ecco: La donna pudica preferisce morire che mostrar le sue carni. La donna impudica esulta nel contemplare la sua statua fremente! L’uomo virtuoso, ancorchè ragione gli consigli il male, ne teme il contatto peggio che toccare il viscido colùbro: l’uomo invece, chiamato malvagio, soffre se non può operare il male; e come l’assetato desidera l’acqua, come chi ha freddo sospira la fiamma, così l’anima dell’uomo malvagio sospira il male, la frode, il vizio, l’inversione, la degenerazione dove tuffarsi come per entro un bagno delizioso. Oh, comm. Fabrizi, giudice virtuosissimo, di’ tu se così non è come io, demone saggio, affermo e dico. Fra i molti casi, anzi moltissimi che passarono sotto il tuo esame, ricordane uno recente, quello di Flavio Equini. A Flavio Equini che cosa mancava per esser felice? A lui nobiltà di natali, a lui ricco censo, bella moglie, acuto ingegno, eloquio piacevole e lieto, onori, potenza, bellezza. Poteva non frodare. Ebbene, no! Quell’uomo aveva bisogno di frodare, rovinare, distruggere, far del male! anche a se stesso, se mancava l’opportunità di far male altrui! Nel modo medesimo che ai buoni intenditori di arte culinaria e valenti gastronomi piace assai la carne quando essa è sanguinolenta e sopra con grandissima cura vi spargono alcune stille di acerbo limone, così a molti umani il piatto della vita non piace nè altrimenti diletta se esso non è cosparso di molto sangue e di molte rodenti lagrime. E mancando l’altrui, bevesi il proprio sangue: bevonsi le proprie lagrime! E come vi è colui che fa piangere, così vi è colui che dedica la sua vita alla missione di asciugare le lagrime; nel modo medesimo che vi è chi insudicia la via e chi la scopa: che vi è l’inventore dei proiettili avvelenati e vi è l’inventore dell’antisepsi: che vi è il microbo infame che uccide e il microbo che guarisce: e l’uno e l’altro hanno ragione, perchè l’uno e l’altro fanno il loro dovere e mestiere, e dall’insieme risulta questa che noi, in mancanza di una definizione più precisa e scientifica, chiamiamo «Vita». E benchè paia contraddizione, non è: o almeno il giorno in cui gli uomini si avvedessero di questa meravigliosa contraddizione, essi cesserebbero dal vivere!
A queste sublimi considerazioni filosofiche si può arrivare tanto col grande studio quanto con la grande ignoranza, come era il caso di quella rozza gente in quella bottega.
Il comm. Fabrizi ci arrivava un po’ in ritardo, ma ci era arrivato a questa perfetta cognizione del meccanismo recondito della vita!
Tuttavia l’abito professionale per quel che riguardava la supposizione che il terribile lôcch fosse stato freddato da un estraneo, si ribellò. Caspita, era tutto il suo lavoro che cadeva in frantumi! onde volgendosi a pena (e prima richiamando l’attenzione con la mano) disse in tuono insinuante e nel tempo stesso autorevole, rivolgendosi al principal parlatore: — Ma scusate, signore, come fate voi ad asserire con tanta certezza; come fanno gli altri qui presenti a credere ad una cosa che si affaccia come inverosimile, cioè che sia avvenuta una grassazione, e che un fittavolo, o fattore o fittaiuolo, o commerciante che fosse, abbia fatto fuoco? Ma nessuna, dico nessuna supposizione ci autorizza a credere ciò nemmeno lontanamente!
— La palla... — cominciò uno.
— Sì, capisco, la palla trovata nella ferita non corrisponde al calibro delle armi degli altri arrestati come supposti rei — seguitò in tono autorevole il comm. Fabrizi — ma questo è un argomento destituito di ogni valore. L’arma che non s’è trovata, si può, quando che sia, ritrovare. E d’altronde io domando e dico, signori miei, se fosse vero quello che asserisce con tanta certezza quel signore, io domando e dico, perchè quel fittavolo, o possidente o commerciante che sia, non si presenta alle competenti autorità e non dice: «Sono stato io a sparare!» Sapere lo deve sapere, perchè tutti i giornali ne parlano! Ora egli non solo non andrebbe incontro a nessuna noia di carattere giudiziario, ma avrebbe un bel ringraziamento per avere liberato la società da un soggetto pericolosissimo. Vedono dunque, signori miei, che la loro supposizione cade nell’inverosimile.
Ma il tuono autorevole del comm. Fabrizi, invece di acquistare di autorità, si veniva di mano in mano smorzando e ciò avvenne per effetto di suggestione, giacchè tutta quella gente, pur non interrompendo il magnifico signore, lo veniva guardando col bianco dell’occhio e con un sorriso di pietà.
«Dico forse delle sciocchezze?» — si domandò mentalmente il comm. Fabrizi, ed avutane dalla coscienza risposta negativa assolutamente, replicò: — Vedono dunque, signori miei...»
