Tragedie (Alfieri, 1946), Volume II/Lettera dell'abate Cesarotti
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LETTERA DELL’ABATE CESAROTTI
su le tre precedenti tragedie,
giá inserita nel giornale di pisa, tomo 58, articolo 9,
anno 1785.
con note dell’autore, che servono di risposta.
Eccole gittata su la carta la mia opinione, qualunque siasi, intorno alle tre tragedie da lei inviatemi. Ella ne fará quel conto che le parrá, non avendo con ciò inteso se non di darle un attestato d’amicizia e di stima. Non le fo il torto di scusarmi della libertá ch’io prendo nel segnare ciò che non mi appaga o mi offende. Io l’ammiro troppo per dissimularle in alcuna parte la veritá, o quello che mi par tale.
Padova, 25 Marzo, 1785.
Melchior Cesarotti.
OTTAVIA
L’Ottavia ci presenta il contrasto fra l’eroismo della scelleraggine, e quello dell’innocenza.
Nerone è dipinto col pennello di Tacito. Il suo carattere si palesa, o per dir meglio, balza fuori con varj tratti luminosi e terribili. Quanto è nuovo e profondo ciò che dice sopra Seneca! d’averlo punito coi doni, e di serbargli la scure, poiché l’avrá reso spregievole all’uomo piú vile. L’amore stesso in costui è sul punto di cedere all’orgoglio feroce, quando Poppea non piega tosto alle sue volontá: Donna, io non ben m’appago d’amor qual mostri d’ogni tema ignudo. Chi me piú teme ed ubbidisce, sappi, che m’ama piú. Come è fino il senso d’invidia ch’ei mostra, perché un altro poté insegnargli il modo di disfarsi d’un nemico! e l’atto d’impazienza atroce: Sempr’arte? non ferro mai? e il Men duole in risposta a Tigellino, che gli avea detto: Ch’ei non poteva svenar tutti. La replica dell’Atterrito io? a Poppea che mostra d’accorgersi del suo timore, quanto è mai cupa e terribile!
Seneca deve esser grato al nostro poeta: egli sostiene il suo decoro filosofico, e compensa le sue passate condiscendenze coll’accusarsene, ed emendarle con libertá e con fermezza. Bellissima è tosto la scena prima, in cui Nerone ricorre a lui, perché si disponga a giustificare ciò ch’ei medita sopra Ottavia. L’istanza del tiranno è umiliante, e sparsa di minacce occulte, e di scherni amari. Insigne è il tratto di Seneca, e la risposta di Nerone: Sol lascia a me di me la stima. Ove tu l’abbi, io la ti lascio. Finissimo è pure il lagno di Seneca, che tocchi a lui la miglior parte del regno: L’odio di tutti.
Tigellino è qual deve essere, maestro consumato d’iniquítá. Bello e profondo è il suo detto: L’innocenza è troppa d’Ottavia, ond’ella scampi. Accortissima è la sua condotta nella scena III dell’atto II, ove consiglia Nerone ad apporre una calunnia ad Ottavia: ed insigne è pure la sua descrizione del tumulto della plebe, (atto III, scena III) viva, e artifiziosamente affannosa per irritar Nerone, e dispor meglio del di lui animo.
Poppea conserva anch’essa il suo carattere di donna ambiziosa, artifiziosa, e malvagia. Bello fra gli altri è il tratto, con cui ripiega naturalmente alla sua imprudenza, d’aver indicato d’accorgersi che Nerone è atterrito: Sí, per me il sei.
Ottavia è un modello di virtú, e di rassegnazione; e sostenuto egregiamente da capo a fondo. Solo può trovarsi a ridire, ch’ella conservi amore per Nerone. Che soffra tutto, che non si risenta, che non voglia prestarsi alla sollevazione suscitata per lei, per non irritar maggiormente il tiranno, per la speranza di disarmarlo colla sua dolcezza, per non dargli il menomo pretesto di accusarla, per senso del proprio decoro, per disprezzo tranquillo della morte; tutto ciò è grande ed eroico: ma come può, senza farsi torto, conservar propriamente amore per un tal mostro? Questa dose d’affetto non pregiudica ella piuttosto all’interesse, che dovrebbe destar nei lettori? Potrebbe a stento essere un merito in una moglie cristiana, in cui l’amor conjugale è un dovere, e la sofferenza una perfezion religiosa. Ma Ottavia non è né cristiana, né moglie (1).
