Sull'Oceano/L'Oceano giallo
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L’OCEANO GIALLO
Arrivato a questo punto, trovo sulla copertina della carta del Berghaus, sulla quale segnavo ogni giorno qualche ricordo, le parole: 11.° giorno, colpo apoplettico spirituale. E mi riviene in mente un fatto psicologico singolare, che seguì in me quel giorno, e che presto o tardi, in una lunga traversata, segue a tutti, credo, passata che sia la prima novità della vita di bordo. Una bella mattina, al primo salire sul cassero, vi piomba la noia sull’anima, inaspettata, come una mazzata sulla nuca: uno scoloramento improvviso d’ogni cosa, un disgusto inesprimibile di quella vita e di quello spettacolo, il senso di soffocazione di chi, addormentatosi all’aria libera, si svegli con le corde al polsi, sotto la vòlta d’una prigione. In quel momento vi pare di esser per mare da un tempo immemorabile, come i passeggieri del bastimento fantastico di Edgardo Poe, e l’idea di aver da passare ancora due settimane su quelle quattro assi, in mezzo a quel gruppo di moribondi di noia, vi atterrisce. No, non è possibile che vi resistiate, vi piglierà prima d’arrivare qualche strana malattia cerebrale, non ancor conosciuta. Dio eterno! In che maniera liberarsi da quel supplizio! Scrivere! Ma il bastimento, come altri già disse, ferisce lo scrittore in una delle sue facoltà più delicate, che è il senso dell’armonia: il rumor dell’elica gli fa ripeter venti volte in una pagina la stessa parola. Leggere? Ma per obbligarvi a scrivere, appunto, avete cacciato tutti i libri nei bauli destinati alla stiva. Sul serio, voi pensate a pigliare un narcotico, o siete tentati di stordirvi col cognac, o di far l'esperimento, come il genovese, con lo stantuffo della macchina. Oh! poter trovare qualche cosa di nuovo! Cento lire per il Corriere mercantile di questa mattina! Una libbra di sangue per un’isola! Una rivolta a bordo, una tempesta, il mondo a soqquadro, pur di uscire per un giorno da quest’orribile stato! Il mare si mostrava quella mattina in uno dei suoi aspetti più brutti e più odiosi: immobile sotto una vòlta bassa di nuvole gonfie e inerti, di colore giallo sporco, d’un’apparenza viscida, come se fosse tutta una belletta di terra grassa, in cui un rampone da pesca avesse a rimanere confitto come una stecca nel mastice; e pareva che non vi dovessero guizzare dei pesci, ma delle bestie deformi e immonde, del suo suo stesso colore. Un aspetto simile presentano forse le pianure della regione occidentale del Mar Caspio, quando son coperte dallo eruzioni dei vulcani di fango. Se fosse vero che questo immenso mare, salato come il sangue, e dotato d’una circolazione, d’un polso e d’un cuore, non è un elemento inorganico, ma uno smisurato animale vivente e pensante, avrei detto quella mattina ch’egli volgeva in mente i più sconci pensieri, farneticando in uno stato di mezzo assopimento, come un bruto briaco. Ma neanche risvegliava l’idea della vita, poiché non v’era un respiro di vento, e sulla sua faccia non appariva nè una contrazione nè una ruga. Dava l’immagine di quell’angolo d’oceano deserto, rimasto per molto tempo inesplorato, che si stende fra la corrente di Humboldt e quella che le va incontro dal centro del Pacifico, posto fuori delle grandi vie della navigazione, dove non si vede nè vela, nè balena, nè gavotta, nè alcione; dai confini del quale tutto fugge, ogni indizio di vita dispare; e se il vento o la tempesta vi gettano qualche volta un bastimento smarrito, pare ai navigatori di esser caduti nelle acque d’un mondo morto.