— Ch’el scusa! — interruppe il maggior narratore con un tono tale di voce che significava che solo la barba e l’aspetto grave del personaggio lo inducevano ad espressione cortese — ma quando il fittavolo è andato a dire che è stato lui, quando tutti i giornali stampano il suo nome, chi lo garantisce dalla vendetta degli altri lôcch? Quelli del tribunale forse? Non sa lei che è tutta una rete? Il colpo al fittavolo è andato bene, salvo è salvo; conosciuto non è stato conosciuto da nessuno perchè era notte; vendicato, s’è vendicato perchè l’altro è morto. Se la sbrighi la giustizia a cercare l’autore del delitto! È ben pagata per questo! Ma lui non si farà mai vivo, glielo garantisco io: la pelle preme a tutti!
Il comm. Fabrizi a questo terribile ragionamento non ebbe la forza di replicare: si sentì avvilito, molto avvilito nella sua dignità di magistrato, cosa che in trenta anni del nobile ufficio mai gli era avvenuto anche davanti alle orride bestemmie dei condannati all’ergastolo. Anche l’immagine di Temi, effigiata nel gesso, era afflitta.
E avvertendo nella tasca del pastrano un involto che gli dava peso e deformava la linea, lo estrasse e disse al barbiere:
— Passerò a riprenderlo, ella intanto me lo tiene in custodia.
Era il codice delle leggi!
***
Quando il Commendatore uscì da quella bottega e si avviò al recapito che la amorosa creatura gli aveva dato, era quasi mezzogiorno: le funzioni della chiesa dovevano essere terminate.
Via X, N. 26, piano III, uscio secondo.
L’indicazione era facile: il salirvi era difficile. Perchè?
Per il rimorso? «Non ti rimorde il cuore, o Fabrizio, al pensiero di quello che stai per fare, di sciogliere cioè una cellula di quell’istituto del coniugio in sul quale riposa la santità della famiglia e con essa e per essa tutto il civile consorzio?»
Doloroso a dirsi! La coscienza del comm. Fabrizi, pulsata ancora da questa domanda, non rendeva più veruna risposta: anzi, cosa più dolorosa e nequitosa che mai, la figura della marchesa consorte (simbolo vivo del legame del coniugio) con l’adunco naso gli si ergeva innanzi instillandogli un senso di disgusto presso che fisico, e che pareva aver sede nell’epigastrio come avviene a chi si è gravato di cibo e di bevanda più che misura non consenta.
Per ventitrè anni egli avea concesso alla marchesa consorte tutte le attenuanti, tutte le giustificazioni che avea negato agli imputati di cui la legge lo faceva giudice: ora non più, nessuna attenuante, nulla! Un solo, vero giudice: Dracone! Ma che cellula! Egli aveva rimorso di non averle disgregate prima ed in maggior numero, quando era in tempo!
E il Comitato, ed il senatore X***, celibe, anzi celibissimo e, a’ suoi tempi, scapestratissimo senatore X***, presidente del Comitato per la salvezza della famiglia?
Al diavolo anche loro! No, non era il rimorso che gli gravava il passo e lo rendeva pusillo al dolce ritrovo: era il peso della sua dignità, della sua notorietà, della sua gravità professionale. Ah, potere andare da un barbiere e dire: «toglietemi la mia dignità» come si dice: «toglietemi la barba!»
***
La casa N. 26 si disegnò con i suoi tre piani: silenziosa, decorosa, indecifrabile: piano terzo, scala seconda.
Un istante di turbamento lo vinse in sul varcar della soglia.
«Infine — pensò — un procuratore, un magistrato può per segrete ragioni d’ufficio giustificarsi se monta certe scale e bussa a certo uscio» e avanzò.
***
Ma in quel punto, sbucata non seppe egli da dove, si sentì prendere da due mani soavissime e madide e una voce anelante e timorosa sussurare:
— Per carità, signore, non venga. Il mio tutore è tornato all’improvviso. Sarà per un’altra volta, a migliore occasione! —
Era lei con i capelli sciolti, in ammirabile veste da camera, sbucata non sapeva da dove.
Il povero Commendatore rimase per un istante immobile: fissò quella testa gentile, quegli occhi spaventati e accorati come per leggere se diceva il vero: — Va bene — disse poi e discese le scale. E non mai la parola bene volle appunto significare il contrario.
***
Mezz’ora dopo una carrozza da piazza lo sbarcava a casa sua.
La marchesa consorte venne ella stessa ad aprire:
— Finalmente! — disse — Il senatore X*** che vi attendeva per questa mattina, è venuto egli stesso qui, ed ha aspettato per un’ora intera! In certi casi la buona educazione vuole che si avvisi!
— Un affare urgentissimo!
***
Nel solito salotto da pranzo la colazione è imbandita: una colazione igienica e semplice: zuppa e carne di manzo a lesso.
I figliuoli — poverini! — hanno una partita di tennis di grande impegno e non possono essere alla mensa paterna.
Così dice giustificando la marchesa consorte e coll’occhialino scopre e scruta la nuova foggia della barba maritale.
Sotto quella silenziosa pupilla doppia, il bollito sembra più stopposo ed insipido che mai! Ma la domestica, in grembiule bianco, domanda: «Senape inglese o senape francese, signor Commendatore?»