Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XX. La nuova letteratura/VII.
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Tutto questo fu detto «romanticismo», «letteratura de’ popoli moderni». La nuova parola fece fortuna. La reazione ci vedeva un ritorno del medio evo e delle idee religiose, un condanna dell’aborrito Rinascimento, soprattutto del piú aborrito secolo decimottavo. I liberali, non potendo pigliarsela co’ governi, se la pigliavano con Aristotile e coi classici e con la mitologia: piaceva essere almeno in letteratura rivoluzionario e ribelle alle regole. Il sistema era cosi vasto e vi si mescolavano idee e tendenze cosi diverse, che ciascuno potea vederlo con la sua lente e pigliarvi ciò che gli era piú comodo. I governi lasciavan fare, contenti che le guerricciuole letterarie distraessero le menti dalla cosa pubblica. In Italia ricomparivano i soliti fenomeni della servitú: battaglie in favore e contro la Crusca, quistioni di lingua, diverbi letterari, che finivano talora in denunzie politiche. La Proposta e il Sermone all’Antonietta Costa erano i grandi avvenimenti che succedevano alla battaglia di Waterloo. L’Italia risonò di «puristi» e «lassisti», di «classici» e «romantici». Il giornalismo, mancata la materia politica, vi cercò il suo alimento. Il centro piú vivace di quei moti letterari era sempre Milano, dove erano piú vicini e piú potenti gl’influssi francesi e germanici. La s’inaugurava nel Caffè il secolo decimottavo. E lá s’inaugurava ora nel Conciliatore il secolo decimonono. Manzoni ricordava Beccaria, e i Verri e i Baretti del nuovo secolo si chiamavano Silvio Pellico, Giovanni Berchet, e gli ospiti di casa Manzoni, Tommaso Grossi e Massimo di Azeglio, divenuto sposo di Giulia Manzoni e anello fra la Lombardia e il Piemonte, dove sorgevano nello stesso giro d’idee Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti. La vecchia generazione si intrecciava con la nuova. Vivevano ancora, memorie del regno d’Italia, Foscolo, Monti, Giovanni e Ippolito Pindemonte, Pietro Giordani. Dirimpetto a Melchiorre Gioia vedevi Sismondi, italiano di mente e di cuore; e mentre il vecchio Romagnosi scrivea la Scienza della costituzione, il giovane Antonio Rosmini pubblicava il trattato Della origine delle idee. Spuntavano Camillo Ugoni, Felice Bellotti, Andrea Maffei, il traduttore di Klopstok e di Schiller. Dirimpetto a’ poeti vedevi i critici, dilettanti pure di poesia, Giovanni Torti, Ermes Visconti, Giovanni de Cristoforis, Samuele Biava. Nelle stesse file militavano Carlo Porta, Niccolò Tommaseo, i fratelli Cesare e Ignazio Cantú, e Maroncelli, e Confalonieri, e altri minori.
Cosa volevano i romantici, che levavano cosi alto la voce nel Conciliatore? Parlavano con audacia giovanile della vecchia generazione, s’inchinavano appena al gran padre Alighieri, vantavano gli scrittori stranieri soprattutto inglesi e tedeschi, non volevano mitologia, si beffavano delle tre unitá, e delle regole si curavano poco, e non curvavano il capo che innanzi alla ragione. Era il razionalismo o il libero pensiero applicato alla letteratura da uomini che in religione predicavano fede e autoritá. I classici, al contrario, miscredenti e scettici nelle cose della religione, erano qualificati superstiziosi in fatto di letteratura. Né parea ragionevole che Aristotile, detronizzato in filosofia, dovesse in letteratura rimanere sul suo trono. La lotta fu viva tra il Conciliatore e la Biblioteca italiana, a cui tenea bordone la Gazzetta di Milano. Vi si mescolavano ingenui e furfanti, scrittori coscienziosi e mestieranti. E dopo molto contendere, fra tante esagerazioni di offese e di difese, si venne in tale confusione di giudizi, che oggi stesso non si sa cosa era il romanticismo e in che si distingueva sostanzialmente dal classicismo. Molti sostenevano che il Monti era un ingegno romantico sotto apparenze classiche, e altri che Manzoni con pretensioni romantiche era in veritá un classico. Si cominciò a vedere chiaro quando fu posta da parte la parola «romanticismo», materia del litigio, e si badò alla qualitá della merce e non al suo nome. Al romanticismo, importazione tedesca, si sostituí a poco a poco un altro nome: «letteratura nazionale e moderna». E su questo convennero tutti, romantici e classici. Il romanticismo rimase in Italia legato con le idee della prima origine germanica, diffuse dagli Schlegel e da’ Tieck, in quella forma esagerata che prese in Francia, capo Victor Hugo. Respingevano il paganesimo, e riabilitavano il medio evo. Rifiutavano la mitologia classica, e preconizzavano una mitologia nordica. Volevano la libertá dell’arte, e negavano la liberta di coscienza. Rigettavano il plastico e il semplice dell’ideale classico, e vi sostituivano il gotico, il fantastico, l’indefinito e il lugubre. Surrogavano il fattizio e il convenzionale dell’ imitazione classica con imitazioni fattizie e convenzionali di peggior gusto. E, per fastidio del bello classico, idolatravano il brutto. Una superstizione cacciava l’altra. Ciò che era legittimo e naturale in Shakespeare e in Calderon, diveniva strano, grossolano, artificiale in tanta distanza di tempi, in tanta differenza di concepire e di sentire. Il romanticismo, in questa sua esagerazione tedesca e francese, non attecchí in Italia e giunse appena a scalfire la superficie. I pochi tentativi non valsero che a meglio accentuare la ripugnanza del genio italiano. E i romantici furono lieti quando poterono gittar via quel nome d’imprestito, fonte di tanti equivoci e litigi, e prendere un nome accettato da tutti. Anche in Germania il romanticismo fu presto attirato nelle alte regioni della filosofia, e, spogliatosi quelle forme fantastiche e quel contenuto reazionario, riuscí sotto nome di «letteratura moderna» nell’ecletismo, nella conciliazione di tutti gli elementi e di tutte le forme sotto i principi superiori dell’estetica o della filosofia dell’arte.