Ma fortunatamente questi accessi di noia sono come il dolor di gomiti, terribili, ma brevi. Giovò anche a liberarmene il comandante, che quella mattina, a colazione, era in vena di chiacchierare, e pieno di buon umore, benché trasparisse poco dal suo cipiglio di piccolo Ercole dai peli rossi. Per il solito, quello era il suo miglior momento. Esaminati i calcoli astronomici degli ufficiali, puntata la sua carta, computato il cammino fatto e quello da farsi, se nelle ultime ventiquattr’ore il Galileo avea filato bene, e se non c’erano novità spiacevoli a bordo, egli sedeva a tavola stropicciandosi le mani, e teneva viva la conversazione. Ma pure in quei giorni esordiva con qualche invettiva marinaresca contro i camerieri, così, per abitudine, e per dare un avvertimento salutare. A uno che gli faceva delle scuse, diceva: — Va via, impostò! — A un altro minacciava due maschae (due schiaffi). A un terzo: — Mia, sae, che se començo a giastemmà! (bada, sai, che se comincio a bestemmiare!) E minacciava schiaffi e pedate particolarmente a Ruy-Blas, il quale rispondeva con un finissimo sorriso, come se dicesse: — Infuria, tiranno! Hai la potenza, ma non l’amore. — Veramente, per una tavola dove c’eran signore, quel linguaggio era un po’ troppo....colorito. Ma noi scusavamo, pensando ai molti comandanti d’altre nazioni, che son perfetti gentiluomini a tavola, e beoni furiosi in camerino, e ci pareva che, trattandosi d’affidar la vita a qualcuno, fosse preferibile un rusticone temperante a un gentiluomo briaco.
Quella mattina, come sempre, diede una presa di mascalzone a destra e una presa di porco a sinistra, e poi cominciò a mangiare e a discorrere lentamente. Ricordo quella conversazione, tutta di carattere marino schietto, per la crudele tortura a cui mise il povero avvocato mio vicino. Fu prima la signora grassa, la supposta domatrice di belve, la quale mise il discorso sopra una brutta via, domandando al comandante, con una mancanza d’opportunità che tradiva la Chartreuse mattutina, quale fosse la cagione più frequente dei naufragi. Il comandante, con la bocca piena di pane, rispose che si contavano cinquanta e più maniere di naufragio: scoppi di caldaia, incendi, vie d’acqua, uragani, cicloni, tifoni, rocce, banchi di fondo, abbordi e via dicendo. Metà dei naufragi, peraltro, si poteva affermare che derivassero da ignoranza professionale, da imprevidenza, da trascuratezza, da difetti di costruzione dei legni; insomma da cause evitabili. Un anno sull’altro, seguivano da sei mila naufragi, tra bastimenti e barche; e, scià notte, non comprendendo nella statistica la China, il Giappone e la Malesia.
L’avvocato, fin dalle prime parole, s’era rannuvolato, e faceva mostra di non ascoltare; ma si vedeva che una curiosità malata lo costringeva a prestar orecchio. E fu peggio quando la signora, con uno di quei salti che fan le donne nella conversazione, usci a domandare al comandante che cosa credeva che si provasse, che si vedesse, quando s’andava giù, sotto l’acqua.
— Cose se prœuva, — rispose il Comandante. — no savieivo. Cosa si vede.... Ecco. Per un certo tratto si vede ancora la luce, una luce velata, livida; poi... si è come in un chiarore crepuscolare, dicono, di un color rosso.... sinistro; e poi.... buona notte: un’oscurità completa, una grande diminuzione di temperatura, fino a zero gradi. Si gela. Però — soggiunse, rivolgendosi all’avvocato, come se dicesse per consolarlo, - può anch’essere che non ci sia oscurità assoluta, si possono dare degli accidenti di fosforescenza...poco allegri, in ogni caso.
L’avvocato cominciava a dar dei segni d’impazienza, brontolando: — Discorsi da farsi a bordo... vo’ via da tavola, io.... educazione di villan cornuti...
Allora il vecchio chileno, il genovese monocolo e il comandante cominciarono a citare e a descrivere naufragi celebri, l’uno più orrendo dell’altro, con quell’indifferenza per la morte che suole scender nell’anima per il canale cibario, quando si siede a una buona tavola; e vennero su su dalla zattera famosa della Medusa fino all’Atlas, sparito tra Marsiglia ed Algeri senza che se ne sia mai saputo notizia. Il comandante ricordò i piroscafi inglesi Nautilus, Newton-Colville e un altro, partiti da Danzica per l’Inghilterra nel dicembre del 1866, e svaniti come tre ombre, senza che si sia mai saputo nè dove, nè quando, nè come.
L’avvocato smise di mangiare.
