Tragedie (Alfieri, 1946), Volume II/Note dell'autore che servono di risposta

Note dell'autore che servono di risposta

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Note dell'autore che servono di risposta
Lettera dell'abate Cesarotti Indice del volume secondo

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NOTE DELL’AUTORE CHE SERVONO DI RISPOSTA

OTTAVIA

Nel concepire il carattere d’Ottavia, mi sono proposto di eccitare per lei piú assai compassione che ammirazione; e mi parve cosa molto atta ed efficace ad ottener tale intento, il farla, per cosí dire, mal suo grado amante ancora di Nerone. Pur troppo accade alle volte in natura di amar persone che non si stimano, e che ci han fatto, e fanno del male; e ciò in Ottavia non ho preteso che sia virtú, ma debolezza; e che ne risultasse da tal debolezza (come giá dissi) non ammirazione, ma compassione somma per lei, odio maggiore per Nerone, e piú mostruositá nel di lui carattere: perché se Ottavia si dimostrasse aspra e risentita, e abborrisse Nerone quanto dovrebbe, piú scusato allora egli sarebbe di averla repudiata, e di perseguitarla fino all’estremo.

Del resto, non mi pare che in Ottavia questo suo amore per Nerone sappia di stupiditá. Ella sa e dice a Nerone stesso ch’egli è l’uccisore del di lei padre e fratello; né si compiace giá ella di questo suo amore, ma bensí se ne rammarica e dispera; e dal contrasto in lei tra ciò che ella sente e ciò che dovrebbe sentire, nasce, a mio parere, l’interesse grande in altrui: perché la compassione umana sempre piú si muove per gl’infelici, che hanno in se debolezza e timore, come conviensi a donna, che per quelli che son forti contro l’avversitá, e risoluti a pigliar generoso partito: questi si ammirano; ma degli altri si piange. Aggiungo inoltre, che l’amore ch’ella conserva per Nerone, la giustifica di tutti i sospetti ed accuse d’altri amori; di cui pure troppo importa il [p. 230 modifica] discolparla interamente presso gli spettatori; e ciò senza avvilirla colle giustificazioni; che anche il solo doverle fare, gran macchia sarebbe alla onestá sua.

Ciò che mi si dice circa lo scioglimento di questa tragedia, in parte mi capacita, ed in parte no. A me stesso poco piace quel modo con cui Ottavia s’impadronisce dell’anello di Seneca; il quale in quel momento, essendo a vicenda uomo e filosofo, vorrebbe e non vorrebbe accordarglielo; onde in quella sua indecisione ogni leggerissima forza lo vince. E perciò ho voluto, che in Ottavia il vedere e il togliere il mortifero anello fosse un sol punto; e ciò effettuerassi meglio in teatro, levando affatto il verso 183, che denota contrasto; e massimamente perché da non buoni attori può esser detto ed eseguito in maniera ridicola. A Seneca dispiace la morte di Ottavia; ma egli in cuore la crede pur troppo inevitabile. Onde sorpreso dalla prontezza, con cui ella ha afferrato il veleno, se ne attrista in parte, perché l’aspetto d’una giovine vaga ed innocente, che sta per darsi la morte, è per se stesso compassionevolissimo; ma in parte quasi ne gode, perché la considera come una vittima involata alle calunnie e crudeltá di Nerone. E siccome fra due persone di cui l’una ondeggi fra due diversi affetti, e l’altra sia, come Ottavia, giá per disperazion fatta secura, questa con facilitá vince l’altra; non ho creduto fuor di natura, che mentre Seneca dubita, Ottavia sorbisca la venefica polvere, senza che Seneca sia in tempo d’impedirnela. Queste sono le ragioni, per cui cosí l’ho praticato; oltre la ragion migliore, ch’io non seppi come altrimenti effettuarlo, serbando verisimiglianza negli intrapresi caratteri.