Pigliando il romanticismo in quel suo primo stadio, quando si affermava come distinto, anzi in contraddizione col secolo scorso, e movea guerra ad Alfieri e proclamava una nuova riforma letteraria, il suo torto fu di non accorgersi che esso era in sostanza non la contraddizione, ma la conseguenza di quel secolo appunto contro il quale armeggiava. In Germania l’idea romantica sorse in opposizione all’ imitazione francese, cosi alla moda sotto il gran Federico. Era una esagerazione, ma in quell’esagerazione si costituivano le prime basi di una letteratura nazionale, dalla quale uscivano Schiller e Goethe. E fu lavoro del secolo decimottavo. Schiller fu contemporaneo di Alfieri. Quando l’idea romantica s’affacciò in Italia, giá in Germania era scaduta, trasformatasi in un concetto dell’arte filosofico e universale. Goethe era giá alla sua terza maniera, a quel suo spiritualismo panteistico che produceva il Faust. Il romanticismo veniva dunque in Italia troppo tardi, come fu poi dell’eghelismo. Parve a noi un progresso ciò che in Germania la coltura aveva giá oltrepassato e assorbito. La riforma letteraria in Italia, tanto strombazzata, non cominciava, ma continuava. Essa era cominciata nel secolo scorso. Era appunto la nuova letteratura, inaugurata da Goldoni e Parini, al tempo stesso che in Germania si gittavano le fondamenta della coltura tedesca. La differenza era questa : che la Germania reagiva contro l’imitazione francese e acquistava coscienza della sua autonomia intellettuale; dove l’Italia, associandosi alla coltura europea, reagiva contro la sua solitudine e la sua stagnazione intellettuale. L’Italia entrava nel grembo della coltura europea, e vi prendea il suo posto, cacciando via da sé una parte di sé, il seicentismo, l’Arcadia e l’accademia: la Germania al contrario iniziava la sua riforma intellettuale, rimovendo da sé la coltura francese e riannodandosi alle sue tradizioni. L’influenza francese non fu che una breve deviazione nel movimento di continuitá della vita tedesca: un movimento fortificato nella lotta d’indipendenza, e che portò quel popolo nel secolo decimonono ad una chiara coscienza della sua autonomia nazionale e della sua superioritá intellettuale. Perciò la riforma tedesca procedette armonica e pacata con passaggi chiari, con progresso rapido, con intima consonanza in tutt’i rami dello scibile, non ricevendo ma dando l’impulso alla coltura europea. Esclusiva ed esagerata nel principio sotto nome di «romanticismo», la sua coltura in breve tempo abbracciò tutti gli orizzonti e conciliò tutti gli elementi della storia in una vasta unitá, della quale rimane monumento colossale la Divina commedia della coltura moderna, il Faust. Ivi tutte le religioni e tutte le colture, tutti gli elementi e tutte le forme si dánno la mano e si riconoscono partecipi del redivivo Pane, sottoposte alle stesse leggi, spirito o natura, espressioni di una sola idea, giá inconsapevoli e nemiche, ora unificate dall’occhio ironico della coscienza. Indi quella suprema indifferenza verso le forme, che fu detto lo «scetticismo» di Goethe, ed era la serenitá olimpica di una intelligenza superiore, la tolleranza di tutte le differenze, riconciliate e armonizzate nel mondo superiore della filosofia e dell’arte. Cosi il misticismo romantico si trasformava nell’idealismo panteistico, l’idea cristiana nell’idea filosofica, il Cristo del Vangelo nel Cristo di Strauss, la teologia s’inabissava nella filosofia, il domma e il dubbio si fondevano nella critica, e il famoso «cogito» trovava il suo punto di arrivo e di fermata nella coscienza di sé, come spirito del mondo morale e naturale: punto d’arrivo divenuto stagnante nel superficiale ecletismo francese.