Ma il comandante continuò. Con l’eloquenza che spiegan tutti parlando d’un fatto in cui rischiaron la vita, si mise a descrivere una tempesta spaventevole che l’aveva colto sulle coste d’Inghilterra, quando comandava ancora un bastimento a vela, e arrivato al momento supremo, imitò con una nota di testa, ma con grande verosimiglianza, il grido lungo e disperato che aveva messo il timoniere: — Andemmo a fooooooondo!
A quelle parole l’avvocato s’alzò, e sbattuto il tovagliolo sulla tavola, se n’andò a passi concitati, masticando degli accidenti, che guai se n’arrivava uno al suo indirizzo. Ma siccome gli seguiva spesso d’alzarsi prima degli altri, il comandante non ci badò, per fortuna. Povero avvocato! Non era ancora uscito che si cambiò discorso ex abrupto, come se fino allora non si fosse parlato che per far dispetto a lui. Prese la parola il comandante, e cominciò a dare alla conversazione quel colorito vario e stranissimo e quell’andamento matto, che le può dare solamente il comandante d’uno di quei piroscafi transatlantici, per il quale i luoghi lontanissimi che egli tocca, e in cui vive tutta la sua vita, sono come uniti e confusi in un solo, sempre e lutto presente al suo pensiero. Dall’ultima rappresentazione del Fra Diavolo al Paganini di Genova saltò a una quistione che aveva avuto il mese avanti a San Vincenzo del Capo Verde con la negra dalle mammelle caprine, che fabbricava fiori di penne d’uccello; attaccò non so che avventura domestica del provveditore di carbone di Gibilterra con un pettegolezzo del porto di Rio Janeiro; e da una colazione a cui era stato invitato a Las Palmas, nelle isole Canarie, cascò addosso a un impiegato imbroglione della dogana di Montevideo. A me pareva di sentir parlare un uomo miracoloso che vivesse ad un punto in tre continenti, e per cui lo spazio ed il tempo non esistessero. E notai che le persone con le quali aveva che fare nei porti dei suoi tre mondi, erano le sole che rimanessero fisse e distinte nel suo pensiero; e che quell'altre innumerevoli che egli imbarcava e sbarcava di continuo, passavan per la sua mente come per il suo piroscafo, senza lasciarvi altra traccia che una reminiscenza sbiadita. E poi, una conoscenza sui generis dei vari paesi, come si può acquistare a guardarli di sull’uscio: aveva sulla punta delle dita, per esempio, i prezzi del mercato dei legumi, e quasi nessuna idea della storia e della forma di governo. E così delle varie lingue, non possedeva che i sostantivi e i verbi d’una certa categoria, le monete di rame, per dir così, della conversazione, e una grammatica sola per tutte. E nel giudicare le cose del mondo, una certa ingenuità di collegiale adulto, che va in società una volta al mese; cognizioni e opinioni fuor dell’uso, poste a una gran distanza le une dalle altre, e d’una faccia sola, appunto come le città a cui egli approdava, di cui non vedeva che il panorama marino. L’ultimo suo aneddoto fu una lite attaccata nel 1868 con un sensale di grano di Odessa, e risolta, secondo il solito, con una generosa elargizione di briscole, — delle sue. — E ghe n’ho dæte! — E glie n’ho date! disse. Poi finì, parlando soltanto ai suoi vicini, con un elogio serio e ragionato di sua moglie, una donna economica, casalinga, piena di buon senso, che egli avrebbe voluto aver incontrata e sposata dieci anni prima.
Alzatosi da tavola, si fermò all’uscita del salone, come soleva fare quand’era contento di sé, per veder sfilare i passeggieri, a cui faceva un leggiero cenno di saluto, con un aspetto di gravità benigna. Stando vicino a lui, colsi a volo uno sguardo severo che lanciò alla signora bionda, il cui contegno pareva che cominciasse a urtare i suoi principii rigorosi di moralità marittima, e forse più in quel momento, ch’era ancora caldo dell’apologia di sua moglie. Ma la signora passò ridendo, senz’avvedersene. Quasi nello stesso tempo rimasi stupito di vedergli alzare il berretto e fare un mezzo inchino, in aria di grande rispetto, alla signorina di Mestre, che passava a braccetto con la zia. Quando fu passata, egli si voltò a’ vicini, e disse gravemente: — Quella figgia lì...a l’è un angeo.
