Atto terzo

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Atto secondo
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ATTO TERZO

SCENA I

Camere in cui Temistocle è ristretto.

Temistocle e poi Sebaste.

Temistocle. Oh patria, oh Atene, oh tenerezza, oh nome

per me fatal! Dolce finor mi parve
impiegar le mie cure,
il mio sangue per te. Soffersi in pace
gli sdegni tuoi; peregrinai tranquillo
fra le miserie mie di lido in lido:
ma, per esserti fido,
vedermi astretto a comparire ingrato,
ed a re sí clemente,
che, oltraggiato e potente,
le offese obblia, mi stringe al sen, mi onora,
mi fida il suo poter; perdona, Atene,
soffrir nol so. De’ miei pensieri il nume
sempre sarai, come finor lo fosti;
ma comincio a sentir quanto mi costi.
Sebaste. A te Serse m’invia: come scegliesti,
senz’altro indugio, ei vuol saper. Ti brama
pentito dell’error; lo spera; e dice
che non può figurarsi a questo segno
un Temistocle ingrato.

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Temistocle. Ah! no, tal non son io; lo sanno i numi,

che mi veggono il cor: cosí potesse
vederlo anche il mio re. Guidami, amico,
guidami a lui...
Sebaste.   Non è permesso. O vieni
pronto a giurar su l’ara
odio eterno alla Grecia, o a Serse innanzi
non sperar piú di comparir.
Temistocle.   Né ad altro
prezzo ottener si può che mi rivegga
il mio benefattor?
Sebaste.   No. Giura, e sei
del re l’amor. Ma, se ricusi, io tremo
pensando alla tua sorte. In questo, il sai,
implacabile è Serse.
Temistocle.   (Ah, dunque io deggio
farmi ribelle, o tollerar l’infame
taccia d’ingrato! E non potrò scusarmi
in faccia al mondo, o confessar morendo
gli obblighi miei!) (pensa)
Sebaste.   Risolvi.
Temistocle. (risoluto)  (Eh! usciam da questo
laberinto funesto, e degno il modo
di Temistocle sia.) Va’: si prepari
l’ara, il licor, la sacra tazza e quanto
è necessario al giuramento. Ho scelto:
verrò.
Sebaste.   Contento io volo a Serse.
Temistocle.   Ascolta:
Lisimaco partí?
Sebaste.   Scioglie or dal porto
l’ancore appunto.
Temistocle.   Ah! si trattenga: il bramo
presente a sí grand’atto. Al re ne porta,
Sebaste, i prieghi miei.
Sebaste. Vi sará: tu di Serse arbitro or sei. (parte)

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SCENA II

Temistocle solo.

Sia luminoso il fine

del viver mio: qual moribonda face,
scintillando s’estingua. Olá! custodi,
a me Neocle ed Aspasia. Alfin che mai
esser può questa morte? Un ben? s’affretti.
Un mal? fuggasi presto
dal timor d’aspettarlo,
che è mal peggiore. È della vita indegno
chi a lei pospon la gloria. A ciò che nasce
quella è comun: dell’alme grandi è questa
proprio e privato ben. Tema il suo fato
quel vil, che agli altri oscuro,
che ignoto a sé, morí nascendo e porta
tutto sé nella tomba. Ardito spiri
chi può senza rossore
rammentar come visse, allor che muore.

SCENA III

Neocle, Aspasia e detto.

Neocle. O caro padre!

Aspasia.   O amato
mio genitore!
Neocle.   È dunque ver che a Serse
viver grato eleggesti?
Aspasia.   È dunque vero
che sentisti una volta
pietá di noi, pietá di te?
Temistocle.   Tacete,
e ascoltatemi entrambi. È noto a voi
a qual esatta ubbidienza impegni
un comando paterno?

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Neocle.   È sacro nodo.