Quando Manzoni, tutto ancora pieno di Alfieri, fu a Parigi, ebbe le sue prime impressioni da quei circoli letterari che facevano opposizione all’Impero, e dove abitava lo spirito di Chateaubriand e madama di Staël. Di lá gli venne un riflesso della Germania, e si diede alla storia di quella letteratura. Strinse relazioni con uomini illustri delle due grandi nazioni: Cousin lo chiamava il suo «amico», Fauriel e Goethe mettevano su il giovine poeta. Il suo orizzonte si allargò, vide nuovi mondi, e reagí contro la sua educazione letteraria, contro le sue adorazioni giovanili, contro Alfieri e Monti. A Milano, caduto il regno d’Italia, le nuove idee raccolsero intorno a sé i giovani, e Manzoni divenne il capo della scuola romantica. Cosi, mentre la Germania, percorso il ciclo filosofico e ideale della sua coltura, si travagliava intorno all’applicazione in tutte le sue scienze sociali o naturali, in Italia si disputava ancora de’ principi. Naturalmente, né Manzoni né altri poteva assimilarsi tutto il movimento germanico, lavoro di un secolo, e non lo vedevano che nella sua parte iniziale e superficiale. Ammiravano Schiller, Goethe, Herder, Kant, Fichte, Schelling, ma conoscevano assai meglio i nostri filosofi e letterati, e di quelli veniva loro come un’eco, spesso per studi e giudizi di seconda mano, spesso per intramessa di scrittori francesi. Rimasero essi dunque nella loro spontaneitá, ponendo le quistioni come le si ponevano in Italia, con argomenti e metodi propri; e ne usci un romanticismo locale, puro di stravaganze ed esagerazioni forestiere, accomodato allo stato della coltura, timido nelle innovazioni, e tenuto in freno dalle tradizioni letterarie e dal carattere nazionale. Un romanticismo cosi fatto non era che lo sviluppo della nuova letteratura sorta col Parini, e rimaneva nelle sue forme e ne’ suoi colori prettamente italiano.
In effetti i punti sostanziali di questo romanticismo concordano col movimento iniziato nel secolo scorso, e non è maraviglia che la lotta, continuata con tanto furore e con tanta confusione, fini nella piena indifferenza del popolo italiano, che riconosceva se stesso nelle due schiere. Volevano i romantici che l’Italia lasciasse i temi classici? E giá n’era venuto il fastidio, e avevi l’Ossian, il Saul, la Ricciarda, il Bardo della selva nera. Volevano che i personaggi fossero presi dal vero e che le forme fossero semplici e naturali? Ed ecco lá Goldoni, che predicava il medesimo. Spregiavano la vuota forma? E sotto questa bandiera avevano militato Parini, Alfieri e Foscolo; e appunto la risurrezione del contenuto, la ristorazione della coscienza era il carattere della nuova letteratura. Cosa erano le tre unitá e la mitologia, pomo della discordia, se non quistioni accessorie nella stessa famiglia? Fino un concetto del mondo meno assoluto e rigido, umano e anco religioso, intravedevi ne’ Sepolcri di Foscolo e d’Ippolito Pindemonte. Adunque la scuola romantica, se per il suo nome, per le sue relazioni, pe’ suoi studi e per le sue impressioni si legava a tradizioni tedesche e a mode francesi, rimase nel fondo scuola italiana per il suo accento, le sue aspirazioni, le sue forme, i suoi motivi; anzi fu la stessa scuola del secolo andato, che, dopo le grandi illusioni e i grandi disinganni, ritornava a’ suoi principi, alla naturalezza di Goldoni e alla temperanza di Parini. Erano di quella scuola piú i romantici, i quali avevano aria di combatterla, che i classici, suoi eredi di nome, ma eredi degeneri, appo i quali la sua vitalitá si mostrava esaurita nella pomposa vacuitá di Monti e nel purismo rettorico di Pietro Giordani. La scuola andava visibilmente declinando sotto il regno d’Italia e, non avendo piú novitá di contenuto, si girava in se stessa, divenuta sotto nome di «purismo» un gioco di frasi, intenta alla puritá del Trecento e all’eleganza del Cinquecento. Ritornavano in voga i grammatici, i linguisti e i retori; ripullulava sotto altro nome l’Arcadia e l’accademia. Cosi fu possibile la Storia americana di Carlo Botta, uscita a Parigi quando appunto uscirono gl’Inni; e fu tal cosa, che gli stessi accademici della Crusca si sentirono oltrepassati e domandavano che lingua era quella. Furono i romantici che, insorgendo contro la scuola, la rinsanguarono, e in aria di nemici furono i suoi veri eredi. Essi le apersero nuovo contenuto e nuovo ideale, le spogliarono la sua vernice classica e mitologica, raccostarono a forme semplici, naturali, popolari, sincere, libere da ogni involucro artificiale e convenzionale, dalle esagerazioni rettoriche e accademiche, dalle vecchie abitudini letterarie non ancor dome, di cui vedi le orme anche tra gli sdegni di Alfieri e di Foscolo. Come, sotto forma di reazione, essi erano la stessa Rivoluzione, che, moderandosi e disciplinandosi, ripigliava le sue forze, tirando anche Dio al progresso e alla democrazia; cosi sotto forma di opposizione, essi erano la nuova letteratura di Goldoni e di Parini, che si spogliava gli ultimi avanzi del vecchio, acquistava una coscienza piú chiara delle sue tendenze e, lasciando gl’ideali rigidi e assoluti, prendeva terra, si accostava al reale.
