Storia di Torino (vol 2)/Libro V/Capo I
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Libro Quinto
Capo Primo
Nel 1376 Giovanni di Rivalta facendo la visita di quel monastero, die’ varii provvedimenti che dimostrano quanto ne fosse sciolta la disciplina. Imperocché ordinò, a pena di scomunica, alla badessa Agnesina che tenesse il monastero chiuso, ne permettesse ad alcun laico l’ingresso; che andando laico o religioso a parlar con monache, essa disponesse che parlassero alla porta o alla finestra, e fossero sempre in due; che se alcun giovane laico andasse per parlare con una monaca, essa badessa in termine di quattro giorni lo facesse sapere al vescovo; finalmente ordinò che tutte le monache dormissero nel dormitorio, eccettuata la badessa e la signora Lionetta.1
Queste monache non aveano clausura, ed uscivano liberamente per la città; e però si ha memoria d’un Giovanni Mussato, condannato in sette fiorini d’oro e mezzo di multa, per aver fatto cadere maliziosamente suor Alessina degli Aimari, monaca del monastero di San Pietro2 (1385).
Erano queste monache per lo più d’illustri natali. Due priorati dipendeano dal monastero, ed aveano ciascuno una monaca deputata a governarlo. Nel 1387 Catterina della Rovere era priora di Scarnafìggi; Isabella Provana, priora di Macello.3
Nel 1560 erano le monache di San Pietro ridotto al numero di tre, quando Pio iv le unì al nuovo monastero delle Canonichesse Laterancnsi di Santa Croce, le quali in memoria di tale unione posero un altare dedicato a S. Pietro nella loro chiesa.
Nel 1535 Beatrisina Romagnano, desiderosa che s’introducesse a Torino l’ordine delle Canonichesse Lateranensi, avea ceduto a questo fine una casa posta nel sito dove ora sorge la chiesa della Misericordia, e dove l’anno seguente vennero dal monastero della Annunziata di Vercelli donna Desideria Taglienti e due compagne. Chiamossi quel monastero, Monastero di Santa Croce, e la chiesa s’intitolò di Nostra Signora di Misericordia.
Nel 1549 ne fu benedetta badessa Laura di Saluzzo; le fanciulle di non chiari natali non v’entravano, perchè, secondo l’errore di que’ tempi, nel consecrarsi a Dio si pensavano di poter transigere co’ pregiudicii mondani, e d’esser tenute da più, quando aveano per compagne nel servigio di Dio fanciulle di pari grado; il che forse anche principalmente faceano, perchè tra donne pressoché uguali di nascita e d’educazione riputavano più agevole il mantenimento della pace e dell’amorevolezza. Nel 1558 la chiesa della Misericordia fu consecrata da Andrea de Montedei, vescovo di Nicomedia, suffragalo di Cesare Cibo, arcivescovo di Torino. Ma per essere il sito ove abitavano presso le mura angusto e malsano, le Canonichesse Lateranensi si trasferirono verso al 1684 nel nuovo monastero di piazza Carlina. L’antica loro chiesa della Misericordia fu poi venduta alla confraternita di S. Giovanni decollato, posta similmente sotto la protezione di Nostra Signora di Misericordia l’anno 1720.
Le monache di Santa Croce tenevano educande. Fin dal 1586 si trova memoria di somme pagate a suor Maria de Gagliardi, badessa, in acconto delle donzene fatte alle figliuole che d’ordine di S. A. tengono nel detto monastero. Tra queste figliuole mantenute nel monastero dalla liberalità del principe trovasi nel 1590 mentovata Anna detta di Racconigi, che probabilmente era del sangue di Bernardino di Savoia, signore di quel luogo.4
Questo monastero e quello di Santa Chiara erano i soli luoghi in cui si curasse allora in Torino l’educazion femminile, tanto importante e tanto negletta.
La confraternita della Misericordia, una delle più benemerite per l’amministrazione delle carceri che le venne affidata, per le pietose assistenze che usa ai carcerati, pe’ soccorsi che dispensa, e finalmente per l’antico suo instituto dello assistere i condannati all’estremo supplizio, ebbe cominciamento in marzo del 1578.