Aspasia. È inviolabil legge.
Temistocle.   E ben, v’impongo
celar quanto io dirò, finché l’impresa
risoluta da me non sia matura.
Neocle. Pronto Neocle il promette.
Aspasia.   Aspasia il giura.
Temistocle. Dunque sedete, e di coraggio estremo
date prova in udirmi. (siede)
Neocle.   (Io gelo.)
Aspasia.   (Io tremo.)
  (siedono Neocle ed Aspasia)
Temistocle. L’ultima volta è questa,
figli miei, ch’io vi parlo. Infin ad ora
vissi alla gloria; or, se piú resto in vita,
forse di tante pene
il frutto perderei: morir conviene.
Aspasia. Ah, che dici!
Neocle.   Ah, che pensi!
Temistocle.   È Serse il mio
benefattor; patria la Grecia. A quello
gratitudine io deggio;
a questa fedeltá. Si oppone all’uno
l’altro dovere; e, se di loro un solo
è da me violato,
o ribelle divengo, o sono ingrato.
Entrambi questi orridi nomi io posso
fuggir, morendo. Un violento ho meco
opportuno velen...
Aspasia.   Come! ed a Serse
andar non promettesti?
Temistocle.   E in faccia a lui
l’opra compir si vuol.
Neocle.   Sebaste afferma
che a giurar tu verrai...
Temistocle.   So ch’ei lo crede,

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e mi giova l’error. Con questa speme

Serse m’ascolterá. La Persia io bramo
spettatrice al grand’atto, e di que’ sensi,
che per Serse ed Atene in petto ascondo,
giudice io voglio e testimonio il mondo.
Neocle. (Oh noi perduti!)
Aspasia.   (Oh me dolente!) (piangono)
Temistocle.   Ah, figli,
qual debolezza è questa! A me celate
questo imbelle dolor. D’esservi padre
non mi fate arrossir. Pianger dovreste
s’io morir non sapessi.
Aspasia.   Ah! se tu mori,
noi che farem?
Neocle.   Chi resta a noi?
Temistocle.   Vi resta
della virtú l’amore,
della gloria il desio,
l’assistenza del ciel, l’esempio mio.
Aspasia. Ah! padre...
Temistocle.   Udite. Abbandonarvi io deggio
soli, in mezzo a’ nemici,
in terreno stranier, senza i sostegni
necessari alla vita, e delle umane
instabili vicende
non esperti abbastanza; onde, il preveggo,
molto avrete a soffrir. Siete miei figli:
rammentatelo, e basta. In ogni incontro
mostratevi con l’opre
degni di questo nome. I primi oggetti
sian de’ vostri pensieri
l’onor, la patria e quel dovere a cui
vi chiameran gli dèi. Qualunque sorte
può farvi illustri, e può far uso un’alma
d’ogni nobil suo dono
fra le selve cosí, come sul trono.

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Del nemico destino

non cedete agl’insulti: ogni sventura
insoffribil non dura,
soffribile si vince. Alle bell’opre
vi stimoli la gloria,
non la mercé. Vi faccia orror la colpa,
non il castigo. E, se giammai costretti
vi trovaste dal fato a un atto indegno,
v’è il cammin d’evitarlo: io ve l’insegno.
  (s’alza e s’alzano Neocle e Aspasia)
Neocle. Deh! non lasciarne ancora.
Aspasia.   Ah! padre amato,
dunque mai piú non ti vedrò?
Temistocle.   Tronchiamo
questi congedi estremi. È troppo, o figli,
troppo è tenero il passo: i nostri affetti
potrebbe indebolir. Son padre anch’io,
e sento alfin... Miei cari figli, addio! (gli abbraccia)
          Ah! frenate il pianto imbelle;
     non è ver, non vado a morte;
     vo del fato, delle stelle,
     della sorte — a trionfar.
          Vado il fin de’ giorni miei
     ad ornar di nuovi allori;
     vo di tanti miei sudori
     tutto il frutto a conservar. (parte)

SCENA IV

Aspasia e Neocle.

Aspasia. Neocle!

Neocle.   Aspasia!
Aspasia.   Ove siam?
Neocle.   Quale improvviso
fulmine ci colpí!

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Aspasia.   Miseri! e noi

ora che far dobbiam?
Neocle.   Mostrarci degni
di sí gran genitore. (risoluto) Andiam, germana,
intrepidi a mirarlo
trionfar di se stesso. Il nostro ardire
gli addolcirá la morte.
Aspasia.   Andiam: ti sieguo...
Oh Dio! non posso: il piè mi trema. (siede)
Neocle.   E vuoi
tanto dunque avvilirti?
Aspasia.   E han tanto ancora
valor gli affetti tui?
Neocle. Se manca a me, l’apprenderò da lui.
          Di quella fronte un raggio,
     tinto di morte ancor,
     m’inspirerá coraggio,
     m’insegnerá virtú.
          A dimostrarmi ardito
     m’invita il genitor:
     sieguo il paterno invito
     senza cercar di piú. (parte)

SCENA V

Aspasia sola.

