Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. II, 1946 – BEIC 1727862.djvu/245


note dell’autore che servon di risposta 239


offendere come duro, o a nuocere all’intelligenza come oscuro. L’altra (e sarebbe assai piú breve e piú facile, e dall’amicizia di questo dotto censore l’attendo) se il signor Cesarotti, pigliando una scena qualunque di esse, vorrá assumersi il fastidio di ridurla, o tradurla in versi italiani, quali a lui pare che anderebbero fatti. Io ottenuto il modello, lavorerei allora sopra una salda base; e, come imitatore fedele, non dispererei di soddisfare al suo gusto, e insieme a quello del pubblico. Ma, finché non vedo un tal saggio, non sapendo io (ciò che fin ora l’Italia stessa forse neppure sa) quale sia, o quale debba essere il vero gusto italiano nella versificazione tragica; né potendomi dipartire dal mio, per non sapere fin a qual segno ne debba recedere e a quale accostarmi, altro non farei che perdere la faccia mia, senza saper quale assumere: ed io credo in ogni cosa pur sempre piú tollerabile assai un difetto costante, e dedotto da principj, comunque il siano, ragionati, che non una mediocritá operata a caso.

Io ho cercato d’imparare a far versi, leggendo Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Poliziano, Ossian, (e questo, non lo inserisco io per adulare) e pochi altri. Ma, siccome in tutti questi non trovo versi di dialogo da recitarsi, ho cercato di adattare le loro parole, frasi, e modi, alla nuova arte di far versi tragici italiani; avendo però sempre innanzi agli occhi e negli orecchi la recita, purgata da ogni molle e insulsa cantilena, e quale si conviene a ben addestrati attori in teatro. La sola prova che finora ho fatto io stesso di questo stile alla recita, che fu dell’Antigone in Roma, è riuscita (per quanto a me parve, e a molti altri) molto bene; e nessuno allora si dolse né dell’oscuro, né del duro; tutti parvero bensí accorgersi del breve e vibrato. Altre prove finora fatte, ma con minor diligenza assai, e maggiore imperizia dell’arte, del Filippo, Agamennone, Oreste e Merope in Siena, dell’Oreste in Firenze, del Filippo in Napoli, della Virginia in Torino, etc. etc., non riuscirono benissimo, ma neppur male: e la cagione del minor incontro non parve esser stata nella composizione, quanto nell’esecuzione; e non vi fu doglianza universale, né dell’oscuritá, né della durezza. Affinché i censori di questo stile fossero del pari con me a questa tenzone, bisognerebbe pure che avessero provato anch’essi a farne con somma accuratezza recitar una, e che la cattiva riuscita di essa gli avesse confermati nel loro parere, come la buona riuscita della prova fatta da me mi ha confermato nel mio.