Trionfi di donna/Il trionfo di Puccìn
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- DI PUCCÌN.
— Quanti figli avete?
— Due, cioè, veramente, ve ne sarebbe un terzo, anzi una terza — ma questo cioè con quel che segue, era oramai più pensato che espresso da Almerigo Crosio.
***
Perchè avveniva questo fenomeno strano e doloroso: nel ricordare il numero dei rampolli destinati a consegnare il proprio nome alla posterità, Almerigo Crosio non provava nessuna di quelle vibrazioni di gioia che la natura sente nell’atto in cui si estende e propaga.
Il concetto antico del favore di Giove e della benedizione del Signore sotto la specie di una prole numerosa e sana, non penetrava gioiosamente più nel cervello di Almerigo Crosio, cittadino moderno.
Non si nega anche oggi la benedizione del Signore. Si dice soltanto che ai tempi che corrono questa benedizione si accompagna con troppo amore del signor Agente delle imposte, il quale a sua volta ha un interminabile corteo di impicci, di spese, di nuovi e costosi servizi. Ecco perchè l’antica benedizione del Signore non è più accolta gioiosamente, ed ecco la ragione per cui Puccìn, terza figlia di Almerigo Crosio, a tre anni era ancora a balia.
***
Negli antichi tempi entrava, invece, soltanto la benedizione del Signore.
L’incubatrice, il ginecologo, la pediatria, la pedagogia, i poppatoi razionali non erano stati inventati.
In quegli antichi, anzi remotissimi tempi, il buon centauro Chirone, benchè non avesse nessuna patente di scuola, forniva egregi precetti di morale e di fisica applicata alla fisiologia, e, quel che è più, non domandava stipendio, anzi faceva altresì da bambinaia reggendo sul bel dorso equino i pargoletti: la qual cosa avvenne ad Achille che ebbe tutta l’istruzione gratis come si legge nell’Oda dell’abate Parini.
E se per caso mancava la balia, senza ricorrere ai poppatoi tedeschi, ci pensava la lupa, come intervenne a Romolo e Remo; o pure ci pensavano le nobilissime api d’oro a distillare il miele su le labbra degli infanti.
Ed è per queste ragioni che gli antichi raggiungevano nel procreare delle epiche meraviglie.
Danao ebbe cinquanta figlie che diedero il primo esempio storico di nequizia muliebre, uccidendo in una notte i loro cinquanta mariti.
Priamo procreò quasi tutto l’esercito combattente contro l’implacabile Achille.
Giove dava il buon esempio nel mettere al mondo dei e dee, ninfe ed eroi, cui non bastava la fecondità di Giunone — questa Zantippe celeste, dalle bianche braccia e dall’iroso cuore.
Anche i patriarchi biblici non erano inferiori in gioia ed in facoltà procreatrici.
Vero è che allora si trattava di propagare la specie su la superficie della vasta e deserta terra, e perciò più figli si mettevano al mondo e più grande era la benedizione.
Oggi invece il signor Agente delle imposte, fornito delle sue implacabili misure, conta i metri cubi d’aria di cui è capace il vostro appartamento, e tassa in proporzione.
***
Questa tassa, tradotta in buon volgare, vuol dire: «meno figliuoli fate e meglio è: meno bocche respiranti e più benedizione!
Non la volete capire? siamo in troppi, anzi troppissimi e perciò tasse da scorticare ai procreatori eccessivi e legali!»
Voi, ingenuo, rispondete: «ma dove se ne va allora la santità della famiglia, che voi legislatori proclamate, senza figliuoli?»
Ma il signor Agente delle imposte col linguaggio pratico delle sue bollette vi spiega che la santità della famiglia è sovente una frase decorativa dei codici e dei testi della morale, un epitheton ornans come dicono i rètori.
Il fatto è ben diverso.