Ecco, mi si addita un altro mezzo ingegnoso per la catastrofe, e di cui l’effetto teatrale sarebbe molto maggiore. Ci penserò molto, e vedrò in un’altra edizione se io debba fare questo cambiamento. Ma, nell’osservare cosí di volo questo nuovo pensiero, giá mi sono avvisto, che Ottavia, coll’essersi provveduta prima di veleno, non sarebbe piú quella Ottavia timida, e non punto Stoica, da cui io fo dire a Seneca.

Se il vuoi, poss’io per te fuggir di vita;
ma non è forza in me da attender morte.

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Non sarebbe piú quella Ottavia debole, e irresoluta fin all’ultimo, quale ho voluto dipingerla io; quale doveva essere una tenera donzella, figlia di Messalina e di Claudio, nata e educata mollemente; quale ella se stessa descrive, parlando con Seneca; e quale in somma si mostra in tutta la tragedia. Sarebbe una donna forte, giá impensierita di morire, prima che la necessitá ve la stringesse: e tale non può essere mai la mia Ottavia, senza o sbalzare ella fuori del proprio carattere, o essere intieramente da me concepita diversa.

Ma il dotto critico sa meglio di me, che questo sarebbe un rimedio peggiore del male; e che, dovendo le cose umane non esser mai senza difetto, sono pur sempre piú tollerabili quelli che vengono insieme col primo getto delle cose, che non quelli che nascono dalle rappezzature, le quali tanto pregiudicano all’unitá del tutto. Ci penserò dunque, e piú d’una volta, prima di risolvermi a mutare: ma, volendolo pur fare, non perderò di vista mai il bellissimo effetto che ne risulterebbe in fine dell’atto V, dal mezzo con tanta sagacitá suggeritomi.

TIMOLEONE

Molto bene vien quí osservato, che il Timoleone è una tragedia, in cui non si fa quasi niente; questo è verissimo, e cosí l’ho fatta, perché il soggetto non dá di piú; e il cercare di far nascere degli avvenimenti dove non ci debbono essere, ho sempre giudicato esser cosa altrettanto fastidiosa, quanto facile; da molti però, che il giusto valore delle parole non sanno, ciò viene fastosamente denominato fantasia.

Non credo che possa sussistere l’obiezione che ad Echilo si fa, d’aver lasciati perire i compagni; perché negli estremi casi si scelgono i mali minori. Ad Echilo, che non può fare tre cose a un sol tempo, prima d’ogni altra deve premere di salvare [p. 232 modifica] Timoleone, come il primo stromento della libertá da ricuperarsi; poi d’uccider Timofane, come il primo ostacolo ad essa; poi di salvare i compagni. Col venire in corte e trarvi Timoleone, egli ottiene i due principali intenti; col correre ad aiutare inutilmente i compagni li perde tutti tre. Perché, se egli non è con Timoleone, chi uccide il tiranno? se egli è coi compagni, per ciò non li salva, quantunque egli perisca con essi. E queste cose non mi pare che debba Echilo dirle a Timoleone nella scena I dell’atto V, che giá vien giudicata troppo lunga; ma appena accennate, bastano perché lo spettatore le ragioni poi, e le combini da se.