Questo sentimento piú vivo del reale era anche penetrato nel popolo italiano. Non era piú il popolo accademico, che batteva le mani in teatro alla Virginia e all’Aristodemo e applaudiva all’Italia ne’ sonetti e nelle canzoni. Vide la libertá sotto tutte le sue forme, nelle sue illusioni, nelle sue promesse, ne’ suoi disinganni, nelle sue esagerazioni. Il regno d’Italia, la spedizione di Murat, le promesse degli alleati, la lotta d’indipendenza della Spagna e della Germania, l’insorgere della Grecia e del Belgio aguzzavano il sentimento nazionale: l’unitá d’Italia non era piú un tema rettorico, era uno scopo serio, a cui si drizzavano le menti e le volontá. I piú arditi e impazienti cospiravano nelle societá secrete, contro le quali si ordinavano anche secretamente i sanfedisti. Fatto vecchio era questo. Ma il fatto nuovo era che nella grande maggioranza della gente istrutta si andava formando una coscienza politica, il senso del limite e del possibile: la rettorica e la declamazione non avea piú presa sugli animi. La grandezza degli ostacoli rendea modesti i desidèri, e tirava gli spiriti dalle astrazioni alla misura dello scopo e alla convenienza de’ mezzi. La libertá trovava il suo limite nelle forme costituzionali, e il sentimento nazionale nel concetto di una maggiore indipendenza verso gli stranieri. Una nuova parola venne su: non si disse piú «rivoluzione», si disse «progresso». E fu il maestoso cammino dell’idea nello spazio e nel tempo verso un miglioramento indefinito della specie, morale e naturale. Il progresso divenne la fede, la religione del secolo. Ed avea il suo lasciapassare, perché cacciava quella maledetta parola che era la «rivoluzione», e significava la naturale evoluzione della storia, e condannava le violente mutazioni. Il progresso raccomandava pazienza a’ popoli, dimostrava compatibile ogni miglioramento con ogni forma di governo e si accordava con la filosofia cristiana, che predicava fiducia in Dio, preghiera e rassegnazione. Oltre a ciò, «libertá», «rivoluzione» indicavano scopi immediati e non tollerabili ai governi; dove «progresso», nel suo senso vago, abbracciava ogni miglioramento, e dava agio a’ principi di acquistarsi lode a buon mercato promovendo, non fosse altro, miglioramenti speciali che parevano innocui, com’erano le strade ferrate, l’illuminazione a gas, i telegrafi, la libertá del commercio, gli asili d’infanzia, i congressi scientifici, i comizi agrari. A poco a poco i liberali tornarono lá ond’erano partiti, e, non potendo vincere i governi, li lusingarono, sperarono riforme di principi, anche del papa: rifacevano i tempi di Tanucci, di Leopoldo, di Giuseppe, e rifacevano anche un po’ quell’Arcadia. Certo, una teoria del progresso, che se ne rimetteva a Dio e all’Idea, dovea condurre a un fatalismo musulmano, e, rendendo i popoli troppo facilmente appagabili, potea sfibrare i caratteri, trasformare il liberalismo in una nuova Arcadia, come temea Giuseppe Mazzini, che vi contrapponeva la Giovine Italia. Pure i moti repressi del Ventuno e del Trentuno, i vari tentativi mazziniani mal riusciti, la politica del «non intervento» delle nazioni liberali, la potenza riputata insuperabile dell’Austria, la forza e la severitá de’ governi, le fila spesso riannodate e spesso rotte disponevano gli animi ad uno studio piú attento de’ mezzi, li piegavano a’ compromessi, fortificavano il senso politico, rendevano impopolare la dottrina del «tutto o niente». Lo stesso Mazzini, ch’era all’avanguardia, avea nel suo linguaggio e nelle sue formole quell’accento di misticismo e di vaporoso idealismo che era penetrato nella filosofia e nelle lettere e che lo chiariva uomo del secolo, e mostravasi anche lui disposto a tener conto