Ed ecco la ragione perchè quando Puccìn si presentò sull’orizzonte della vita, entrò bensì nel bell’appartamento di Almerigo Crosio una provetta levatrice con tutta l’antisepsi voluta dalla scienza; ma non venne la fede, non venne l’esultanza.
Almerigo Crosio in quel giorno ricordò melanconicamente il tempo lontano quando nella sua casa era comparso il primogenito, ed egli, nella notte della natività, aveva scritto queste parole in un albo: «Il Signore è venuto a visitarci. È un bambino!»
E lo strillo di quell’essere minuscolo che, appena strappato dalle viscere materne alla luce, si era acceso alla vita ed alla luce, gli suonò nel cuore come una benedizione: esso fece palpitare e fremere tutte le sue viscere d’uomo e scrisse ancora:
«Sii buono, sii puro, sii bello! Iddio si manifesta con la bontà, con la purità, con la bellezza. Ore tre di notte!»
Ed era una cupa notte d’inverno.
Nella stanza della natività la fiamma — vigile — cantava: i lini attorno alla fiamma del focolare splendevano come il vessillo d’una idea pura e buona! Almerigo Crosio benedisse la compagna della sua vita e invocò la purità anche su di lei, su di sè, su tutto, purità come la neve che cadeva in quella silenziosa, cupa notte d’inverno.
Fu cercato un nome venerato e fu imposto al pargoletto.
***
Il secondo nato capitò al mondo con tanta disinvoltura, con gli occhi aperti e i pugni serrati, come se ci fosse stato altre volte. Reclamò subito con uno strillo i suoi diritti in questi termini: «Non è pronta la colazione?» Una attonita e ben fornita balia friulana, lì pronta, offerse il caffè-latte caldo all’impaziente, nuovo abitatore del mondo.
Crosio non scrisse nulla nell’albo.
Molteplici possono essere le cause:
o il rapido progresso delle idee materialiste trovava non più razionale l’invocazione di Dio;
o la purità invocata dal cielo era stata invocata invano (il primogenito, già settenne, era un bambino terribilmente inclinato a insudiciarsi e a insudiciare);
o l’attrito della vita aveva spente o congelate certe gentili fioriture dell’animo da cui si ricava il prezioso elisire noto col nome di Fede, che non è soltanto quella che si accende in chiesa.
Il fatto è che Almerigo Crosio non scrisse nulla nell’albo.
***
Ma quando comparve la terza creatura, Crosio pensò che la sua signora provvedeva con troppo entusiasmo alla conservazione della sua stirpe, una stirpe che non valeva troppo di più di quella di un altro, anzi che avrebbe potuto anche non essere conservata senza danno della umanità.
Non che Crosio fosse filosofo di professione o desiderasse finire con sè. Crosio era anzi uomo di affari.
Ma appunto l’abitudine di considerare le cose del mondo sempre come un affare, può indurre talora alle stesse conclusioni pessimiste e terribili come se si fosse filosofi.
Di queste considerazioni chi ne sofferse gli effetti fu Giuseppa, la neonata, la innocente!
Con tanta abbondanza di bei nomi muliebri che oggi l’estetica regala alle donne, fu imposto alla innocente questo volgarissimo nome di Giuseppa, tolto al calendario nel dì della nascita.
Invano il piccolo essere, dai lini ove era stato posato, faceva capire con due grandi occhi attoniti e aperti, che anche ella avea diritto al caffè-latte in famiglia: invano protestava con acute strida che sarebbe stata buona, ubbidiente, e non sarebbe cresciuta proterva, svogliata come i suoi fratelli.
Le proteste non furono accolte.
Il fagottino di quattro chili fu portato via da una robusta balia campagnuola, e non se ne parlò più.
***
Almerigo Crosio si ricordava di avere una figliuola quando scadeva il baliatico alla fine del mese.
D’altronde la sua coscienza era tranquilla.
Non solo la balia era eccellente; ma il balio pure. Il quale, oltre che benestante campagnuolo, era anche letterato.