Quanto alla sicurezza troppa di Timofane, io direi che la soverchia potenza può darla. E molto piú in casa propria, contro due uomini soli, di cui l’uno è fratello, l’altro è cognato, ed è stato già amico; salvati tutti due in quel punto manifestamente dalla morte: beneficio che il tiranno sempre reputa grandissimo; il non uccidere. Timoleone ed Echilo, per quanto si vede, sono disarmati; il tiranno non ha guardie in quella camera, ma le ha nel palazzo; e oltre tutto ciò, gli rimane una certa generositá nell’animo, per cui vuole ridestar quella di questi due nemici, e non avvilirsi in faccia a loro col mostrare di diffidarne, o di temerli. Il volersi far vedere in trono, non va interpretato letteralmente; vuol dire, il farsi vedere all’atto pratico d’esercitar signoria assoluta; ma mi son voluto servire di quella parola trono, come la piú breve a dimostrar tirannia, e la piú terribile agli orecchi e al cuore di un libero cittadino. Aggiungasi, che non tutte le minacce si credono vere; e che colui che ha pienamente effettuate le sue, come Timofane, può non temer di due che soli rimangono, e in apparenza sprovvisti di mezzi per effettuare le loro. E il modo con cui Echilo perviene ad ucciderlo, è così rapido e inaspettato, che sí il tiranno, che lo spettatore, potrebbero anzi credere e temere, che questi due, non volendo sopravvivere alla intieramente estinta libertá, stessero per uccidere piuttosto se stessi, che il tiranno; il quale ben sanno non potersi quasi mai uccidere impunemente, avendo egli soldati, il che viene a dire satelliti e vendicatori. [p. 233 modifica]

Ho voluto donare i rimorsi di Timoleone al secolo in cui scrivo, e all’animo dei moderni spettatori; i quali per lo piú nulla di patria sapendo, non potrebbero tollerare un fratello uccisore dell’altro, il quale poi con Stoica insensibilitá o fermezza, di un tal fatto parlasse, anche brevissimamente. In oltre l’effetto teatrale sarebbe diminuito moltissimo da un tale Stoicismo; assai diversi essendo, e dovendo essere, gli eroi nella storia, e nell’azione tragica, in cui sempre bisogna servire all’effetto per quanto si può. Il Timoleone mio è concepito amator della patria in primo luogo, e del fratello in secondo; dall’amarlo, riesce in lui piú magnanimo lo sforzo dell’ucciderlo; ma uscirebbe dal suo carattere, se ucciso, non lo piangesse. Timoleone in quel punto non si mostra giá a Corinto; è l’eroe in casa. Io son certo, che anche il gran Bruto avrá pianto amarissimamente colla madre e l’amico quegli stessi suoi figli, per cui in pubblico dicesi che né una lagrima pure versasse.

MEROPE

A me, pare che Polifonte, nel dire a Merope; che, se ella gli perdona, potrá forse rendere cosí piú grato il di lui giogo ai Messenj, confessando con quella apparente ingenuitá una cosa che a Merope giá è nota, piú tosto la possa piegare, che alienarla da se; essendo particolaritá del cuore umano, che una certa schiettezza vaglia a guadagnarlo, piú assai che una continua dissimulazione; e trattandosi di cosa chiara e saputa, il negarla, o il volerla sotto pretesti non verisimili colorire, sommamente indispone. Polifonte non ha nascosto a Merope, che v’è l’interesse d’amendue nel conchiudere le loro nozze; e non ragionandole come amante, ma come politico, dee mostrare di dirle il vero, per quanto il può combinare coll’arte e coi fini suoi. Forse ch’io sbaglio, ma espressamente glie l’ho fatto dire, per sedurla con quell’apparente franchezza, concedendole una veritá nota e innegabile, per poi poterne dissimulare e nascondere mill’altre men sapute e men chiare. [p. 234 modifica]

La gemma del Maffei, e il mio cinto, sono fratelli carnali: ma la gemma è cosa assai piú preziosa, e, per portarsi nelle dita, assai piú in vista che un fermaglio a cintura, che può esser coperto dal pallio. E l’uno e l’altro era imprudenza del vecchio di commettere a quel giovinetto: ma, siccome Egisto è fuggito di casa, rimane giustificato il vecchio in gran parte dalla di lui fuga. S’era indotto il mio Polidoro a fargli un tal dono, perché i vecchi padri coi doni accarezzano i figli; non era imprudenza il lasciarglielo portare in Elide, dove non era noto un tale arnese; e quel buon vecchio dovea veder con segreta gioja l’unico germe reale addobbarsi del cinto del suo re; quasi un tacito augurio del recuperarne egli un giorno il diadema. Oltre che io sempre ho detto, cinto, fermaglio, impresa d’Alcide, cose tutte, che per essere fors’anche di materia comune, potevano non disconvenire ad un privato, com’era il mio Egisto: in vece che una gemma di gran pregio disconveniva certamente a quell’Egisto, figlio di servo. E quindi l’imprudenza di quel Polidoro era maggiore.