Dunque di me piú forte

il germano sará? Forse non scorre
l’istesso sangue in queste vene? Anch’io
da Temistocle nacqui. (si leva) Ah! sí, rendiamo
gli ultimi a lui pietosi uffizi. In queste
braccia riposi, allor che spira. Imprima
su la gelida destra i baci estremi
l’orfana figlia; e, di sua man chiudendo

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que’ moribondi lumi... Ah, qual funesta

fiera immagine è questa! Aimè, qual gelo
mi ricerca ogni fibra! Andar vorrei,
e vorrei rimaner. D’orrore agghiaccio,
avvampo di rossor. Sento in un punto
e lo sprone ed il fren. Mi struggo in pianto,
nulla risolvo, e perdo il padre intanto.
          Ah! si resti... Onor mi sgrida.
     Ah! si vada... Il piè non osa.
     Che vicenda tormentosa
     di coraggio e di viltá!
          Fate, o dèi, che si divida
     l’alma ormai da questo petto:
     abbastanza io fui l’oggetto
     della vostra crudeltá. (parte)

SCENA VI

Serse, poi Rossane con un foglio.

Serse. Dove il mio duce, il mio

Temistocle dov’è? D’un re che l’ama
non si nieghi agli amplessi.
Rossane.   Io vengo, o Serse,
su l’orme tue.
Serse.   (Che incontro!)
Rossane.   Odimi; e questa
sia pur l’ultima volta.
Serse.   Io so, Rossane,
so che hai sdegno con me; so che vendetta
minacciarmi vorrai...
Rossane.   Sí, vendicarmi
io voglio, è ver: son troppo offesa. Ascolta
la vendetta qual sia. Serse, è in periglio
la tua vita, il tuo scettro. In questo foglio

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un disegno sí rio

leggi, previeni, e ti conserva. Addio.
  (gli dá il foglio, e vuol partire)
Serse. Sentimi, principessa:
lascia che almen del generoso dono...
Rossane. Basta cosí: giá vendicata io sono.
               È dolce vendetta
          d’un’anima offesa
          il farsi difesa
          di chi l’oltraggiò.
               È gioia perfetta,
          che il cor mi ristora
          di quanti finora
          tormenti provò. (parte)

SCENA VII

Serse, poi Sebaste.

Serse. Viene il foglio a Sebaste;

Oronte lo vergò: leggasi... Oh stelle,
che nera infedeltá! Sebaste è dunque
de’ tumulti d’Egitto
l’autore ignoto! Ed al mio fianco intanto,
sí gran zelo fingendo... Eccolo. E come
osa il fellon venirmi innanzi!
Sebaste.   Io vengo
della mia fé, de’ miei sudori, o Serse,
un premio alfine ad implorar.
Serse.   Son grandi,
Sebaste, i merti tuoi,
e puoi tutto sperar. Parla: che vuoi?
Sebaste. Va l’impresa d’Atene
Temistocle a compir; l’altra d’Egitto
finor duce non ha. Di quelle schiere,

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che all’ultima destini,

chiedo il comando.
Serse.   Altro non vuoi?
Sebaste.   Mi basta
poter del zelo mio
darti prove, o signor.
Serse.   Ne ho molte, e questa
è ben degna di te. Ma tu d’Egitto
hai contezza bastante?
Sebaste.   I monti, i fiumi,
le foreste, le vie, quasi potrei
i sassi annoverar.
Serse.   Non basta: è d’uopo
conoscer del tumulto
tutti gli autori.
Sebaste.   Oronte è il solo.
Serse.   Io credo
ch’altri ve n’abbia. Ha questo foglio i nomi:
vedi se a te son noti. (gli dá il foglio)
Sebaste. (lo prende)  E donde avesti...
(Misero me!) (lo riconosce)
Serse. Che fu? Tu sei smarrito!
ti scolori! ammutisci!
Sebaste.   (Ah, son tradito!)
Serse.   Non tremar, vassallo indegno;
     è giá tardo il tuo timore:
     quando ordisti il reo disegno,
     era il tempo di tremar.
          Ma giustissimo consiglio
     è del ciel che un traditore
     mai non vegga il suo periglio,
     che vicino a naufragar. (parte)

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SCENA VIII

Sebaste solo.