Ogni mese costui elaborava una lettera invariabilmente di quattro pagine con un carattere denso ed irto come quello di un palimsesto, firmata Prosdocimi, nella quale lettera Crosio cercava una sola frase, cioè questa: «la bambina sta bene».
Ma siccome questa frase richiedeva una ricerca ed uno studio di interpretazione non breve e non facile, e d’altra parte la lettera veniva per se stessa a significare «la bimba sta bene», e le occupazioni e gli affari erano tanti, così Crosio finì con lo scorrere a pena quel difficile documento.
Ma oltre che scrittore, il balio si rivelò un bel giorno eccellente oratore.
Chè un giorno Crosio sentì nell’anticamera del suo studio la voce di un tale che domandava udienza.
— Voi siete? — chiese Almerigo Crosio inquadrandosi duramente sull’uscio.
— Io sono il balio, per servirla.
— Ah, Prosdocimi! Scusate, non vi ravvisavo!
— Sissignore, Piero Medici, o Medici Piero, come si dice adesso.
— Benissimo, accomodatevi, amico mio: io ho sempre letto «Prosdocimi», ma non importa.
E Piero Medici fu fatto entrare e adagiare in una poltrona.
— Dunque la bambina sta bene?
— Puccìn adesso sta benone.
— E chi è questo Puccìn?
— La sua bambina. Noi l’abbiamo sempre chiamata così: Puccìn!
Così infatti: Da Giuseppa, Giuseppina: da Giuseppina, Beppa, Beppuccia, Puccia, quindi maschilizzando come suole talora il popolo i nomi di donna, era venuto fuori un villereccio Puccìn.
Tutto ciò adesso era chiarissimo, e spiegava ad Almerigo Crosio il perchè e il vero significato di una parola ricorrente in quelle perfide epistole, parola di cui aveva rinunciato a comprendere il senso, cioè Puccìn.
— Benissimo, benissimo — fece Almerigo Crosio — oh, che forse è stata ammalata?
— In fin di vita.
— E non mi avete scritto niente? — domandò Almerigo Crosio levandosi in piedi con volto adirato.
— Come? Io non le ho scritto niente? Io ho scritto tutto — disse Piero Medici liberandosi a fatica dalla poltrona, in piedi anche lui.
Il volto sbarbato di quel villano esprimeva una così schietta indignazione che Crosio tacque.
— Noi abbiamo scritto tutto — ripetè Piero Medici con voce trionfale — e li aspettavamo di giorno in giorno perchè venissero a vedere la loro bambina. Abbiamo colpa noi se loro non sono venuti?
Puccìn — proseguì con gran copia di mimica Piero Medici — era ridotta bianca come quella carta, pesava come un passerino morto e non si vedevano di vivo se non gli occhi: la sua pelle cascava come questa qui (e Piero Medici fece saltare su la palma la borsa vuota del tabacco). Lo sappiamo io e mia moglie quello che abbiam fatto per Puccìn! E il medico due volte al giorno! La gente veniva per vedere il miracolo della bambina che non moriva. Io per badarla e portarla (non voleva stare che in braccio) ho perso un mese buono di lavoro; e la pazienza di ubbidire agli ordini del medico la dice poco, lei? Perchè sa chi l’ha salvata? Il medico. Lui ha detto:
«Se state alle mie ordinazioni Puccìn vive, e se no schiavo!»
E ha ordinato una gran pulizia, un gran dare aria, lavare tutto, tutto misurato, e stare attenti giorno e notte. La gente diceva che eravamo matti a dar retta a tutte quelle sciocchezze del medico e che la bambina sarebbe morta lo stesso. Ma ora che vedono Puccìn rifatta, e che è un fiore, un botton di rosa, un giglio puro, non dicono mica più così! La Befana da un mese gli ha portato il regalo: Puccìn si è staccata e cammina da per sè.
Crosio ebbe la pazienza di ascoltare l’interminabile sproloquio a proposito di un’innocua diarrea infantile; infine domandò: — Le vostre spese saranno molte?