delle condizioni reali della pubblica opinione e a sacrificarvi una parte del suo ideale. Cosi, rammorbidite le passioni, confidenti nel progresso naturale delle cose e persuasi che anche sotto i cattivi governi si può promuovere la coltura e la pubblica educazione, i piú smessero l’azione politica diretta e si diedero agli studi: fiorirono le scienze, si sviluppò il senso artistico e il genio della musica e del canto; la Taglioni e la Malibran, la Rachel e la Ristori, Rossini e Bellini, le dispute scientifiche e letterarie, i romanzi francesi e italiani occupavano nella vita quel posto che la politica lasciava vuoto. In breve spazio uscivano in luce il Carmagnola, l’Adelchi e i Promessi sposi; la Pia del Sestini; la Fuggitiva, l’Ildegonda, i Crociati e il Marco Visconti del Grossi; la Francesca da Rimini del Pellico; la Margherita Pusterla del Cantú; l’Ettore Fieramosca, e piú tardi il Niccolò de’ Lapi di Massimo d’Azeglio. Ultime venivano, con piú solenne impressione, le Mie prigioni. Ciclo letterario che fu detto «romantico»: un romanticismo italiano, che facea vibrare le corde piú soavi dell’uomo e del patriota, con quella misura, con quell’ ideale internato nella storia, con quella storia fremente d’intenzioni patriottiche, con quella intimitá malinconica di sentimento, con quella finezza di analisi nella maggiore semplicitá de’ motivi, che rivelava uno spirito venuto a maturitá e ne’ suoi ideali studioso del reale. Con tinte piú crude e con intenzioni piú ardite comparivano l’Arnaldo da Brescia e l’Assedio di Firenze. Ciascuno sentiva sotto la scorza del medio evo palpitare le nostre aspirazioni: le minime allusioni, le piú lontane somiglianze erano còlte a volo da un pubblico che si sentiva uno con gli scrittori. Il romanticismo perdette la serietá del suo contenuto: la parola stessa usciva di moda. Il medio evo non fu piú materia trattata con intenzioni storiche e positive. Fu l’involucro de’ nostri ideali, l’espressione abbastanza trasparente delle nostre speranze. Si sceglievano argomenti che meglio rappresentassero il pensiero o il sentimento pubblico, come era la lega lombarda, trasformata in lotta italiana contro la Germania. Massimo d’Azeglio, che segna il passaggio dalla maniera principalmente artistica de’ romantici ad una rappresentazione piú svelatamente politica, volgeva in mente un terzo romanzo, che dovea avere per materia la lega lombarda. I! pittore arieggiava allo scrittore. Uscivano dal suo pennello la Sfida di Barletta, il Brindisi di Francesco Ferruccio, la Battaglia di Gavinana, la Difesa di Nizza, la Battaglia di Torino. Il medesimo era del misticismo. L’ispirazione artistica, da cui erano usciti gl’Inni e il Cinque maggio e l’Ermengarda, non fu piú il quadro; fu l’accessorio, un semplice colore attaccaticcio sopra un fondo estraneo, filosofico e politico. Vennero gl’inni alle scienze, alle arti, gl’inni di guerra. Rimasero Madonne, angioli, santi e paradiso, a quel medesimo modo che prima Pallade. Venere e Cupido, semplici ornamenti e macchine poetiche, estranee all’intimo spirito della composizione o puramente arcadiche. Dove la poesia gitta via ogni involucro romantico e classico, è ne’ versi del Berchet. E non poco vi contribuí lord Byron, vivuto lungo tempo in Venezia, di cui si sentono i fieri accenti nell’Esule di Parga. Se Giovanni Berchet fosse rimasto in Italia, probabilmente il suo genio sarebbe rimasto inviluppato nelle allusioni e nelle ombre del romanticismo. Ma, esule, portava a Londra i dolori e i furori della patria tradita e vinta. Fu l’accento della collera nazionale in una lirica, che, lasciate le generalitá de’ sonetti e delle canzoni, s’innestò al dramma e colse la vita nelle piú patetiche situazioni.