È vero, che Ottavia sorella d’Augusto, benché ripudiata da Antonio, non volle uscir della di lui casa, e protestò sempre d’essergli moglie: ma Antonio era un dissoluto, non uno scellerato, né un parricida; egli era valoroso, generoso, ed amabile; Ottavia poteva esserne tuttavia innamorata senza scandalo: oltre che la sua moderazione aveva l’oggetto nobile di non attizzar maggiormente la discordia fra il marito e il fratello.
Il caso della nostra Ottavia è molto diverso. La preferenza data a Poppea non doveva piuttosto eccitar in lei uno sdegno nobile, che una gelosia amorosa? Ottavia poteva rispettar Nerone, non lagnarsi, non pensar a vendette, conservar la memoria d’averlo amato quando egli sembrava diverso, bramar ch’ei si ravveda, anche per poterlo amar di nuovo; ma il continuar d’amarlo dopo tante iniquitá, passa i confini della virtú, e si accosta a una debolezza, che non potendo esser né lodata, né compatita, indispone piú che interessi.
Nulla di piú eccelso della scena del terzo atto, in cui Ottavia si offre d’acchetare il popolo, fingendosi tornata in grazia di Nerone, affine ch’ei possa farla uccider senza periglio.
Insigne è la scena del V atto, ove Ottavia implora il soccorso di Seneca, per liberarsi colla morte delle persecuzioni del suo nemico. Ella mostra una fermezza tranquilla, e bellissime sono le ragioni per indur Seneca a darle l’anello venefico. Seneca forse avrebbe potuto persuadersene; ma vediamo che la sua filosofia non giunge a tanto: egli vorrebbe a tutto costo salvar Ottavia. Come dunque è verisimile, che si lasci rapire l’anello? Sia sorpresa, sia forza, il fatto non par naturale (2). Parmi inoltre, che la morte d’Ottavia non faccia tutto l’effetto che avrebbe potuto aspettarsene. Seneca la sa, e Nerone la sente, ma non la vede. Non so s’io m’inganni, ma tutto questo pezzo della morte poteva fare assai maggior colpo se si fosse, per esempio, condotto nel modo seguente.
Ottavia poteva precedentemente su le massime di Seneca essersi provveduta d’un veleno in un anello, fin da quando fu rilegata in Campania. Le si annunzia l’accusa d’Anicéto. Ella si risolve al suo fine. Parla con Seneca in generale sul disprezzo della vita, sul vantaggio della morte, senza però palesare il suo disegno. Il filosofo, senza prevederlo, ve la conferma. Vien Nerone, Tigellino, e Poppea; la consigliano a confessar la sua colpa, colla speranza d’un semplice esiglio; minacciandola, in altro caso, di morte e d’infamia pubblica. In questo mezzo si sentono ancora fra il popolo alcune voci di tumulto. Seneca difende Ottavia con forza, spera ancora una rivoluzione, rimprovera il tiranno, cerca di atterrirlo. Ottavia, sino allora taciturna e tranquilla, impone silenzio agli altri, parla dell’eroismo della sua dolce virtú, e tutto ad un tempo si mette il veleno alla bocca. La sorpresa è universale, e genera effetti diversi (3). Seneca non ha piú freno; predice a Poppea la sua caduta, e a Nerone il supplizio.
TIMOLEONE
Timoleone è una tragedia d’un merito originale. Rendere amabile un tiranno, e ammirabile un fratricida; far che ambidue inflessibili nelle loro massime gareggino d’amor fraterno anche nel punto che uno è uccisore, e l’altro ucciso; sono imprese che ricercano un genio non comune per riuscirvi, e il nostro autore ci riuscí. Egli seppe anche diversificare il carattere uniforme di Timoleone e di Echilo, col dare a questo il distintivo d’una schiettezza eroica. Quanto è nobile la rinunzia solenne ch’ei fa a Timofane della sua amicizia, e la protesta di giurar a Timoleone Fede eterna di sangue, e la sua risposta a Demarista; che gli dice: Son madre. — Di Timofane.