Il re Cresfonte poteva, come guerriero, aver avuta una cintura di cuojo con fermaglio d’ottone o di ferro, e sopravi l’impresa d’Alcide, senza che un tale arnese fosse piú regio, che di privato guerriero.

So, che la commozione degli uditori scema moltissimo dopo il punto in cui Egisto sta per essere ucciso dalla madre; ma questo lo credo inevitabile difetto del soggetto, e non mi pare che le altre Meropi crescano dopo un tal punto. Nella mia però viene protratto fino alla fine del quart’atto; nell’altre, non piú che alla metá del terzo. Stimo impossibile in natura, di sostituire al momento, in cui una madre sta per uccidere il proprio figlio a lei sconosciuto, un altro punto di eguale, non che di maggiore interesse. Tutto è minore quello che può accader dopo; e sia quel che si voglia. O si uccida il tiranno, o dal tiranno si uccida quel figlio istesso, non sará mai piú una madre che sta per uccidere il proprio figlio, noto a chi vede, e non alla madre. Ciò posto, questa tragedia che non finisce, né può finire, colla sola agnizione d’Egisto, va pur terminata; e lo dev’essere colla morte del tiranno. Poiché [p. 235 modifica] dunque non si può aggiungere oramai interesse, il men cattivo mezzo, sará necessariamente il piú breve; affinché gli spettatori, che non si possono piú agitare, non abbiano neppur tempo di andarsi agghiacciando del tutto. Il piú breve da quel punto in poi, credo d’esser stato io.

Polifonte non ha potuto insistere che i suoi soldati uccidessero Egisto appena svelato, per l’errore in cui è incorso egli stesso di crederlo morto, e di volerlo vendicare: errore, che in quel punto gli allaccia le mani; non potendo usar violenza ad Egisto, senza contradire a se stesso in faccia a tutta Messene. E che quello sia il figlio di Merope, tutti, o i piú, lo credono, dall’impeto con cui la madre espone se stessa in difesa di quel giovine. Il popolo non è commosso quanto il dovrebbe, perché un popolo soggiogato dalla tirannide non si scuote, se non alla vista di un qualche tragico accidente: e per quella ragione appunto, Polifonte che conosce un tal popolo, non vuole, col dargli questo spettacolo d’un figlio svenato in braccio alla madre, muovere in lui quel furore, che le parole e i pianti di essa a destare non bastano. Che fa egli dunque l’accorto tiranno? aspetta tempo. Il giovine rimane in fine del quart’atto senza catene, benché non si dica; ma si suppone, dal dubbio che Polifonte pare ammettere ch’egli possa essere il figlio di Merope: dunque non lo lascia legato, non dovendosi piú uccidere; ma lo lascia assai ben custodito nella propria reggia. Un vecchio, una donna, e un giovine disarmato, soli, e ben custoditi, che far potrebbero per prevenire il tiranno? nulla mai, se non si appresentasse poi ad Egisto quella fortuita occasione di ucciderlo nel punto del sagrifizio con la scure del sacerdote: ma codesta, chi mai la potea prevedere?