Il caldo essendo forte a quell’ora, quasi tutti rimasero lungo tempo sul cassero, all’ombra della tenda: ed io ebbi modo d’osservare meglio che la sera innanzi i cambiamenti che s’erano fatti in quegli ultimi giorni nelle relazioni tra i passeggieri. Un’amenità! Persone che nella prima settimana avevan dato segno di non potersi patire, erano stretti ora in una conversazione che pareva amichevole; altre che da principio eran come cucite l’una all’altra, ora sembrava che si scansassero con ripugnanza. Una lunga navigazione è come una breve esistenza a parte, nella quale le amicizie nascono, maturano e cadono con la stessa rapidità con cui s’avvicendano le stagioni sul piroscafo, dove si passa in tre settimane dalla primavera all’autunno. La certezza di separarsi all’arrivo per non più rivedersi, incoraggia alle confidenze, e fa piantare senza complimenti i nuovi amici al primo screzio; e la facilità di farsi passare per diversi o da più di quello che siamo è insieme uno stimolo a cercare amicizie, e una cagione di altrettante rotture, perchè facendo ognuno con noi il gioco medesimo, appena scopriamo la truffa, è finita. Per queste ragioni le amicizie, a bordo, ballano la contraddanza. E poi non c’è cosa che faccia commettere tante piccole viltà come la noia. Il decimo giorno, piuttosto che annoiarsi, alcuni vanno ad accattare umilmente la conversazione di certi tali, che hanno offesi fino alla sera innanzi con una manifestazione evidentissima di antipatia. Vidi fra le altre coppie nuove il prete napoletano che passeggiava con un giovane argentino, il quale era stato fino allora uno dei suoi più impertinenti e patenti canzonatori, e che ora stava a sentire con visibile deferenza le sue dissertazioni sopra las emisiones fiduciarias y de numerario di non so che istituzione finanziaria di Buenos Ayres; e dall’altra parte del cassero quel pidocchio riunto del mugnaio, che s’era appiccicato non so come al vecchio chileno, con cui si lagnava a voce alta della falta de limpiesa (mancanza di pulizia) dei piroscafi italiani, senza vedere sulla sua faccia severa un’espressione di nausea, che annunziava un’imminente voltata di schiena. Ma la gran novità era dietro al timone: il marito della signora svizzera in colloquio per la prima volta col deputato argentino, a cui pareva che spiegasse il meccanismo del solcometro; ed era comicissima la profonda attenzione che questi fingeva di prestargli, volgendo però lo sguardo di tratto in tratto, con un giro lento del capo, verso l’antica violatrice del suo domicilio, la quale passeggiava fra il toscano imbronciato e il tenore radiante, tutta vezzi e sorrisi, ma con l’occhio attento agli altri due: stupita, si capiva, e contenta di quel riavvicinamento inaspettato. Andando in su e in giù, essa passava davanti alla piccola pianista, seduta da un lato; e questa l’avvolgeva ogni volta con uno sguardo di sotto in su, lungo e profondo, in cui balenavano la curiosità e l’invidia sensuale, e ogni sorta d’appetiti compressi di piccola belva in catene; dopo di che il suo viso ripigliava la solita espressione di impassibilità monacale. Sua madre, intanto, che stava seduta fra lei e la signora della spazzola, andava facendo a brani con gli occhi e con la lingua un nuovo vestito lilla della sposa, un po’ infagottata, veramente; la quale le voltava le spalle, stretta al braccio dello sposo, e ferma in piedi con lui davanti alla “ domatrice„ che pareva li stuzzicasse con degli scherzi imbarazzanti, cullando sopra una poltrona a bilico la sua mal dissimulata sbornietta d’estratti d’erba. E ogni cosa dominava col suo sguardo acuto di poliziotto l’agente di cambio, appoggiato all’albero di mezzana, con le braccia incrociate sul petto, nell’atto d’un uomo che aspetta un avvenimento. Tutti gli altri, ritti o seduti a due a due, discorrevano alla stracca, tirando sbadigli a canto fermo; e il mar giallo e flaccido faceva degno fondo a tutte quelle facce pettegole e sonnolente. Tra i moltissimi quadretti, cancellati gli uni dagli altri, che presentò il cassero durante il viaggio, non so perchè, mi rimase vivo nella memoria, dipinto a color di mota, quello di quel giorno e di quel momento.
