Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro VIII/Capo I
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LIBRO OTTAVO.
REGNO DI FERDINANDO I
anno 1815 A 1820.
CAPO PRIMO.
Cenno sullo stato del regno al ritorno del re Borbone; provvedimenti di governo e tristi casi.
I. Cadde Murat nel 1815; ma non seco leggi, usi, opinioni, speranze impresse nel popolo per dieci anni. Delle età delle nazioni non è misura solamente il tempo; talvolta non bastano i secoli a figurarle, tal altra volta bastano i giorni. Vi ha per i popoli un periodo di crisi, e per noi fu tale il decennio de’ re francesi; tutte le instituzioni cambiarono, tutte le parti della società e dello stato mutarono in meglio o in peggio. Il codice civile che nel 1805 divagava in cento volumi, si trovò compreso nel Codice Napoleone, monumento di civile sapienza. Il Codice Penale che a stento si cercava ne’ dispacci o consuetudini del foro, fu raccolto in un corpo di leggi, come che imperfette per la disordinata misura de’ delitti e la soperchia severità delle pene. All’antico processo, oscuro, iniquo, era succeduto il dibattimento. Si trovò un codice sapientissimo di commercio.
La finanza pubblica, che prima componevasi di tributi vaghi e varii, derivati da vecchi abusi feudali, come il Testatico, l’Adoa, il Rilevio; o da pretesti come la Nave bruciata, il Dono gratuito; o da buone cause come il dazio del sale, del tabacco, delle decime; la finanza pubblica rozza ne’ suoi principii, confusa ed ineguale negli effetti, fu lasciata ricca ed ordinata: misura de’ tributi la rendita, gli arrendamenti ritornati al fonte della finanza, chiarito ed ordinato il debito pubblico, fondata la cassa di ammortizzazione, disegnata quella di sconto. Due tarli, avidità e discredito del governo, generati dagli usi e dalle incertezze della conquista, rodevano la finanza: pace e stabilità erano i rimedii, ma in potere del tempo. L’amministrazione delle comunità e delle province, licenziosa innanzi, si trovò ordinata; a’ presidi che avevano potere misto, vario, inefficace, succederono gl’intendenti; ed alle pratiche incerte di amministrazione, leggi e regole, forse troppe. Dalle comunali ricchezze, accresciute delle spoglie della feudalità, derivarono benefizi privati e pubblici; prendevano cura delle comunità i decurionali ed i consigli di distretto, di provincia, di stato; e poichè alle numerose pubbliche congreghe è insito l’amore ed il vanto delle ragioni de’ popoli, l’amministrazione fu nel regno instromento di libertà.
I conventi erano disciolti; la feudalità sradicata: molte violenze colpirono gli antichi baroni, ma necessarie; che non si rinnovano gli stati come si mantengono; bisognando misura e forme a mantenerli, necessità e vigore a rinnovarli.
La religione indebolita, le credeuze derise o sbandite, nè quelle perdite ricambiate da nuove virtù, o moderate da migliori costumi ed usi civili; che anzi gli usi e i costumi caduti in peggio.
Le opinioni del popolo sul governo dello stato, libere; l’obbedienza alle leggi poca, all’uomo troppa; la licenza e la servità collegate.
II. Fin qui delle cose, ora delle persone. Si trovarono magistrati più abili degli antichi, più giusti, più onesti.
Il clero peggiorato e screditato; perocchè la rivoluzione di Napoli del 1806 tenendo de’ principii e dello licenze della libertà francese, ed il clero (impoverita la chiesa) cercando ricchezze fuor dell’altare, fu meno ipocrita e meno tristo, ma più scandaloso; gli sfratati, cambiati in preti, a’ preti col consorzio nocevano.
I nobili antichi poveri e cadenti, i nuovi poco esperti alla nobiltà e di essa non gelosi perchè in altro modo possenti; e gli uni e gli altri decoro della monarchia non sostegno; giacchè, aboliti i privilegi, la nobiltà divenuta classe di possidenti, aveva gl’interessi non più di ceto ma di popolo.