Insigni sono le scene II e III dell’atto II, e la IV del III. Timofane in quattro versi ristringe il compiuto panegirico della monarchia: Timoleone fa un ritratto terribile dello stato d’un tiranno, con uno stile di fuoco. Ma, sopra ogni altra, sorprendente e divina è la prima dell’atto quarto fra Timoleone e la madre. Per notare i tratti piú distinti della tragedia bisognerebbe trascriverla.
Si dirá, ch’ella è troppo povera d’azione. La tragedia non ha che un momento tragico: tutto il resto non è che una briga di famiglia: tutto si riduce al parlare gli stessi personaggi sopra i soggetti stessi, con pochissima e quasi niuna varietá (4). Ciò in parte è vero, ma oltre che questa è la vera e naturale esposizione della storia, oltre che, trattandosi dell’uccision d’un fratello, debbono esserci molte alternative, e la piú piccola circostanza dee produrre timori, pentimenti, dubbi, e speranze, che sospendono necessariamente l’azione, e danno luogo a nuovi tentativi; aggiungerò che questo appunto fa il pregio piú singoiar dell’autore. Per ordire una tragedia di cinque atti con sí poca tela, e a forza di soli discorsi, ci vuole un capitale di sentimenti profondi ed eroici che supplisca all’azione, e sostenga l’interesse; una ricchezza inesausta per non ripetersi, e far nascere il vario dall’uniforme; e un’economia la piú giudiziosa, per graduare i sentimenti della medesima specie, onde l’ultimo giunga sempre inaspettato quando tutto sembra giá detto, e accresca l’interesse e la forza. Un tale assunto, per chi ben pensa, suppone un vigor di genio e una maestria d’arte molto superiore a quella che si ricerca nel viluppo dell’azione e nei colpi grandi di teatro.
Solo potrebbe non soddisfare il mezzo che conduce allo scioglimento. Era convenuto che i congiurati si trovassero in un dato luogo. Echilo dalle parole di Demarista arguisce che siano scoperti, e che non v’è salute per lui e per Timoleone, se non in corte. Che dovea fare un eroe? o cercar di salvare i compagni, o morir con loro. Echilo pensa prima a salvar Timoleone, e lo persuade a venirsene alla madre senza palesargli il perché: lo sdegno che mostra Timoleone quando sa il fatto, e il rimprovero che ne fa all’amico, mostrano abbastanza che quest’idea non fu nobile, né degna di loro. Echilo mandò un messo agli amici, ma non se ne fida egli stesso. Egli dunque espose alla morte i compagni senza soccorso, lasciando in loro il crudo sospetto d’esser traditi da Timoleone stesso, che da due di loro fu veduto entrar nel palazzo. Non dovea Echilo piuttosto avvisar subito Timoleone, e insieme con lui andare in persona in traccia degli amici per avvisarli; e se non gli riusciva d’esser a tempo, esporsi con loro alla stessa sorte? (5).
Tale era in fatti il pensiero di Timoleone, che vuole uscir della corte. La sola scusa di Echilo è questa: La morte nostra è certa; uniti ai compagni noi possiamo vender caro la nostra vita, ma non salvar noi né la patria. La salute di Timoleone è troppo necessaria allo Stato; se restiamo vivi, noi possiamo ancora uccidere il tiranno; se periamo con gli altri, tutto è perduto per sempre. Si pensi dunque ad assicurar Timoleone; ma se ci fosse un tradimento, degg’io abbandonarlo? Il suo cuore fraterno avrá egli forza bastante per uccidere il fratello sotto gli occhi della madre? Io non posso staccarmi da lui. Tutto ciò doveva egli spiegar chiaramente, per non lasciar negli animi il sospetto d’aver troppo leggermente abbandonato i compagni. E ad onta di ciò, sarebbe stato piú eroico di mettere in salvo Timoleone, e poi correre ad unirsi cogli altri per incontrare lo stesso destino. Per indurlo a condiscendere d’andar alla corte sarebbe stato, parmi, ottimo pensiero, e il solo efficace, di dirgli che la madre lo attendeva per fuggir con lui dalle mani del tiranno, e che intanto egli andava ad aspettarlo al luogo convenuto. Aggiungo, che la scena fra Echilo e Timoleone è troppo lunga. Appena Timoleone conosce la pia frode di Echilo e il pericolo dei compagni, ogni qualunque ritardo è colpevole.
