Un’osservazione appunto mi veniva fatta ogni giorno, passando di là: quella macchina meravigliosa, non dieci forse dei mille e settecento passeggieri del Galileo sarebbero stati in grado di dire che cosa fosse, e neppure avevan curiosità di saperlo. Così di cento altri miracoli meccanici dell’ingegno umano, dei quali ci serviamo o andiamo alteri, noi siamo poco meno ignoranti dei selvaggi che disprezziamo perchè li ignorano. Eppure non solamente per l’ignorante che non n’ha altra idea da quella d’un pentolone gigantesco e d’un intrico misterioso di ruote, ma anche per chi ne acquistò qualche nozione nei libri, è un piacere nuovo e grande la prima volta che si decide a infilare il camiciotto turchino d’un macchinista e a discendere in quell’inferno tenebroso e sonoro, di cui non aveva mai visto che il fumo per aria. Quando s’è arrivati in fondo e si leva il capo a guardare in su, dove non appare più il giorno che come un barlume, ci pare d’essere calati dal tetto giù fra le fondamenta d’un alto edilizio; e alla vista di tutte quelle scalette di ferro ripidissime che s’alzano l’una sull’altra, di quelle griglie orizzontali che girano sul nostro capo, di quella varietà di cilindri, di tubi colossali e d’ordigni d’ogni fatta, agitati da una vita furiosa, formanti