Ne’ primi giorni di quel mese Michele Zuccato, Andrea de’ Millani, Marc’Antonio Spana, Fabrizio Bonanome e varii altri impetrarono dall’arcivescovo, e poi dal duca Emmanuele Filiberto, licenza di fare una- nuova compagnia di disciplinanti nella chiesa dei Ss. Simone e Giuda, sotto al titolo di S. Giovanni Battista decollato. Nell’anno seguente papa Gregorio xiii ne privilegiava i confratelli d’ambo i sessi d’indulgenza plenaria, nell’ingresso, in punto di morte, nel giorno della decollazione di S. Giovanni Battista, ed in altre occasioni specificate nella bolla.
Nel 1580, in seguito a convenzione del 9 di febbraio di quell’anno co’ frati di Sant’Antonio, passò alla chiesa di San Dalmazzo, ove alzò un oratorio in fondo alla chiesa, e costrusse allato alla medesima, verso ponente, una cappella dove si seppellivano i giustiziati; mentre il sepolcro de’ confratelli era apparecchiato innanzi all’altar maggiore.
Nel 1581 la compagnia di S. Giovanni decollato, detta della Misericordia, venne aggregata all’arciconfraternita dello stesso titolo della nazione fiorentina stabilita in Roma,5 a mediazione d’Ottavio Santacroce, vescovo di Cervia, e di Bernardo Aldobrandino. Nell’anno medesimo, a’ 10 di luglio, la confraternita della Misericordia ottenne da Carlo Emmanuele i la facoltà di liberare un condannato a morte od a galera, ovvero un bandito, purché non reo di maestà, nè di falsa moneta, nè d’assassinio, nè di falsa testimonianza. Più tardi ebbe privilegio d’altre nomine fino al numero di tre all’anno; ed ogni utile se ne ritraesse, si convertiva in sollievo de’ carcerati.
Quando godeva di tal facoltà, recavasi la compagnia la vigilia di S.Giovanni decollato processionalmenle alle carceri, dove le veniva consegnato il reo. La compagnia lo vestiva d’un abito di zendado rosso, lo coronava di lauro, gli poneva in mano un ramoscello d’ulivo in segno di vittoria e pace; e quindi, postolo in mezzo al priore ed al sottopriore, lo accompagnava al suono di festivi stromenti, e cantando il Te Deum, al Duomo, donde riconducevalo alla chiesa di San Dalmazzo, nella quale si cantava una messa coll’applicazione del sacrifizio per la Real Casa di Savoia. Finita la messa, il reo se ne partiva dopo d’aver offerto l’elemosina convenuta, e trovavasi restituito nella libertà, ne’ beni, nell’onore e nella fama antica,6 seppure alcuna persona al mondo può rendere l’onore e la fama una volta perduta; se pure l’opinione pubblica si può cambiare con un rescritto. È noto che Benvenuto Cellini trovò in Roma la stessa via di salvarsi dalla pena incorsa per un omicidio; e lo narra ei medesimo in quella sua vita, che sarà un perpetuo e sicuro modello di lingua e di stile per l’aurea sua scioltezza e semplicità, e che raccomando singolarmente ai giovani, perchè serve di correttivo a quella tendenza che la foga dell’imaginazione induce allo stile gonfio e ridondante, uno dei soliti peccati dell’età più verde.
La sublime missione di carità che esercita questa Compagnia, ed il modo con cui costantemente l’esercitò, invitarono in ogni tempo uomini distinti per nascita, per uffizi, per ingegno a farvisi aggregare. A’ tempi di Carlo Emmanuele e di Vittorio Amedeo i, quando più bollivano le discordie d’essa Compagnia co’ Barnabiti, che voleano allontanarla dalla loro chiesa, intervenne più volte in suo favore la mediazione della piissima infanta Catterina di Savoia onde potesse celebrare liberamente in San Dalmazzo la festa di S. Giovanni decollato. La principessa Ludovica di Savoia ne fu consorella; ed in molte occasioni i nostri principi v’esercitarono il primario ufficio di priore o governatore.
Nel 1695 era priore l’abate don Giovanni Battista Isnardi de Castello, cavaliere dell’Annunziata. Sosteneano l’ufficio di consiglieri l’abate don Carlo Tommaso Ludovico Maillard de Tournon, poi cardinale, quel medesimo che fu così celebre per la sua legazione alla Cina e per le persecuzioni che vi patì; l’abate don Francesco Canalis di Cumiana, il marchese Giambattista Ripa di Meana, il mastro auditore Paolo del Ponte, il conte Giovanni Antonio Frichignono di Castellengo, il conte Giuseppe Antonio Gastaldi, il cavaliere don Giovanni Lorenzo Arpino.