Veniamo al punto dell’azione. Suppongo senza scrupoleggiare che Echilo possa uccidere il tiranno. Egli è uomo valoroso e gagliardo, le guardie sono lontane, un momento ben colto è decisivo. Ma la sicurezza di Timofane non s’accosta ella alla stupidezza? Egli vuol farsi veder in trono: e dove? in casa, di notte; non innanzi al popolo, ma solo al fratello e al cognato, senza esser cinto da guardie. Non è questa una vanitá puerile? Ei non temeva di nulla da due cosí stretti congiunti. Ma non sapeva egli di certo, ch’erano alla testa d’una congiura? non gli avevano detto positivamente che non averebbe regnato finché vivevano, e che dovea assolutamente ucciderli? Come non assicurarsi se avevano arme? Una tale spensieratezza non parmi che possa giustificarsi abbastanza (6).
Non sanno nemmen piacermi i rimorsi e le disperazioni di Timoleone. Plutarco ci assicura che sono veri: ma Plutarco insieme li condanna come indegni d’un liberator della patria. Potevano conciliarsi i sentimenti dell’eroe e del fratello, facendo che Timoleone rimanesse stupido dopo il fatto, e dicesse soltanto: Dover crudele! Echilo, abbi tu cura della patria, io uccisi il tiranno, or vado a piangere il fratello (7).
MEROPE
Nella Merope, l’autore ha il pregio distinto d’aver introdotto novitá e accresciuto l’interesse tragico, in una azione, che dopo Maffei e Voltaire, non sembrava ammettere né diversitá di maneggio, né aumento di bellezza. Polifonte è un ipocrita delicato, che pare di buona fede, e potrebbe imporne. Non si mostra amante di Merope, ma bramoso di pace interna, e di governo giusto e tranquillo. Brama di sposarla, per renderle ciò che le ha tolto, e lasciare il regno ai di lei figli. La scena prima è condotta con bellissimo artifizio, affine di scoprire se il figlio di Merope sia vivo. La bella pittura, che fa Merope della strage fatta della famiglia di Cresfonte è insieme patetica e artifiziosa; giacché la passione, che spira, serve di velo felicissimo alla sua menzogna. Finissima è la riflessione di Polifonte: Che Merope dee sperar qualche cosa, poiché ella pur vive; e piú sottile ancora il fingere di dir ciò, solo per convincerla che ella non dee ricusare il trono, poiché brama e spera uno stato migliore.
Solo non vorrei, che Polifonte avesse detto, che Merope, Mostrando di perdonargli, avrebbe reso il suo giogo piú grato ai Messenj. È questo un trarsi la maschera, e mostrare ch’egli fa tutto per interesse e timore. Ciò genera, contro il suo fine, diffidenza delle sue intenzioni sopra il figlio, e invita Merope al rifiuto. Questo tratto dovea omettersi, o esprimersi in altro modo (8).
È insigne nel II atto, scena II, la narrazione d’Egisto: ella spira candore, ed è piena d’evidenza, di rapiditá, e d’interesse.
Nella scena seguente sono bellissimi i tratti di Merope, che vorrebbe nascondere la sua interna sollecitudine, e i cenni di Polifonte: Ma tu bramosa, e sollecita tanto? onde? — Che parli? Io sollecita? — Parmi.
La scena fra Egisto e Merope è sparsa di tratti caratteristici e interessanti. La fluttuazione di Merope, l’ansietá nelle domande, gli equivoci sul nome del padre, l’arrestarsi ad ogni circostanza, dipingono al vivo lo stato del cor materno. Impareggiabile è l’esclamazione in cui prorompe, quando sente che l’ucciso era inseguito e pieno di sospetto: Barbaro, e tu l’hai morto? e i trasporti in cui scoppia, all’udire che l’ucciso domandava la madre.