A un dato punto, il quadro prese vita, e la pittura si cangiò in scena di commedia. Il toscano piantò la compagnia, quasi bruscamente, e se n’andò difilato verso prua, con un disegno sul viso, come di rappresaglia amorosa; e un minuto dopo la signora svizzera e il tenore si separarono: questi si mise a seder in disparte e finse di leggere un libro; quella si diresse verso il marito, da cui l’argentino s’allontanò subito, facendo a lei un saluto diplomatico. L’agente di cambio mi comparve accanto, come una larva. — Stia a vedere — mi disse — una bell’operazione di strategia di bordo. Lei che scrive deve osservar queste cose. Il toscano s’è ritirato dal combattimento. Il tenore sta in riserva. La signora eseguisce una finta manovra in faccia al nemico. Oh perdio! Me l’han fatta ieri; non me la faranno più oggi. — In fatti la signora faceva mille moine al marito, gl’infilava il braccio sotto il braccio, gli parlava nell’orecchio, pareva che gli domandasse delle spiegazioni intorno al solcometro, lì la faccia del capelluto professore era maravigliosa: rivelava un intero sistema di filosofia, che doveva essere antico in lui: egli socchiudeva gli occhi, come un gatto che s’appisola, e torceva tutto il viso da una parte, mostrando la punta della lingua, con una smorfia indicibilmente lepida; la quale però lasciava trapelare una certa intenzione astuta di canzonatura, come se in cuor suo egli ridesse di lei, di sé, dell’altro, degli altri, del mondo intero. Intanto il tenore era scomparso. E la signora si passava una mano sugli occhi e copriva col ventaglio dei piccoli sbadigli poco spontanei, come per mostrare che aveva voglia d’andar a dormire — Attenti! — disse l’agente. — Ora vien la mossa decisiva — Non lo aveva anche detto, che la signora s’era staccata dal marito, e lentamente, facendo un visetto insonnito, attraversava il cassero, per discendere. — Eh! — sclamò l'agente; — il momento è ben scelto. Non c’è un cane di sicuro dentro a quei forni di sotto... Ma c’è la giustizia di Dio! — E scappò sotto egli pure. Non una di queste mosse era sfuggita a quel serpente a sonagli della madre della pianista, la quale bisbigliava le sue osservazioni alla sua vicina, la signora della spazzola; e tutt’e due, mandando scintille dagli occhi, s’alzarono a un punto solo, e si mossero... Ma era inutile. La svizzerella tornava su, velando la stizza col suo bel sorriso, e tenendo un libro fra lo mani, come se fosse scesa per pigliar quello; e due minuti dopo, dall’altra scala, ricompariva il tenore, solfeggiando e guardando il mare, con un’affettazione di indifferenza che tradiva una rabbia canina. A pochi passi dietro di lui veniva innanzi l’agente, felice, che mi fece di lontano un cenno della mano aperta, col pollice al naso. Il tenore s’avvicinò a me, e mi disse: — Bel mare, eh?
Il mare era orribile; ma lui un originale divertentissimo. Avevo fatto la sua conoscenza alla latitudine delle isole Canarie, e parlato con lui due o tre volte, la sera. Era sui trentacinque, ma d’aspetto più giovane: un viso di primo lavorante sarto, con due baffetti biondi arricciati all’insù, e due occhi che dicevano continuamente: — Sono io! — : pronuncia di maniera, passo da conte d’Almaviva, vestito dei fratelli Bocconi. Egli guardava l’orizzonte con aria trionfante come se l’oceano atlantico fosse un’immensa platea che lo chiamasse alla ribalta. E trinciava di geografia, di letteratura, d’arte, di politica, con una certa disinvoltura volpina, andando sempre lì lì per dire uno strafalcione, ma ritenendosi sempre in tempo, dopo aver dato un’occhiata diffidente al conlocutore. In letteratura e in politica usava d’un artifizio curioso. Tutt’a un tratto, senza alcun appiglio con la conversazione, esclamava solennemente, con l’occhio fisso all’orizzonte: — Guglielmo Shakspeare!, — e si passava una mano sulla fronte, come se seguisse il corso d’una meditazione muta; ma niente: non era altro che un nome che gli veniva su, come una bolla d’aria. Oppure, cadendo il discorso sopra un personaggio storico, su Napoleone I, per esempio: — Ah! — sclamava, torcendo il viso; — non mi parli di Napoleone I, per l’amor del cielo! — come se avesse intorno a quell’argomento un gran tesoro di idee proprie, immutabili, sulle