Due anni dopo era priore il conte e cavaliere di gran croce don Ludovico Solaro di Moretta, quando per decreto della sacra congregazione de’ vescovi e regolari la confraternita fu obbligata ad uscir dalla chiesa di San Dalmazzo. I Domenicani fecero le più graziose proferte per averla con loro. Darebbero la cappella dell’Annunciala ne’ chiostri di San Domenico per oratorio, una cappella nella chiesa, sepolcro pei giustiziati, sepolcro pe’ confratelli. La Compagnia preferì l’acquisto della chiesa del beato Amedeo, propria dello Spedale di Carità, ufficiata dai padri Somaschi, posta nel sito dove ora è il ghetto, in faccia al palazzo del conte Balbo: e là rimase fino al 1720, quando, dopo due anni di trattative colle monache di Santa Croce, e per volontà del re che volle fosse la compagnia della Misericordia preferita a quella del S. Sudario, acquistarono la chiesa antica d’esse monache, e fattala restaurare, v’entrarono processionalmente addì 21 di settembre.7 Nel 1751 i confratelli fecero rinnovare la chiesa su vago disegno del conte di Robilant. Si ha l’intaglio della gentil facciata che quest’egregio architetto aveva imaginata, ma che non fu eseguita.8 Quella che ora si vede fu eretta per doni volontarii di confratelli e con qualche aiuto della regina Maria Teresa d’Austria d’Este nel 1828 sui disegni dell’architetto Lombardi. È opera di minor dispendio e di bellezza minore.
In questa chiesa la tavola dell’altar maggiore, in cui è raffigurata la decollazione di S. Giovanni Battista, assai copiosa di figure, è di Federigo Zuccari. Nella cappella dal lato del Vangelo la Vergine Addolorata con S. Giovanni Nepomuceno in atto di pregare dinanzi a quella, è fatica del cavaliere Beaumont.
Questa confraternita dispensa altresì varie doti; quattro annuali di lire 220 l’una, legale dal negoziante Michele Bistorti nel 1731; due pure annuali di lire 100 l’una, legate da Michele Gaetano Pateri nel 1727.9
Ma il suo antico e principale inslituto è d’assistere i condannati all’estremo supplizio, ed ecco in qual forma si procede.
La Compagnia avvertita per cura degli agenti del fisco esservi qualche infelice condannato a morte, invita i prefetti delle carceri ed i misericordiosi deputali all’ufficio di confortatori ed alcun altro dei principali a trovarsi nel confortatorio. Letta al condannato la sentenza, viene il medesimo circondalo dai preti e laici della Compagnia, i quali in que’ primi crudeli momenti, lasciando alla desolata natura un necessario sfogo, gli usano conforto di compassionevole sembiante e di cortesi servizii piucchè di parole. È condotto poi nel luogo che chiamasi da noi confortatorio, ed è una cappella dove in faccia all’altare s’apre una finestra sul cortile interno della prigione; nel muro che è dal lato del Vangelo s’apre una porta munita di robusto cancello di ferro, al di là del quale entro un andito angusto e chiuso in ogni lato, è un letticciuolo, su cui è assiso il condannato colle mani libere, ma con una catena al piede; accanto al condannato sul letticciuolo medesimo s’asside or l’uno or l’altro de’sacerdoti, ministrando al cuore indurato ed ulcerato il divin farmaco di quella parola, sola polente a mutarne la natura ed a farne un esempio di ravvedimento e di grazia, come quasi sempre succede. Nella cappella sta il sindaco della Misericordia, capo del confortatorio, cogli altri misericordiosi. Fuori della cappella e della vista del condannalo i soldati di giustizia che lo custodiscono. La sentenza gli si legge d’ordinario alle undici di mattina: non prima della stessa ora del giorno seguente dee ricevere la sua esecuzione. Sono ventiquattro ore che gli si lasciano onde provveda alla salute dell’anima sua. Noto quello che accade d’ordinario e che so per sicura relazione di confratelli più forti di me nella esemplare e meritoria loro pietà. Nelle prime ore o scorgesi una morale prostrazione, un totale abbattimento, o la concitazione degli affetti