Quanto alla catastrofe, dirò, che ho creduto poter supplire alla freddezza che assale questa tragedia nel quint’atto, col porre sotto gli occhi quello spettacolo pomposo da prima, poi terribile funesto e dubbioso, del sagrifizio, delle imminenti nozze, dello svenato tiranno, del popolo commosso, dei soldati infieriti, e in ultimo del valore e vittoria d’Egisto. Cose tutte, che vedute, pare che occuperanno e scuoteranno assai piú che narrate. Che se con un precetto di Orazio mi si dice, che ogni cosa non si debba esporre alla [p. 236 modifica] vista; io acconsento che non si dee mostrar Medea trucidante i suoi figli; ma bensí credo tra le cose che mostrare si possono, essere una delle non reprensibili il mostrare il figlio di un re ucciso e spogliato del trono, trucidante il tiranno uccisore del padre, e usurpatore del proprio soglio. Onde, con altro precetto d’Orazio giustificherò una tal mostra: Il narrare fa assai minore impressione, che l’esporre agli occhi. Ma la possibilitá di un tal fatto nel modo in cui io lo espongo, va pur dimostrata.

Si osservi, che il vero popolo presente alla pompa nuziale è pochissimo, in paragone dei soldati e altri fautori del tiranno. Si osservi, ch’egli se ne sta taciturno, perché atterrito è. Si osservi, che Polifonte espressamente ha scelto l’atrio della reggia per tal funzione, come luogo piú ristretto che il tempio; luogo ov’egli può ammettere ed escludere chi vuole; luogo, a cui Egisto, Polidoro, e Merope, per arrivarvi non debbono né uscir dalla reggia, né mostrarsi alla moltitudine. Verissimo è, che Merope venendo sforzatamente alle nozze, col mostrare al popolo la sua ritrosia, rende in gran parte inutile l’ipocrisia del tiranno; ma egli non poteva antivedere, che Merope, soprastando tuttavia il pericolo del figlio, ardirebbe fare in faccia al pubblico queste dimostrazioni. Dice il critico, che Polifonte non dovea credere a Polidoro; ma pure egli potea benissimo credergli, perché gli parlava in nome di una madre bramosa e risoluta di salvare il figlio a qualunque suo costo. Polidoro avea detto al tiranno, Merope esser presta alle nozze; e in fatti Merope lo era: ma alla vista di quel popolo, fra cui ella crede, o spera d’aver dei fautori; di quel popolo, la cui presenza poc’anzi ha frenato, e impedito il tiranno di farle uccidere il figlio; si risveglia in lei la speranza di poterlo commovere parlandogli. Dunque su questa fidanza, aggiunta all’orribile ribrezzo che ella prova nel venire a tai nozze coll’uccisor del marito, ella s’induce inopinatamente a testimoniare al popolo la sua estrema ripugnanza per Polifonte. Ma, che fa allora il tiranno? con studiata pompa di accorta franchezza rende conto dei suoi piú intimi pensieri a riguardo d’Egisto, o sia egli, o non sia figliuolo di Cresfonte; e cosí, mezzo fra atterrito e persuaso, quel popolo si riduce al punto, che nulla ardisce; e non sa, né come, né cosa operare in favore di Merope: e benché egli non ami Polifonte, pure in tutto questo suo operare non lo può tacciar né d’ingiusto né di crudele; parendo egli volere col mezzo di queste nozze troncare ogni discordia, e restituire i suoi pristini dritti a ciascuno. [p. 237 modifica]

Ecco lo stato delle cose nel punto, in cui Egisto impugna ed adopera poi cosí felicemente la scure sacerdotale. Al vedere quel colpo inaspettato, rinasce subito nei buoni la speranza e l’ardire; nei satelliti del tiranno il terrore. Coloro, che vivo Polifonte nulla ardivano, tutto osano ed imprendono vedendolo estinto; quelli, che tutta la loro baldanza e coraggio fondavano in lui, gran parte ne perdono al cader suo. Rapidamente si spande fuori della reggia, che il tiranno è stato trucidato: vi accorrono in folla i cittadini, e il numero loro deve trionfare dei soldati di Polifonte giá atterriti, e cacciati della reggia da Egisto e dai cittadini che v’erano: e tutto ciò mi par naturale, e non difficile ad eseguirsi.