La voce possente di questa lirica drammatica giunse solitaria in unItalia, dove i secondi fini della prudenza politica avevano rintuzzata la veritá e virilitá dell’espressione. Si era trovata una specie di modus vivendi, come si direbbe oggi, una conciliazione provvisoria tra principi e popoli. I freni si allentavano, ci era una maggiore libertá di scrivere, di parlare, di riunirsi, sempre in nome del progresso, della coltura, della civiltá: gli avversari erano detti «oscurantisti». I principi facevano bocca da ridere, promettevano riforme; e sino il piú restio, Ferdinando secondo, chiamava alle cattedre, alla magistratura, a’ ministeri uomini colti, e per bocca di monsignor Mazzetti annunziava un largo riordinamento degli studi. Che si voleva piu? I liberali, con quel senso squisito dell’opportunitá che ha ciascuno nell’interesse proprio, inneggiavano a’ principi, stringevano la mano a’ preti, fino ridevano a’ gesuiti. Fu allora che apparve in Italia un’opera stranissima, il Primato di Vincenzo Gioberti. Ivi con molta facilitá di eloquio, con grande apparato di erudizione, con superbia e ricercatezza di formole si proclamava il primato della civiltá italiana, riannodata attraverso le glorie romane alle tradizioni italo-pelasgiche, fondata sul papato, restitutore della religione nella sua puritá, riconciliato con le idee moderne, e tendente all’autocrazia dell’ ingegno e al riscatto delle plebi. La creazione, sostituita al «divenire» egheliano, rimetteva le gambe al soprannaturale e alla rivelazione : tutto il Risorgimento era dichiarato eterodosso o acattolico, e il presente si ricongiungeva immediatamente col medio evo. Era la conciliazione politica sublimata a filosofia, era la filosofia costruita ad uso del popolo italiano. Frate Campanella pareva uscito dalla sua tomba. L’impressione fu immensa. Sembrò che ci fosse alfine una filosofia italiana. Vi si vedevano conciliate tutte le opposizioni: il papa a braccetto co’ principi, i principi riamicati a’ popoli, il misticismo internato nel socialismo, Dio e progresso, gerarchia e democrazia: un bilanciere universale. Il movimento era visibilmente politico, non religioso e non filosofico. E ciò che ne usci non fu giá né ima riforma religiosa né un movimento intellettuale, ma un moto politico, tenuto in piede dall’equivoco e crollato al primo urto de’ fatti. Questa era la faccia della societá italiana. Era un ambiente, nel quale anche i piú fieri si accomodavano, non scontenti del presente, fiduciosi nell’avvenire: i liberali biascicavano «paternostri», e i gesuiti biascicavano «progresso e riforme». La situazione in fondo era comica, e il poeta che seppe coglierne tutt’ i segreti fu Giuseppe Giusti. La Toscana, dopo una prodigiosa produzione di tre secoli, non aveva piú in mano l’indirizzo letterario d’Italia. Si era addormentata col riso del Berni sul labbro. La Crusca l’aveva inventariata e imbalsamata. Resistè piú che potè nel suo sonno, respingendo da sé gl’impulsi del secolo decimottavo. Quando si senti il bisogno d’una lingua meno accademica, prossima per naturalezza e brio al linguaggio parlato, molti si diedero al dialetto locale, altri si gittarono alle forme francesi, altri, col padre Cesari a capo, l’andavano pescando nel Trecento. Non veniva innanzi la soluzione piú naturale: cercarla cola dove era parlata, cercarla in Toscana. La Rivoluzione avea ravvicinati gl’italiani, suscitati interessi, idee, speranze comuni. Firenze, la cittá prediletta di Alfieri e di Foscolo, dopo il Ventuno vide nelle sue mura accolti esuli illustri di altre parti d’Italia. Grazie al Vieusseux, vi sorgeva un centro letterario in gara con quello di Milano. Manzoni e D’Azeglio andavano pe’ colli di Pistoia raccattando voci e proverbi della lingua viva. Gl’italiani si studiavano di comparire toscani; i toscani, come Niccolini e Guerrazzi, si studiavano di assimilarsi lo spirito italiano. Risorgeva in Firenze una vita letteraria, dove l’elemento locale, prima timido e come sopraffatto, ripigliava la sua forza con la coscienza della sua vitalitá. Firenze riacquistava il suo posto nella coltura italiana per opera di Giuseppe Giusti. Sembrava un contemporaneo di Lorenzo de’ Medici, che gittasse una occhiata ironica sulla societá quale l’aveva fatta il secolo decimonono. Quelle finezze politiche, quelle ipocrisie dottrinali, quella mascherata universale, sotto la quale ammiccavano le idee liberali gli «Arlecchini», i «Girella», gli «eroi da poltrona», furono materia di un riso non privo di tristezza. Era Parini tradotto dal popolino di Firenze, con una grazia e una vivezza che dava l’ultimo contorno alle immagini e le fissava nella memoria. Ciascun sistema d’idee medie, nel suo studio di contentare e conciliare gli estremi, va a finire irreparabilmente nel comico. Tutto quell’equilibrio dottrinale, cosi laboriosamente formato, del secolo decimonono, tutta quella vasta sistemazione e conciliazione dello scibile in costruzioni ideali, quel misticismo impregnato di metafisica, quella metafisica del divino e dell’assoluto declinante in teologia, quel volterianismo inverniciato d’acqua benedetta, tutto si dissolveva innanzi al ghigno di Giuseppe Giusti.