— Oh, molte, molte, molte! — disse il villano sornione dondolando il capo.
— E avete fatto un conto approssimativo?
— Io, compreso il medico, comprese le medicine....
— Comprese le giornate di lavoro.... — aggiunse Crosio sardonicamente.
— Comprese le giornate di lavoro perdute — ripetè con imperturbabile serietà Piero Medici — compresa la disgrazia di un vitello che mi è morto in quella circostanza, perchè non ci ho potuto badare e se ci badavo non moriva....
— Ebbene, compreso anche il vitello?
— Compreso il vitello, io ho tirato una somma di trecento lire, soldo più soldo meno.
A questo punto ebbe fine il discorso di Piero Medici e a questo punto si turbò, ma fu un istante. Crosio lo vide levarsi in piedi, prendere un’aria risoluta, levar dalla tasca interna della giacchetta non la distinta delle spese, ma una gran borsa piena d’argento che posò fieramente sul tavolo.
— Senta — disse Piero Medici risolutamente — io le abbuono le trecento lire, le abbuono il baliatico, le regalo questa qui e lei ci lascia Puccìn!
Era detto!
Almerigo Crosio quando capì, scoppiò in una risata così allegra come da anni non aveva mai riso.
E come rideva così il volto di Piero Medici si abbuiava e si confondeva: l’uomo sentiva di diventar piccino e finì col rifugiarsi ancora nella poltrona.
— Dunque lei non accetta? — chiese infine. — E noi che eravamo così sicuri che lei avrebbe accettato!
— Ma volete che io venda i miei figliuoli? O che li pigliate voi per capretti, per vitelli, per galline?
Ma non ebbe voglia di ridere ancora: Almerigo Crosio pensò e si intenerì, prese l’aspra mano di Piero Medici e la strinse affettuosamente.
— Ah, Puccìn! dover perdere Puccìn! — ripeteva il villano. — Me lo lascino almeno per un altr’anno, povera Puccìn; tanto da vederla grande!
***
E fu così che Puccìn rimase a balia sino ai tre anni e da allora Almerigo Crosio lesse le lettere di Piero Medici e qualche volta pensò alla derelitta Puccìn.
***
Dopo un anno Almerigo Crosio si decise di andare a prendere cotesta sua figliuola, e ricondurla a casa e farla pari nei diritti e negli agi di cui godevano gli altri due fratelli: i quali è cosa dubbia se avrebbero spontaneamente accettato di suddividere in tre quel caffè e latte eccellente che prima era solamente per due.
Ben conveniva risolversi a questo passo chè tanto valeva in simile caso accogliere la proposta venale di Piero Medici.
Il quale doveva essere un perfetto gentiluomo come si accorse Almerigo Crosio quando notò il modo come era stata allevata Puccìn, e la moglie di lui doveva essere una gentildonna, e di gran cuore ambedue, sì grande fu la pena loro nello staccarsi da Puccìn!
È dolorosa cosa dovere constatare come si possa essere gentiluomini autentici anche non essendo passati attraverso il costoso e complicato macchinario che serve ad elaborare gli uomini civili.
Il dogma dell’alfabeto obbligatorio come ne soffrirebbe se il suo orgoglio gli permettesse di riconoscere questa verità!
***
In un bel giorno d’aprile Almerigo Crosio si mosse per andare a prendere questa sua abbandonata bambina.
Alla soglia della casa rustica Almerigo Crosio era atteso.
Piero Medici e sua moglie avevano in mezzo una bambina con i capelli biondi, ben pettinati e spartiti, e con le sottanine ben rosse.
— Quello lì è il papà! — disse Piero Medici additando il sopraggiunto, con un fremito nella voce.
— Quello lì il papà? — domandò dolcemente Puccìn.
— Sì, sono io il papà — confermò Crosio piegando le ginocchia per mettersi all’altezza del volto di Puccìn.