Il personaggio di Polidoro introdotto in questa tragedia vi fa un effetto diverso da quello dell’altre, e confluisce alla sorpresa in un modo inaspettato. Egli solo potrebbe sincerar Merope, ed egli appunto serve a confermarla nel suo inganno. L’invenzione è felicissima, e fa molto onore al poeta. Il fermaglio di Cresfonte trovato nel sangue non lascia dubitare che egli non sia ucciso. Potrebbe solo piú d’uno trovar imprudente, e perciò poco naturale, che Polidoro desse un arnese cosí geloso a un giovinetto inesperto, e ignaro del mistero. La gemma del Maffei può confondersi con molte altre: ma l’insegna d’Alcide è un indizio non equivoco della famiglia regale. Ella non dovea confidarglisi, che nell’atto di palesargli la sua origine, e di prepararlo alla vendetta (9).
Eccellente è la scena II del III atto. Le impazienze di Merope, l’imbarazzo di Polidoro, le sue scappate dalla domanda, il dolore improvviso che lo tradisce, e i trasporti della madre, formano una situazione la piú toccante. Di non minor bellezza è la seguente, in cui ambedue fuor di se raccontano il vero a Polifonte colle grida dell’angoscia, e insultano il tiranno colla sicurezza della disperazione.
Piena d’interesse diverso è la II dell’atto IV, in cui Polidoro trova Cresfonte vivo, ma nel punto il piú critico. La sorpresa, l’allegrezza, la speranza, il timore, l’imbarazzo, si combattono a vicenda. Ma superiore ad ogni altra, anzi divina, è la seguente, in cui Merope viene con Polifonte per uccidere Egisto. Questa è una situazione del tutto nuova, e di straordinaria bellezza. Che fará Polidoro? come arrestar Merope, senza palesar Cresfonte ed esporlo al furor del tiranno? Il trasporto della madre rende vano ogni ritardo e pretesto. Il tratto ultimo estorto dalla necessitá, Egli è tuo figlio, è un lampo improvviso, in cui sfavillano tutti gli affetti. Questo quadro teatrale mostra un genio drammatico, che non può lodarsi abbastanza.
Ma, dopo questo punto, parmi che la tragedia vada scemando di pregio (10). Polifonte è certo che Egisto è Cresfonte; lo conosce valoroso, audace, spirante vendetta; sa l’odio della madre, e dee presentirne le speranze e i disegni. Come non si assicura del suo nemico? Non è piú tempo d’artifizj; si tratta di troppo: egli non ha di sicuro che questo momento. La condizione d’Egisto è ancora equivoca: se egli lascia convalidar l’opinione che sia Cresfonte, non vi è piú sicurezza per lui. Egisto è reo d’un assassinio, si crede uccisor di Cresfonte; Polidoro lo attesta, poi dice che è figlio suo, poi finalmente ch’è figlio di Merope. Tante variazioni fanno giustamente sospettar di frode: qualunque principe, anche legittimo e giusto, si sarebbe assicurato di costoro, e gli avrebbe per lo meno posti in prigioni diverse, per venire in chiaro della veritá. A piú forte ragione dee farlo Polifonte (11). Pure egli non se ne cura, lo dona a Merope; e solo persiste di volerla sua sposa. Con quale oggetto? egli non può piú sperare d’imporre al popolo; ella mostra la sua ripugnanza; e questo matrimonio sforzato è una nuova violenza tirannica, che lo rende maggiormente odioso. Suppongasi che egli voglia far credere di adottar Cresfonte per figlio, e lasciargli il trono. Lo tratterá egli da principe reale? egli ne sará la vittima. Lo fará egli uccidere in qualche modo? ma come non teme il furore del popolo? E se può non temerlo allora, come lo teme adesso, che ha piú ragion di disfarsene finché può credersi un impostore? Tanto piú, ch’ei vede che il nome di Cresfonte non fa una sensazione tanto forte quanto avrebbe potuto temere: anzi Merope sul fine rimprovera ai Messenj la loro taciturna freddezza.