Che Egisto assistesse a quel rito, e vicino alla madre, e che Polifonte ve lo lasciasse (poiché egli dice poc’anzi di volerlo far suo erede, ove sia provato esser egli figlio di Merope), a me pare tanto verisimile, che non si potrebbe operare altramente da Polifonte senza che i suoi fatti smentissero le sue parole. Egisto non era un personaggio indifferente alla celebrazione di queste nozze; onde non poteva da Polifonte né essere tenuto lontano, né lasciato nella folla; né, molto meno, custodito fra guardie come un malfattore. Si ritrova dunque Egisto e presente e vicino, ma disarmato fra disarmati. Il tiranno non pensò alla scure; e neppure Egisto, che fra se stesso e con Polidoro inutilmente fremeva, ci avea pensato: il veder la scure in alto, pensarvi, afferrarla, ed uccidere, sono un sol punto: dall’istantaneitá di un tal sublime impeto nasce il maraviglioso sí, ma non l’impossibile.

Molto meno bensí a me pare verisimile, ancorché venga narrato e non visto, che in un tempio, in mezzo ad un rito solenne, quell’altro Egisto, creduto tuttavia figlio di un povero servo, convinto uccisore di persona cosí importante come il figlio di Merope, e condannato giá come tale da Polifonte stesso, potesse trovar mezzo di rompere tutta la folla degli spettatori, senza far moltissimo strepito; ch’egli potesse avvicinarsi all’ara inosservato dal re e dalle sue guardie; potesse avventarsi alla scure, che appunto, per non essere levata in alto dal sacerdote, era assai meno afferrabile con quella rapiditá a ciò tanto necessaria; potesse, afferratala, trucidare il re: e molto meno verisimile mi pare, che quel popolo che non era neppure per ombra prevenuto che esistesse ancora questo figlio di Cresfonte, né che quegli il fosse, a un tratto con tanto calore e ardire potesse salvarlo dai soldati del tiranno. Tutti questi possibili mi pajono piú lontani dal vero che i miei. [p. 238 modifica]

Del resto, circa il piú o men buon effetto di questo quint’atto, o sia paragonato in se stesso, o cogli altri, io ne appello a piú d’una rappresentazione, quando si faranno come si debbono e possono eseguire.

DELLO STILE

Quanto alla mancanza, o in tutto o in parte, di queste due qualitá ne’ miei versi di tragedia, poco a dir mi rimane; avendo io tutto ciò che su questo proposito sapeva, ampiamente detto in una risposta al signor Calsabigi, che si può leggere stampata. In essa io assegno le ragioni, per cui ho creduto di dover essere meno fluido, che in un altro genere di poesia; e naturale in una maniera alquanto diversa dalla solita: cioè, avvertendo sempre che parlano (e non cantano) personaggi altissimi; la di cui naturalezza non dee, né può essere triviale mai.