Puccìn a questa affermazione credette docilmente: congiunse e sporse i labbruzzi.
— Le vuol dare un bacio — avvertì la balia — non vede?
Allora Almerigo Crosio accostò la dura pelle del suo volto e sentì premere contro di sè, come un suggello di purità, la delicata freschezza di quel volto di raso che vedea, si può dire, per la prima volta.
— Ma mi conosce? — domandò Almerigo Crosio levandosi in piedi e voleva dire: «La bambina sa che ha un babbo e una mamma che non siete voi?»
— Sicuro, li conosce tutti! — rispose la balia — Vuol sentire? Puccìn, dove è il papà?
— A Venezia!
— Dov’è la mamma?
— Di sopra.
— Perchè di sopra? — domandò Almerigo Crosio.
— Perchè c’è un ritratto della Madonna della Seggiola e le abbiamo dato da intendere che quella è la mamma.
— E Pio e Mondino (erano i nomi dei fratelli) dove sono?
— Tutti a Venezia! — rispose con voce dolce e pacata Puccìn.
***
Avete voi mai posto mente alla voce dei bimbi fra i due ed i tre anni, quando cominciano a far le prime prove dei suoni delle parole? quando le loro movenze hanno grazie inaspettate e veramente meravigliose come se dentro si agitasse una prima anima pura, la quale per non far morire il nato dall’uomo e dalla donna, muore essa anima pura e lascia quindi il posto a quell’anima seconda e diverse che è quella che maturerà con gli anni?
Allora, in quei fuggitivi anni, la voce infantile contiene un’eco come — per porgere alcun paragone — la voce del ventriloquo. Pare cioè che provenga di lontano: e nella sua semplicità ha fioriture e vaghezze di linguaggio simbolico.
***
Almerigo Crosio seguitando il discorso, domandò:
— E tu vuoi venire a Venezia?
— Non si dice «voglio» — corresse Puccìn — ma si dice: «per piacere!»
I balii sorrisero e spiegarono che avevano insegnato a Puccìn che non si deve mai dire «voglio» ma sempre «per piacere!»
— Perchè non si deve dir «voglio?» — domandò il balio.
Puccìn allargò le braccine con un gesto rassegnato e desolato e disse (ora teneva i grandi occhi in su come per iscrutare quell’uomo nuovo a cui andava connesso il nome venerando di padre):
— Perchè l’erba del «voglio» non cresce neanche nei giardini del Papa.
— Dunque hai piacere?
— Sì, piacere.
Puccìn dopo questa risposta si era allontanata, e ritornò poco dopo.
Aveva un cestellino di giunco sotto il braccio: nel cestellino c’era un pezzo di pane ed una bambola miserabile.
— Quando le si dice di andare a Venezia, lei corre a prendere il suo cestino e la sua pupa — spiegò la balia.
Ma gli occhi si arrossarono alla donna, in grande pianto. Lagrimava in segreto anche il balio, e Puccìn intanto imitava con le labbra il suono dei buffi del treno; e a quel suono il grosso cane balenava con le pupille iridate e balzava come per avventarsi contro il treno, (la ferrovia correva lì presso) ma nulla vedendo, s’era accosciato con le gambe davanti ritte, gli occhi interrogativi, la lingua fuori, davanti a Puccìn come per dire: «Ma ti sbagli, cara amica, il treno ora non passa!»
E Puccìn pur seguitava ad imitare i buffi del fumo.
***
Era una di quelle dolci mattine che a chi ben guarda e sente, sembrano un consiglio di pace che la terra e le piante danno agli uomini, quando Almerigo Crosio e Puccìn si trovarono soli nel treno.
— Vienci a trovare! — aveva detto la balia.
— Sì, vi verrò a trovare — aveva risposto gravemente Puccìn in piedi sul treno, come una reginella che rende omaggio ai vassalli.
Ma Piero Medici aveva scosso il capo e avea preso per mano la moglie: — Andiamo, via, andiamo! — e si erano allontanati prima che il treno si movesse.