Giacomo Leopardi segna il termine di questo periodo. La metafisica, in lotta con la teologia, si era esaurita in questo tentativo di conciliazione. La moltiplicitá de’ sistemi avea tolto credito alla stessa scienza. Sorgeva un nuovo scetticismo, che non colpiva piu solo la religione o il soprannaturale: colpiva la stessa ragione. La metafisica era tenuta come una succursale della teologia. L’idea sembrava un sostituto della provvidenza. Quelle filosofie della storia, delle religioni, dell’umanitá, del dritto avevano aria di costruzioni poetiche. La teoria del progresso o del fato storico nelle sue evoluzioni sembrava una fantasmagoria. L’abuso degli elementi provvidenziali e collettivi conduceva diritto all’onnipotenza dello Stato, al centralismo governativo. L’ecletismo pareva una stagnazione intellettuale, un mare morto. L’apoteosi del successo rintuzzava il senso morale, incoraggiava tutte le violenze. Quella conciliazione tra il vecchio ed il nuovo, tollerata pure come temporanea necessitá politica, sembrava in fondo una profanazione della scienza, una fiacchezza morale. Il sistema non attecchiva piú: cominciava la ribellione. Mancata era la fede nella rivelazione : mancava ora la fede nella stessa filosofia. Ricompariva il mistero. Il filosofo sapeva quanto il pastore. Di questo mistero fu l’eco Giacomo Leopardi nella solitudine del suo pensiero e del suo dolore. Il suo scetticismo annunzia la dissoluzione di questo mondo teologico-metafisico, e inaugura il regno dell’arido vero, del reale. I suoi Canti sono le piú profonde e occulte voci di quella transizione laboriosa che si chiamava «secolo decimonono». Ci si vede la vita interiore sviluppatissima. Ciò che ha importanza non è la brillante esterioritá di quel secolo del progresso, e non senza ironia vi si parla delle «sorti progressive» dell’umanitá. Ciò che ha importanza è l’esplorazione del proprio petto, il mondo interno: virtú, libertá, amore, tutti gl’ideali della religione, della scienza e della poesia, ombre e illusioni innanzi alla sua ragione, e che pur gli scaldano il cuore e non vogliono morire. Il mistero distrugge il suo mondo intellettuale, lascia inviolato il suo mondo morale. Questa vita tenace di un mondo interno, malgrado la caduta di ogni mondo teologico e metafisico, è l’originalitá di Leopardi e dá al suo scetticismo una impronta religiosa. Anzi è lo scetticismo di un quarto d’ora quello in cui vibra un cosí energico sentimento del mondo morale. Ciascuno sente li dentro una nuova formazione.
L’istrumento di questa rinnovazione è la critica, covata e cresciuta nel seno stesso dell’ecletismo. E secolo, sorto con tendenze ontologiche e ideali, avea posto esso medesimo il principio della sua dissoluzione: l’idea vivente, calata nel reale. Nel suo cammino il senso del reale si va sempre piú sviluppando, e le scienze positive prendono il disopra, cacciando di nido tutte le costruzioni ideali e sistematiche. I nuovi dogmi perdono il credito. Rimane intatta la critica. Ricomincia il lavoro paziente dell’analisi. Ritorna a splendere sull’orizzonte intellettuale Galileo accompagnato con Vico. La rivoluzione, arrestata e sistemata in organismi prowisorii, ripiglia la sua libertá, si riannoda all’Ottantanove, tira le conseguenze. Comparisce il socialismo nell’ordine politico, il positivismo nell’ordine intellettuale. Il verbo non è piú solo «libertá», ma «giustizia», la parte fatta a tutti gli elementi reali dell’esistenza, la democrazia non solo giuridica ma effettiva. La letteratura si va anche essa trasformando. Rigetta le classi, le distinzioni, i privilegi. Il brutto sta accanto al bello, o, per dir meglio, non c’è piú né bello né brutto, non ideale e non reale, non infinito e non finito. L’idea non si stacca, non soprastá al contenuto. Il contenuto non si spicca dalla forma. Non ci è che una cosa, il vivente. Dal seno dell’idealismo comparisce il realismo nella scienza, nell’arte, nella storia. È un’ultima eliminazione di elementi fantastici, mistici, metafisici e rettorici. La nuova letteratura, rifatta la coscienza, acquistata una vita interiore, emancipata da involucri classici e romantici, eco della vita contemporanea universale e nazionale, come filosofia, come storia, come arte, come critica, intenta a realizzare sempre piú il suo contenuto, si chiama oggi, ed è, la «letteratura moderna».