Cosí dunque tradisci,

disleal principessa... Ah, folle! ed io
son d’accusarla ardito!
Si lagna un traditor d’esser tradito!
Il meritai. Fuggi, Sebaste... Ah! dove
fuggirò da me stesso? Ah! porto in seno
il carnefice mio. Dovunque io vada,
il terror, lo spavento
seguiran la mia traccia;
la colpa mia mi stará sempre in faccia.
          Aspri rimorsi atroci,
     figli del fallo mio,
     perché sí tardi, oh Dio!
     mi lacerate il cor?
          Perché, funeste voci,
     ch’or mi sgridate appresso,
     perché v’ascolto adesso,
     né v’ascoltai finor? (parte)

SCENA IX

Reggia, ara accesa nel mezzo, e sopra essa la tazza preparata pel giuramento.

Serse, Aspasia e Neocle, satrapi, guardie e popolo.

Serse. Neocle, perché sí mesto? Onde deriva,

bella Aspasia, quel pianto? Allor che il padre
mi giura fé, gemono i figli! È forse

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l’amistá, l’amor mio

un disastro per voi? Parlate.
Neocle ed Aspasia.   Oh Dio!

SCENA X

Rossane, Lisimaco con séguito di greci, e detti.

Rossane. A che, signor, mi chiedi?

Lisimaco. Serse, da me che vuoi?
Serse.   Voglio presenti
Lisimaco e Rossane...
Lisimaco.   I nuovi oltraggi
ad ascoltar d’Atene?
Rossane.   I torti miei
di nuovo a tollerar?
Lisimaco.   D’Aspasia infida
a veder l’incostanza?
Aspasia.   Ah! non è vero;
non affliggermi a torto,
Lisimaco crudele: io son l’istessa.
Perché opprimer tu ancora un’alma oppressa?
Serse. Come! voi siete amanti?
Aspasia.   Ormai sarebbe
vano il negar: troppo giá dissi.
Serse. (ad Aspasia)  E m’offri
tu la tua man?
Aspasia.   D’un genitor la vita
chiedea quel sacrifizio.
Serse. (a Lisimaco)  E del tuo bene
tu perseguiti il padre?
Lisimaco.   Il volle Atene.
Serse. (Oh virtú che innamora!)
Rossane.   Il greco duce
ecco s’appressa.

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Neocle. (guardando il padre) (Aver potessi anch’io

quell’intrepido aspetto!)
Aspasia. (Ah, imbelle cor, come mi tremi in petto!)

SCENA ULTIMA

Temistocle e detti, poi Sebaste in fine.

Serse. Pur, Temistocle, alfine

risolvesti esser mio. Torna agli amplessi
d’un re, che tanto onora... (volendo abbracciarlo)
Temistocle. Ferma. (ritirandosi con rispetto)
Serse.   E perché?
Temistocle.   Non ne son degno ancora.
Degno pria me ne renda
il grand’atto a cui vengo.
Serse.   È giá su l’ara
la necessaria al rito
ricolma tazza. Il domandato adempi
giuramento solenne; e in lui cominci
della Grecia il castigo.
Temistocle.   Esci, o signore,
esci d’inganno. Io di venir promisi,
non di giurar.
Serse.   Ma tu...
Temistocle.   Sentimi, o Serse;
Lisimaco, m’ascolta; udite, o voi
popoli spettatori,
di Temistocle i sensi; e ognun ne sia
testimonio e custode. Il fato avverso
mi vuole ingrato o traditor. Non resta,
fuor di queste due colpe,
arbitrio alla mia scelta,
se non quel della vita,
del ciel libero dono. A conservarmi

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senza delitto altro cammin non veggo

che il cammin della tomba, e quello eleggo.
Lisimaco. (Che ascolto!)
Serse.   (Eterni dèi! )
Temistocle. (trae dal petto il veleno)  Questo, che meco
trassi compagno al doloroso esigilo,
pronto velen l’opra compisca. Il sacro
licor, la sacra tazza (lo lascia cader nella tazza)
ne sian ministri; ed all’offrir di questa
vittima volontaria
di fé, di gratitudine e d’onore
tutti assistan gli dèi.
Aspasia.   (Morir mi sento.)
Serse. (M’occupa lo stupor.)
Temistocle. (a Lisimaco)  Della mia fede
tu, Lisimaco amico,
rassicura la patria, e grazia implora
alle ceneri mie. Tutte perdono
le ingiurie alla fortuna,
se avrò la tomba ove sortii la cuna.