Ora, fuggendo il treno, si videro per qualche istante i due balii che si allontanavano curvi, lungo la via bianca, senza più voltarsi.
— Il zio Piero e la zia Nena — disse Puccìn con l’abituale sua placidezza, additando.
— Ci volevi bene?
— Oh sì, Puccìn ci vuole tanto bene!
Ma Puccìn in quell’istante era molto occupata ad osservare la nuova e instabile dimora dove si trovava.
Le scosse del treno trasportavano Puccìn da un punto del cuscino ad un punto del cuscino opposto. Spesso le movenze erano comiche: il bianco del grembiulino davanti, lo scarlatto della vestina di dietro, l’onda dei capelli, agitati dalle scosse, apparivano ogni tanto, e ogni tanto le pupille si rivolgevano attonite, più che interrogative, per domandare:
«Ma, caro signor padre, come va tutto questo che qui non si sta mai fermi? è così instabile ed inquieta la nuova dimora?»
Il padre, Almerigo Crosio, seduto in un angolo, guardava.
Guardava Puccìn, cui il treno faceva ballare una curiosa ridda, e questo pensiero diabolico si delineò nella mente di Almerigo Crosio: così, ecco: «lasciare aperto lo sportello opposto: attendere che Puccìn vi batta contro. Non avrebbe sentito neppure un grido: il rosso, il bianco, l’oro dei capelli travolti un istante, poi nulla, più nulla!»
«Che cosa è stato?» chiederà la vana legge degli uomini.
«Una disgrazia involontaria» risponderà Almerigo Crosio.
E la statistica degli uomini registrerà una disgrazia involontaria di più.
***
Ma Almerigo Crosio al pensiero diabolico rabbrividì, si alzò, andò all’altro sportello e si rassicurò che fosse ben chiuso, ma, nel ritornare al suo angolo, prese Puccìn per l’uno e per l’altro polso, davanti a sè, stringendo a pena: poi nel premere andò sempre crescendo. Voleva vedere gli imperturbabili occhi lagrimare, voleva udire la soave voce tramutarsi nel pianto, voleva che Puccìn provasse paura non fiducia di trovarsi con lui. Qualche piccola cosa pur il Demonio domanda di tributo anche gli uomini onesti! E stringeva!
E Puccìn fissava attonita, l’ombra della paura già oscurava il volto, le labbra fecero boccuccia brincia per il dolore, ma non per piangere, bensì per offrire il solo omaggio che poteva offrire per il riscatto della pena: un bacio!
Allora le mani di Almerigo Crosio si allentarono. Lasciò Puccìn.
Puccìn tornò a palpare i cuscini instabili.
***
E Almerigo Crosio s’avvide che lo sigaro che stava fumando era pessimo, anzi molto pessimo, perchè lo faceva stranamente lagrimare.
***
Ma no! Puccìn mostrava di avere una fiducia illimitata in quell’incognito che gli era stato presentato sotto il nome autorevolissimo di padre: fiducia piena di grazia e di purità: da lui, da lei venuta fuori quella purità mirabile: da lui, da lei, sui quali la vita, la necessità del lucro, del lusso, delle convenienze sociali e via e via, aveano — come tossine de’ microbi patogeni — distillato il veleno terribile dell’insensibilità. Sclerosi dell’Anima!
Eppure quella purità era nata, ed era fatta carne, voce, splendore di rosee carni, di umide pupille, lì presso di lui! O mirabile potenza ignota che così tutto rinnova e così dispone le vere leggi della Vita!
Almerigo Crosio prese presso di sè Puccìn, se la ricoverò fra le braccia e la baciò a lungo, a lungo, e ripetutamente, provando come un refrigerio delizioso nel contatto di quelle fresche carni che pareano come un riflesso di una freschezza interiore.