L’Italia, costretta a lottare tutto un secolo per acquistare l’indipendenza e le istituzioni liberali, rimasta in un cerchio d’idee e di sentimenti troppo uniforme e generale, subordinato a’ suoi fini politici, assiste ora al disfacimento di tutto quel sistema teologico-metafisico-politico, che ha dato quello che le potea dare. L’ontologia con le sue brillanti sintesi avea soverchiate le tendenze positive del secolo. Ora è visibilmente esaurita, ripete se stessa, diviene accademica, perché accademia e Arcadia è la forma ultima delle dottrine stazionarie. Vedete Cousin col suo ecletismo dottrinario. Vedete il Prati in Satana e le Grazie e nell’Armando. Vedete la Storia universale di Cesare Cantú. Erede dell’ontologia è la critica, nata con essa, non ancor libera di elementi fantastici e dominatici attinti nel suo seno, come si vede in Proudhon, in Renan, in Ferrari, ma con visibile tendenza meno a porre e a dimostrare che a investigare. La paziente e modesta monografia prende il posto delle sintesi filosofiche e letterarie. I sistemi sono sospetti, le leggi sono accolte con diffidenza, i principi piú inconcussi sono messi nel crogiuolo, niente si ammette piú che non esca da una serie di fatti accertati. Accertare un fatto desta piú interesse che stabilire una legge. Le idee, i motti, le formole, che un giorno destavano tante lotte e tante passioni, sono un repertorio di convenzione, non rispondente piú allo stato reale dello spirito. C’è passato sopra Giacomo Leopardi. Diresti che, proprio appunto quando s’è formata l’Italia, si sia sformato il mondo intellettuale e politico da cui è nata. Parrebbe una dissoluzione, se non si disegnasse in modo vago ancora, ma visibile, un nuovo orizzonte. Una forza instancabile ci sospinge, e, appena quietate certe aspirazioni, si affacciano le altre.
L’Italia è stata finora avviluppata come di una sfera brillante, la sfera della libertá e della nazionalitá, e ne è nata una filosofia e una letteratura, la quale ha la sua leva fuori di lei, ancorché intorno a lei. Ora si dee guardare in seno, dee cercare se stessa: la sfera dee svilupparsi e concretarsi come sua vita interiore. L’ipocrisia religiosa, la prevalenza delle necessitá politiche, le abitudini accademiche, i lunghi ozi, le reminiscenze d’una servitú e abbiezione di parecchi secoli, gl’impulsi estranei soprapposti al suo libero sviluppo, hanno creata una coscienza artificiale e vacillante, le tolgono ogni raccoglimento, ogn’intimitá. La sua vita è ancora esteriore e superficiale. Dee cercare se stessa, con vista chiara, sgombra da ogni velo e da ogni involucro, guardando alla cosa effettuale, con lo spirito di Galileo, di Machiavelli. In questa ricerca degli elementi reali della sua esistenza, lo spirito italiano rifará la sua coltura, ristaurerá il suo mondo morale, rinfrescherá le sue impressioni, troverá nella sua intimitá nuove fonti d’ispirazione, la donna, la famiglia, la natura, l’amore, la libertá, la patria, la scienza, la virtú, non come idee brillanti, viste nello spazio, che gli girino intorno, ma come oggetti concreti e familiari, divenuti il suo contenuto.
Una letteratura simile suppone una seria preparazione di studi originali e diretti in tutt’ i rami dello scibile, guidati da una critica libera da preconcetti e paziente esploratrice; e suppone pure una vita nazionale, pubblica e privata, lungamente sviluppata. Guardare in noi, ne’ nostri costumi, nelle nostre idee, ne’ nostri pregiudizi, nelle nostre qualitá buone e cattive; convertire il mondo moderno in mondo nostro, studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo; «esplorare il proprio petto», secondo il motto testamentario di Giacomo Leopardi: questa è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna, della quale compariscono presso di noi piccoli indizi con vaste ombre. Abbiamo il romanzo storico: ci manca la storia e il romanzo. E ci manca il dramma. Da Giuseppe Giusti non è uscita ancora la commedia. E da Leopardi non è uscita ancora la lirica. Ci incalza ancora l’accademia, l’Arcadia, il classicismo e il romanticismo. Continua l’enfasi e la rettorica, argomento di poca serietá di studi e di vita. Viviamo molto sul nostro passato e del lavoro altrui. Non ci è vita nostra e lavoro nostro. E da’ nostri vanti s’intravede la coscienza della nostra inferioritá. Il grande lavoro del secolo decimonono è al suo termine. Assistiamo ad una nuova fermentazione d’idee, nunzia di una nuova formazione. Giá vediamo in questo secolo disegnarsi il nuovo secolo. E questa volta non dobbiamo trovarci alla coda, non a’ secondi posti.