(a Serse) Tu, eccelso re, de’ benefizi tuoi
non ti pentir: ne ritrarrai mercede

dal mondo ammirator. Quella, che intanto
renderti io posso (oh dura sorte!), è solo
confessarli e morir. Numi clementi,
se dell’alme innocenti
gli ultimi voti han qualche dritto in cielo,
voi della vostra Atene
proteggete il destin; prendete in cura
questo re, questo regno; al cor di Serse
per la Grecia inspirate
sensi di pace. Ah! sí, mio re, finisca
il tuo sdegno in un punto e il viver mio.
Figli, amico, signor, popoli, addio! (prende la tazza)
Serse. Ferma! che fai? Non appressar le labbra
alla tazza letal.

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Temistocle.   Perché?

Serse.   Soffrirlo
Serse non debbe.
Temistocle.   E la cagion?
Serse.   Son tante,
che spiegarle non so. (gli leva la tazza)
Temistocle.   Serse, la morte
tôrmi non puoi: l’unico arbitrio è questo
non concesso a’ monarchi.
Serse. (getta la tazza)  Ah! vivi, o grande
onor del secol nostro. Ama, il consento,
ama la patria tua; ne è degna: io stesso
ad amarla incomincio. E chi potrebbe
odiar la produttrice
d’un eroe, qual tu sei, terra felice?
Temistocle. Numi! ed è ver? tant’oltre
può andar la mia speranza?
Serse.   Odi, ed ammira
gl’inaspettati effetti
d’un’emula virtú. Su l’ara istessa,
dove giurar dovevi
tu l’odio eterno, eterna pace io giuro
oggi alla Grecia. Ormai riposi, e debba,
esule generoso,
a sí gran cittadino il suo riposo.
Temistocle. O magnanimo re, qual nuova è questa
arte di trionfar! D’esser sí grandi
è permesso a’ mortali? Oh Grecia! oh Atene!
oh esilio avventuroso!
Aspasia.   Oh dolce istante!
Neocle. Oh lieto dí!
Lisimaco.   Le vostre gare illustri,
anime eccelse, a pubblicar lasciate
ch’io voli in Grecia. Io la prometto grata
a donator sí grande,
a tanto intercessor.

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Sebaste.   De’ falli miei,

signor, chiedo il castigo. Odio una vita,
che a te... (inginocchiandosi)
Serse.   Sorgi, Sebaste: oggi non voglio
respirar che contenti. A te perdono;
in libertá gli affetti
lascio d’Aspasia; e la real mia fede
di Rossane all’amor dono in mercede.
Aspasia. Ah, Lisimaco!
Rossane.   Ah, Serse!
Temistocle.   Amici numi,
deh! fate voi ch’io possa
esser grato al mio re.
Serse.   Da’ numi implora
che ti serbino in vita,
e grato mi sarai. Se con l’esempio
di tua virtú la mia virtude accendi,
piú di quel, ch’io ti do, sempre mi rendi.
Coro.   Quando un’emula l’invita,
     la virtú si fa maggior,
     qual di face a face unita
     si raddoppia lo splendor.

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LICENZA

Signor, non mi difendo: è ver, son reo,

e d’error senza frutto. Udii che, inteso
la dea di Cipro a immaginar, compose
da molte belle una beltá perfetta
greco pittor. M’assicurò, mi piacque,
mi sedusse l’esempio. Anch’io sperai,
le sparse raccogliendo
virtú de’ prischi eroi, di tua grand’alma
formar l’idea nelle mie carte. I fasti
perciò d’Atene e Roma
scorsi, ma invan. Nel cominciar dell’opra
veggo l’error. Non so trovar, fra tanti
e di Roma e d’Atene illustri figli,
virtú finor che a tue virtú somigli.
               Mai non sará felice,
          se i pregi tuoi vuol dir,
          lo sconsigliato ardir
          d’un labbro audace.
               Quel che di te si dice
          tanto non può spiegar,
          che giunga ad uguagliar
          quel che si tace.