più violenti, più rabbiosi, più disperati; e certe volte l’uno stato succede all’altro. Ma venuta meno la luce odiata di quel giorno che fu apportatore di sì funesta novella, torna un po’ di calma e da luogo a migliori consigli. Allora più non si rifiuta la confessione, e raro è il caso in cui s’indugi fino a notte inoltrata. Passa il condannalo una parte della notte in preghiere, e poi gusta qualche ora di sonno inquieto; all’alba del nuovo giorno sente la messa che si celebra nella vicina cappella e riceve il pane degli angioli, che in altri paesi, con soverchia durezza, si ricusa ai condannali. Divote orazioni, pii affetti vannosi alternando fino all’ora fatale, giunta la quale l’esecutore fa domandare al sindaco della confraternita il permesso d’entrare. Avutolo, comincia un soldato di giustizia a staccar la catena che inceppa il piò del paziente, poi lo accompagna appiè dell’altare, dove s’inginocchiano egli e l’esecutore. Questi a lui rivolto gli dice esser egli dalla giustizia destinato ad eseguirla sentenza; eseguirla, non per alcun odio che a ciò lo mova, ma per dovere, pregandolo di perdonargli. Il condannato risponde che gli perdona. L’esecutore rialzatosi gli lega le braccia e gli pone al collo il laccio, stato prima benedetto dal sacerdote. Allora si apre la finestra che da sul cortile della prigione, ove sono accolti i carcerati. Il paziente si congeda da loro, invitandoli a pigliar esempio da lui e ad emendarsi. Dopo ciò s’avvia il funebre corteggio; la compagnia col gonfalone, il carro cinto dai soldati di giustizia e dagli esecutori, e formato di due banchi lateralmente l’uno all’altro addossali, sovr’uno de’ quali siede il paziente, in mezzo a due sacerdoti; sull’altro il sindaco con altri confortatori muniti di cordiali.
Innanzi alla chiesa de’ Gesuiti ed alla Basilica il carro si ferma un istante onde il paziente riceva la benedizione dell’agonia. Finito il triste spettacolo, che sempre attira una quantità di popolo minuto, di borsaiuoli e di donne da partito, il sindaco della Misericordia sale sopra la scala del patibolo e taglia il capestro a cui è sospeso il giustiziato, mentre altri confratelli adagiano il cadavere nella bara e lo accompagnano quindi processionalmente al campo santo. Il capestro è riposto in una borsa di velluto e quindi arso. Una volta ciò facevasi pubblicamente la vigilia di S. Giovanni decollato. Ora s’evita di darne conoscimento al pubblico, perchè le donnicciole traevano dal numero e dalla qualità di quei lacci argomento di giocate al lotto.
Se fossimo in un tempo in cui le lettere, memori della loro dignità, mai non valicassero i termini del nobile e gentil conversare, noi non avremmo osato di rammentar in questo libro siffatte dolorose particolarità. Ma in un tempo in cui tanti lettori si deliziano dell’idioma de’ bagni e delle taverne, delle turpitudini più infami de’ piccioli e de’ grandi malfattori, de’ misteri de’ lupanari e delle prigioni, del dipinto strazio di carni umane: quando se un fior di virtù sbuccia fra tante infamie, si mostra nato nel cuore d’una cortigiana o d’un assassino; quando trionfa questa letteratura convulsa, boiesca che adopera gli uncini e gli aculei, onde addentar fibre, per lungo abuso d’emozioni stemperate e ribelli, e profittare di quella poca breccia che v’apre, per innestarvi calunnie, confido che niuno troverà sconveniente un racconto che fondasi almeno sovra pure intenzioni, e adombra appena ed accenna ciò che altri espone e dipinge.
Quanto possa la religione sull’animo d’un perverso che snoda il cuore all’impulso della grazia. l’abbiam veduto nel recente esempio d’un assassino. Condannato questi centra le proprie e le altrui previsioni all’estremo supplizio, ma preparato già con un fervente dolore de’suoi peccali ad incontrare qualunque si fosse il suo destino, udita la sentenza rispose queste sole parole: La morte!... Io m’aspettava soltanto la galera perpetua. Pazienza.