quali non potesse nemmeno ammettere la discussione. E non gli si cavava una parola di più. Infine, per riassumere tutto il vasto sistema delle sue idee e delle sue simpatie intellettuali, soleva dire: — Io tengo sempre tre libri sul tavolino da notte: Dante, il Fausto e... — La prima volta disse la Bibbia; ma poi se ne scordò, e un altro giorno disse invece: I misteri del popolo di Eugenio Sue. Sul piroscafo, peraltro, io non gli vidi mai altro in mano che Gli amori dell'imperatrice Eugenia. Un ultimo tratto. Diceva d’essere stato volontario con Garibaldi; ma quando il discorso cadeva sui fatti, non accennava mai ad alcuna campagna particolare, parlava di quelle guerre con una certa indeterminatezza vaporosa, come di avvenimenti dell’antichità più remota, appartenenti quasi all’età delle favole. In fondo, un umore gioviale. Non s’inaspriva che parlando di un certo impresario di Bologna, che pareva fosse l’odio della sua vita, e ripeteva sempre la stessa frase: — Gli farò sputare il cuore. — Lui intanto, quel giorno, aveva sputato la voglia. Passate le due il cassero si sgombrava. Il tenore scendeva nel salone a canterellare sul pianoforte, il professore andava sul castello centrale a dar lezioni di varia scienza al basso popolo, gli argentini a giocare alle carte, gli altri a fare il bagno, a dormire, a scrivere o a rilisciarsi. Io seguitai quel giorno la signorina di Mestre che andava con la zia a fare la visita solita alla sua famiglia emigrante, col solito pacco di frutta e di dolci. Fin dai primi passi che fece a prua, potei notare quanto fosse già andata innanzi nella simpatia di tutta quella gente. Al suo apparire, anche i contadini più rozzi si scansavano, e tutti guardavano attentamente le vene azzurre di quel collo sottile, quelle mani gracili, quella grossa croce nera spiccante sul vestito color verdemare, che non disegnava alcuna curva, e pure aveva la sua grazia. Neanche sulla faccia delle donne più maldicenti e più ardite, che parlavan di lei dietro le sue spalle, non si vedeva l’ombra d’un pensiero maligno. E non era rispetto per la signora; ma per la triste sentenza che le vedeano scritta sul viso, e per la dolce rassegnazione con cui essa mostrava di portarla, senza nulla aver perduto della bontà e della gentilezza giovanile che nascon dall’amor felice della vita. Una parola che intesi mormorare sul suo passaggio mi fece tremar per lei, se l’avesse intesa: — Ecco la tisica. — Ma non l’intese. Dei ragazzi le andavano incontro, ed essa dava loro delle mandorle e dell’uva secca, carezzandoli sulle guance. A un certo punto, un emigrante avendole messo il piede sullo strascico, per inavvertenza, le si staccò il vestito sul fianco, e scoprì un palmo di sottana bianca. Mentre si raggiustava, le si avvicinò il dottore, e tutt’e tre discesero nell’infermeria.
Discesi dietro a loro. Andavano a visitare il vecchio contadino piemontese, malato di polmonite.
Il pover uomo era assai peggiorato. Coricato là nella sua cuccetta scura, con la barba grigia lunga, che lo faceva parere anche più scarno, aveva l’aspetto d’un morto disteso dentro una cassa, a cui fosse stata levata un’asse da un lato. All’apparire della signorina, che doveva aver già veduta più volte, fece quella contrazione della bocca, che annunzia il pianto nei bambini e nei malati sfiniti. E disse, con un nodo nella gola:
— A’m rincress per me’ fieul!
M’accorsi che quelle parole diedero una stretta all’anima alla ragazza; la quale rispose subito, con voce alterata, ma fingendo franchezza: — Ma no, ma no. Che cosa dite? Rivedrete il vostro figliuolo. Oggi avete miglior cera. Badate bene di non perdere l’indirizzo. Dove l’avete messo?... (L’aveva nella giacchetta, ai piedi del letto). Sta bene. Il dottore ci farà attenzione. Volete che lo conservi io? che ve lo renda poi quando sarete guarito, all’arrivo? L’ho da pigliare?
Il vecchio accennò di sì. Essa si chinò, frugò nella giacchetta, tirò fuori il piccolo pacco, trovò il foglio che conosceva, e lo piegò con grande riguardo in un bel portafoglio di bulgaro, che richiuse e rimise in tasca. Il malato osservò con molta attenzione e con compiacenza tutti quei movimenti, e mormorò con un fil di voce:
— A l’è trop grassiosa, trop grassiosa....