Così il viandante arso dalla caldura, roso dalla polvere, fatto bruto dalla fatica, guarda le chiare acque sorgive e sente la voluttà di sommergervisi.
La riguardò a lungo, e da quel volto venivano fuori delle reminiscenze di sè; anni molto lontani, quando egli, Crosio, sedeva in grembo della madre sua!
Puro il mattino, soli nel treno: il treno correva con non so quale festività leggiera.
E Puccìn incominciò: cominciò una serie di domande complicate, difficili, insistenti, strane, alcuna volta paurosamente profonde e senza possibilità di risposta.
Tutti i bimbi quando nel fenomeno luminoso cominciano a distinguere il sole, le piante, gli animali, fanno di simili paurose domande: paurose perchè pare che un’immane anima filosofica si desti in sì gracile corpo!
Una sola domanda non venne, questa: «Perchè, caro padre e cara madre, mi avete messa al mondo? ci avete pensato razionalmente, signori genitori?»
Ma questa dimanda non venne; e quando Almerigo Crosio comperò una bella ciambella, fresca, dove Puccìn immergeva i suoi dentini e il corallo delle gengive, pareva ella dire: «Ottimo padre mio, io sto benissimo in questo mondo e questa ciambella è squisita. Non vi date pensiero di me: batterò la mia strada come tutte le donne, nè più nè meno!»
***
Puccìn — come giunse a casa — fu accolta con grandi segni di giubilo dalla mamma e dai fratelli.
Ma ella non ne parve eccessivamente turbata e commossa. In fin de’ conti ciò le era dovuto nè ella voleva accettare come grazia ciò che era suo diritto. Caso mai, era in credito di tre anni.
Ai suoi signori fratelli fece poi sin dalle prime mattine comprendere che ella, come era disposta ad osservare i suoi doveri, così intendeva salvaguardare i suoi diritti e che, secondo i nuovi principi di uguaglianza, la parte di Cenerentola non la voleva sostenere: laonde divisione in tre parti uguali del caffè e latte!
Avrebbe fatto il possibile per dare il minor disturbo nella casa: e in fatti in un angolo, presso una seggiolina, Puccìn badava silenziosamente alla sua bambola miserabile e spelata.
Di quando in quando — però — la coglievano dei frulli di bizzarria. Correva di stanza in stanza spalancando gli usci e fermandosi in attitudine di reginella imperiosa su le soglie.
La qual cosa si poteva interpretare, o come un bisogno di maggior spazio o come un’affermazione della sua proprietà.
Così pure ogni tanto si affissava nel vuoto, cercando nelle chiuse stanze ciò a cui la sua pupilla era abituata: il verde dei campi, l’azzurro dei cieli.
«Bù! bù!» faceva ogni tanto, e forse chiamava per reminiscenze il buon cane fedele; o imitava per suo conto i buffi della vaporiera che sull’alto terrapieno fuggiva presso la villa di Piero Medici.
Ma poichè il cane più non appariva e la vaporiera non passava sbuffante nel verde e nell’azzurro, così Puccìn docilmente ritornava alla sua misera bambola.
Puccìn, sì, per sempre Puccìn!
— Come ti chiami bella bambina? — le chiedevano quelli di casa facendole intorno corona.
— Puccìn!
— No! il tuo nome è Giuseppina Crosio.
— No! Puccìn! — ed era solo per questo che Puccìn diventava rossa di rabbia come un galletto. Voleva che le fosse serbato il nome che Piero e Nena, i buoni villani, le avevano imposto.
***
Quanto ad Almerigo Crosio, sentendo di giorno in giorno rinascere più vivo l’affetto per questa già abbandonata, cara bambina, e rimembrando i lunghi tre anni di indifferenza e di oblio e comparandoli con il presente amore, dicea tra sè mestamente:
«È ben miserabile in fine questa nostra vita quando ogni volta, ripensandoci attentamente, troviamo che la somma delle nostre azioni è sbagliata sempre, e ci conviene ritornare da capo sempre!»