Condotto in confortatorio, appena vide il suo confessore, gli annunziò ei medesimo con tutta tranquillità la novella fatale soggiungendo: Veramente mi dava qualche sospetto il vedere che i birri mi legavano con maggiori precauzioni dell’ordinario. Questo giovane di belle forme, di molto ingegno e di sufficiente istruzione si dimostrò gratissimo a tutti quei che lo confortavano, e diceva loro: I miei misfatti mi hanno condotto a questo passo; ho meritato, non una, ma cinquanta forche. Ho fatto il male, trattasi ora di espiarlo. Nulla di più naturale: spero che Dio mi userà misericordia. Tutto ciò diceva senza punto smarrirsi e senza esaltazione di fantasia riscaldata. Venuta la notte dormì più di quatlr’ore d’un sonno tranquillissimo; e avrebbe dormito di più se il campanello della prigione non lo svegliava, Passò la mattina in ferventi orazioni. Venuta l’ora salì sul carro, e giunto in capo alla via di Doragrossa, vedendo la gran calca di gente che l’ingombrava, disse al suo confessore. Chi crederebbe che di tanti che qui siamo il più contento son io? Agli spettatori diceva: Preghino per me, ch’io spero fra poco di pregar per loro. Tulio ciò sempre senza mai lasciar trasparire agli ulti o al viso il menomo turbamento. 11 confessore, vedendo un effetto così mirabile della grazia divina, gli raccomandò di pregare per lui giunto che fosse in paradiso, e per la congregazione a cui apparteneva. Il paziente glielo promise. Giunto al patibolo, salito sopra la scala, quando sentì che l’esecutore s’apprestava a dargli la spinta, si volse sorridendo al confessore e gli disse: A momenti la sua commissione sarà fatta.10
La compagnia della Misericordia s’augura non lontana l’ora, in cui, facendosi rari i misfatti più atroci, si potrà abolir una pena, che. a ben considerarla, ò un dritto sociale, indotto da una lamentevole necessità, epperciò non perpetuo ma temporaneo; ed in cui perciò essa medesima potrà riservare tutte le sue cure al sollievo de’ carcerati.
La strada che percorriamo comincia col nome di via della Madonnetta, e piglia allato a San Francesco quello de’ Guardinfanti, dal commercio che vi si facea di quell’incomodo arnese, proprio d’un’età dissoluta.
Nell’ultima isola a destra sorgeva, allato all’albergo di Londra l’antico palazzo de’ principi di Carignano, abitato dal celebre principe Tommaso, e da Emmanuele Filiberto, suo figliuolo, finche venne edificato l’altro assai più degno sulla piazza, cui diede il nome.
Note
- ↑ [p. 569 modifica]Archivi arcivescovili, protoc. xiii.
- ↑ [p. 569 modifica]Conto del chiavarlo di Torino, 1384, 86.
- ↑ [p. 569 modifica]Archivi arcivescovili, protoc. xix.
- ↑ [p. 569 modifica]Archivi camerali. Registri, Controllo xlix, fol. 166. lii. fol. 372.
- ↑ [p. 569 modifica]Quest’aggregazione fu confermata in perpetuo nel 1609.
- ↑ [p. 569 modifica]Da supplica e rescritto di Madama Reale Maria Giovanna Ballista, stampa, negli Archivi dell’arciconfraternita stessa. Negli statuti fatti il 10 maggio 1585 è scritto invece, che, se si tratterà d’un condannato a morte, l’abito sarà bianco di zendado. Fin dal 1582 vennero aggregati a questa nostra confraternita i disciplinanti di S.ta Maria di Biella, e intorno agli stessi tempi la Compagnia della Misericordia di Cavallermaggiore; ne’ tempi posteriori, molte altre.
Nelle Memorie storiche, ms. della confraternita del SS. Nome di Gesù di San Martiniano, leggo che prima della fondazione della confraternita di S. Giovanni decollato, veniva ad assistere i condannali a morte la compagnia del Crocifisso di Grugliasco. - ↑ [p. 569 modifica]Ricordiamo che sul finire del secolo xvii non esisteva ancora la larga via, per cui da San Dalmazzo si va alla Misericordia. Ma invece vi era una piccola strada senza capo, che riusciva ad un sodo di case che la disgiungeva dalla via in cui era la chiesa delle Monache, come si può veder sulla carta.
- ↑ [p. 569 modifica]Se ne conservano due esemplari negli Archivi della confraternita.
- ↑ [p. 569 modifica]Archivi della confraternita.
- ↑ [p. 569 modifica]Ho queste informazioni dal signor D. Cafassi, che lo assisteva.