— Fatevi coraggio, — essa gli disse, porgendogli la mano, — ripasserò presto. A rivederci. Coraggio.
Il vecchio le prese la mano, gliela baciò due o tre volte, versando due grosse lagrime, e l’accompagnò con lo sguardo fino all’uscio: poi lasciò ricadere il capo sul cuscino con un atto di profondo abbandono, come se non dovesse rialzarlo mai più. La ragazza risalì con la zia sopra coperta, e s’avvicinò alla sua famiglia di contadini, rincantucciata nel posto solito, fra la stia dei tacchini e la botte, come una nidiata d’uccelli. Ma avevan già dato a quel guscio di noce una cert'aria di casa, appendendo alla botte uno specchietto rotondo, e tendendo in alto un asciugamani che li riparava dal sole. La testa d’uno dei gemelli, seduto sul tavolato, serviva d’appoggiatoio alle mani del contadino, e la zucca dell’altro stava curva sotto un resto di pettine fitto, maneggiato dalla mamma, più rotondeggiante che mai; mentre la ragazzina lavava un fazzoletto dentro a un tegamino, posto sopra una valigia scorticata, che faceva da tavolo da lavoro. All’avvicinarsi della signorina, il padre s’alzò, levandosi la pipa di bocca, e tutte e sei le facce sorrisero. Intesi qualche parola, passando.
— Sempre ben?
— Come Dio vol, — rispose il contadino. — Ma la ga paura che ghe succeda prima de arivar.
E allora la donna, col viso inquieto: — Crede ela, paronçina, che i ghe farà pagar anca a lù, el cuarto de posto?
La domanda doveva essere molto comica perchè per la prima volta vidi la ragazza sorridere. Ma fu come un lampo. Fece cenno di no col capo, — che non credeva, — e si levò di tasca un fazzoletto da collo di lana rossa, che mise in mano alla bimba, dicendo: — Ciapa, vissare, ti te lo mettarà de sto inverno... quando mi...
Ma che diamine seguiva per aria? In pochi minuti s’era oscurato il cielo; le nuvole scendevano fin quasi a toccar le cime degli alberi, pareva che fosse calata la sera tutt’ad un tratto. Dai due lati del piroscafo, ravvolto in una nebbia umida, non si vedeva più che un brevissimo spazio di mare grigio e gonfio, che cominciava a farci rullare fortemente, buttando spruzzi in coperta da tutte le parti. I più credettero a una burrasca. L’ufficiale di guardia gridò dal palco di comando: — Un piovasco! Dentro tutti! — Ma appena aveva detto l’ultima parola, che uno scroscio d’acqua violentissimo ci cadde addosso, un vero rovesciamento di catinelle, che inondò la coperta in un attimo; e allora fu una fuga pazza di tutti verso i passaggi coperti e sotto il castello di prua, uno strillar di donne, un saltar disperato a traverso ai rigagnoli, agli schizzi, alle ondate, e un ruzzolare precipitoso per le scalette dei dormitorii, da parer che andasse in sconquasso il bastimento. Ma le porte dei dormitorii essendo strette, vi si formaron davanti degli affollamenti, e ne nacquero rabbiose lotte di precedenza a gomitate e a fiancate, e uno scatenio di sacrati e di grida, sotto la furia crescente dell’acquazzone che inzuppava cappelli, trecce e giacchette, strepitando sulle vetrate e sui ponti, schiaffeggiando e lustrando ogni cosa. Quella confusione d’inferno mi fece pensare con spavento a che cosa sarebbe accaduto in un momento di pericolo. Non era altro che il primo saluto che ci mandava la zona torrida, la grande innaffiatrice del mondo, nel cui regno navigavamo da due giorni. E non durò che pochi minuti. La vôlta cupa delle nuvole si alzò, e rompendosi in vari punti come in tanti finestroni, lasciò cadere sulle acque ancora oscure qua e là e percosse da fasci di pioggia, una varietà non mai veduta di macchie di luce e di riflessi lividi, bianchi, verdi, dorati, che diedero all’oceano l’apparenza di molti mari congiunti, di cui ciascuno fosse rischiarato da un astro diverso: l’immagine strana e triste di un mondo in cui principiasse il disordine della fine.