Le ragioni (quali ch’elle siano) in quella risposta da me allegate del mio operare, non sono state finora da nessuno, ch’io sappia, impugnate con altre ragioni. Aggiungerò pure, che non credo stoltamente d’avere alla prima dato interamente nel segno, rispetto a ciò che io aveva ed ho in mente. Moltissime cose vedo in quasi tutti i versi delle mie tragedie, che non mi soddisfanno; o come non chiare abbastanza, o come non eleganti quanto il vorrei; e tutte le muterò, toglierò, o migliorerò, sapendo, nel ristamparle; ma ciò, se cento edizioni ne facessi, in tutte piú o meno mi avverrebbe; perché sempre a chi non si accieca sulle cose proprie, il tempo, la riflessione, e le varie prove sí di leggere che di recitare, lasciano luogo a far meglio. Ma non cambierò però mai la totalitá del mio stile, a segno che quei versi ch’io credo tragici, diventino simili ai versi d’ottave, sonetti, canzoni, o altre liriche, o altre drammatiche composizioni, da cantarsi o cantabili. Di questo ne ho meco medesimo contratto un obbligo espresso, per non tradire, quanto è in me, la maestá e maschia sublimitá della tragedia. Due sole cagioni mi potranno pure disciogliere da un tal obbligo: la prima, se io avrò veduto, a recita ben fatta e con intelligenza (se pur mai si fará), che alla terza e quarta rappresentazione di qualunque di queste tragedie, lo stile continui ad [p. 239 modifica] offendere come duro, o a nuocere all’intelligenza come oscuro. L’altra (e sarebbe assai piú breve e piú facile, e dall’amicizia di questo dotto censore l’attendo) se il signor Cesarotti, pigliando una scena qualunque di esse, vorrá assumersi il fastidio di ridurla, o tradurla in versi italiani, quali a lui pare che anderebbero fatti. Io ottenuto il modello, lavorerei allora sopra una salda base; e, come imitatore fedele, non dispererei di soddisfare al suo gusto, e insieme a quello del pubblico. Ma, finché non vedo un tal saggio, non sapendo io (ciò che fin ora l’Italia stessa forse neppure sa) quale sia, o quale debba essere il vero gusto italiano nella versificazione tragica; né potendomi dipartire dal mio, per non sapere fin a qual segno ne debba recedere e a quale accostarmi, altro non farei che perdere la faccia mia, senza saper quale assumere: ed io credo in ogni cosa pur sempre piú tollerabile assai un difetto costante, e dedotto da principj, comunque il siano, ragionati, che non una mediocritá operata a caso.

Io ho cercato d’imparare a far versi, leggendo Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Poliziano, Ossian, (e questo, non lo inserisco io per adulare) e pochi altri. Ma, siccome in tutti questi non trovo versi di dialogo da recitarsi, ho cercato di adattare le loro parole, frasi, e modi, alla nuova arte di far versi tragici italiani; avendo però sempre innanzi agli occhi e negli orecchi la recita, purgata da ogni molle e insulsa cantilena, e quale si conviene a ben addestrati attori in teatro. La sola prova che finora ho fatto io stesso di questo stile alla recita, che fu dell’Antigone in Roma, è riuscita (per quanto a me parve, e a molti altri) molto bene; e nessuno allora si dolse né dell’oscuro, né del duro; tutti parvero bensí accorgersi del breve e vibrato. Altre prove finora fatte, ma con minor diligenza assai, e maggiore imperizia dell’arte, del Filippo, Agamennone, Oreste e Merope in Siena, dell’Oreste in Firenze, del Filippo in Napoli, della Virginia in Torino, etc. etc., non riuscirono benissimo, ma neppur male: e la cagione del minor incontro non parve esser stata nella composizione, quanto nell’esecuzione; e non vi fu doglianza universale, né dell’oscuritá, né della durezza. Affinché i censori di questo stile fossero del pari con me a questa tenzone, bisognerebbe pure che avessero provato anch’essi a farne con somma accuratezza recitar una, e che la cattiva riuscita di essa gli avesse confermati nel loro parere, come la buona riuscita della prova fatta da me mi ha confermato nel mio. [p. 240 modifica]

Tuttavia, io sempre pronto ad arrendermi alla ragione e alla veritá; e convinto nel rileggere io stesso le mie tragedie, che sul totale elle riuscivano di stile intralciato e stentato, mentre io m’era soltanto proposto di farlo sostenuto e vibrato; e che un tale costante difetto nuoceva loro assai alla lettura, ed anche non poco alla recita; mi sono fermamente determinato di dar loro in una seconda edizione un aspetto in gran parte diverso. Ma innanzi di accingermi a questa dura e spiacevole fatica, null’altro attendo, che di vedere (come cosa per me di somma autoritá, e utile e luminosa per la Italia tutta) uscir di mano del signor Cesarotti un tal saggio di stile tragico; il che nessuno certamente può darmi, quanto l’autore dei versi immortali dell’Ossian.