Ma veniamo all’ultimo colpo. Polifonte su la semplice promessa di Polidoro, di cui deve diffidare quanto di Merope, suppone che questa si adatti volentieri al matrimonio. Si prepara a celebrar le nozze alla presenza del popolo. Viene Merope, e con lei Egisto. Ella si protesta ritrosa e disperata: Polifonte perde con ciò tutto il frutto della sua ipocrisia. Merope par cedere a stento: Egisto freme e minaccia. Si noti, ch’egli era prima incatenato; e qui comparisce sciolto, non si sa come. Non ha ferro, ma è noto ch’egli inerme uccise l’assalitore armato. Non può egli rapire un pugnale? perché non si osserva? come non è circondato dalle guardie? La scure è in alto fra le mani del sacerdote: come può Egisto tutto a un tratto strappargliela di mano, e squarciar il capo a Polifonte, senza che alcuno possa avvedersene e impedirlo?
Parmi che il Maffei abbia reso il fatto ben piú credibile. Polifonte è in piena sicurezza, egli crede Cresfonte ucciso, ed Egisto l’uccisore. Egisto è libero, e sconosciuto a tutti, fuorché alla madre, e ai di lei familiari. Merope cede al suo destino, e dá la mano al tiranno. Entra Egisto, come per curiositá; si avanza inosservato: chi potea porvi mente? i domestici del tiranno lo credeano l’uccisore del di lui nemico. Si pianta dietro le spalle di Polifonte: afferra la scure, che non è levata in alto, ma giace fra le patére, e scaglia il gran colpo. In tal guisa il fatto è mirabile, senza aver dello strano. Con tutto ciò egli ha creduto meglio di riferirlo che di farlo vedere; e lo stesso fece Voltaire: nel che parmi che abbiano ben fatto a seguire il precetto d’Orazio. Questi fatti straordinarj e sorprendenti portano sempre seco qualche inverosimiglianza nell’esecuzione, che veduta offende, ma narrata non ferisce; prima per l’affetto tumultuoso della narrazione stessa, che ci trasporta, né ci lascia riflettere alle circostanze; poi perché si suppone, che il relatore agitato e confuso ometta qualche particolaritá, che ne toglierebbe l’inverisimile. L’udito può fare illusione allo spirito, ma non la vista (12).
DELLO STILE
Si è parlato della condotta e dei caratteri: resta a dir qualche cosa dello stile. L’energia e la precisione sono le qualitá predilette del nostro autore, ed egli vi si rende in piú d’un luogo ammirabile. Sarebbe a desiderarsi, che a questi pregi singolari egli aggiungesse quello della naturalezza e fluiditá (13). Varj luoghi sono bensí felicemente e naturalmente scritti e verseggiati; il che mostra che potrebbero esserlo tutti: ma comunemente, rare sono quelle scene, in cui non si trovino delle singolaritá che arrestano spiacevolmente; e tanto piú, perché sembrano dovute all’arte ben piú che alla negligenza. Bando pressoché totale agli articoli; inversioni sforzate; ellipsi strane, e sovente oscure; costruzioni pendenti; strutture aspre; alternative d’íati e d’intoppi; riposi mal collocati; ripetizioni di tu, d’io, di quí, troppo frequenti, per dubitare ch’egli non si sia fatto uno studio di questa foggia di scrivere. La frequenza e la gratuitá basterebbero per fare disapprovar questi modi poco naturali; ma il peggio è, che talora fanno un effetto contrario a quello ch’ei si prefigge, e che sembra esigere il sentimento.
Sarebbe facilissimo il togliere questi nei, senza pregiudicar punto all’energia ch’ei tanto vagheggia. Finch’egli non si risolve a questo sacrifizio, l’Italia non gli renderá mai pienamente quella giustizia che gli è dovuta. Ammiratore come io sono del suo genio drammatico, e zelatore appassionato della sua gloria, io non so cessare di confortarlo a condiscendere al desiderio di chiunque lo stima, in questa parte che è la minima del suo lavoro, ma d’effetto massimo. Si compiaccia di farci l’esperienza d’una delle sue scene cosí come sta, e della medesima ritoccata giudiziosamente; e si determini poi su la diversa impressione degli ascoltanti.