Dell’esercito Murattiano pochi i soldati perchè i più disertarono, molti gli uffiziali, troppi i generali; de’ quali avanzi lo spirito inquieto, presuntuoso il discorso, cresciuto l’animo di guerra e ‘l desio di onore, attenuata la disciplina, peggiorato il costume.
Gli ambiziosi usati ad aver premio di ogni servizio, ed a trovare impiego di ogni talento e fortuna.
La plebe avvezza a’ disonesti guadagni delle discordie civili, al sacco della feudalità, a’ comodi dell’eguaglianza; perciò avida, irrequieta, indomabile se non dalla forza.
De’ re spento il prestigio da che Giuseppe e Gioacchino sursero nuovi sotto gli occhi del popolo e furono degli antichi più chiari e potenti; la monarchia cangiata da che basi dell’antica erano i privilegi e ’l favore; della nuova, il merito e la eguaglianza: il rispetto cieco de’ padri nostri mutato in sentimento di timore per la regia possanza o di amore per le opere regie; l’affetto trasformato in calcolo. Morale cambiamento attivo, fecondissimo.
Il popolo, travagliato per venti anni da fortune contrarie, ricordava le ingiuste persecuzioni del 93, la tirannide del 99, il dispotismo de’ seguenti anni, le fallace della moderna libertà, la rapina e la superbia degli eserciti stranieri, la invalidità del proprio esercito. Numerava le promesse mancate, i giuramenti spergiurati, gl’inganni fattigli per trarne profitto di dominio e di lucro. Sapeva che re antichi e re nuovi non curando le persuasioni de’ soggetti avevano comandato, i primi col prestigio, i secondi colla forza. Ma oramai dissipato il prestigio e spezzata la forza, erano i borbonici e i murattiani pochi; e la maggior parte dei pensanti, settarii o liberali, non discontenti della caduta di Gioacchino, solleciti e sospettosi del successore.
I popoli e i principi si osservavano a vicenda. ricambiandosi i timori e le speranze. All’universale desiderio della indipendenza nuovamente surto, siccome ho detto, negli ultimi anni, avevano i vincitori contrapposta il domma politico della legittimità, la quale se restringevasi al ritorno degli antichi re, avrebbe ricordato i mali che quelli operarono, e dato sospetto che per vendetta e per genio distruggerebbero della civiltà nuova per fino le cose giovevoli a loro; ma i re fecero miglior promessa, e il popolo fu lieto in udirgli; ravveduti e modesti, confermare alcuni le buone leggi e promettere tutti franchige nuove; e sentì rassicurarsi al vedere governo moderato in mano de’ vecchi reggitori ammaestrati dalle sventure; invece che de’ nuovi, guasti dalla fortuna, eccessivi nel comando, abili a rompere ogni freno. Sperò quindi il popolo nella pace un nuovo patto, stabile e a tutti egualmente profittevole, del quale gli erano documento gli editti stessi de’ re. E se le promesse della legittimità si mostravano sincerità e non inganno, i popoli vi aderivano; ed oggi l’Europa riposerebbe da’ suoi travagli.
Tale per cose e persone i re francesi lasciarono il regno.
III. Il congresso di Vienna per la guerra d’Italia mossa da Gioacchino nell’anno quindicesimo lo dichiarò decaduto dal trono di Napoli, e ristabilita la vecchia dinastia de’ Borboni. Dipoi, cominciate le sventure dell’esercito di Murat, il re Ferdinando preparò armi di terra e mare per assaltare la Calabria, e proclami e decreti per lusingare i Napoletani; ma o tardi a muovere il re di Sicilia, o troppo celeri i precipizii dell’altro, quelle armi e que’ fogli giunsero in Napoli quando la conquista era già compiuta da’ Tedeschi, L’esercito siciliano, della non sua gloria superbo, fece tardo e pomposo ingresso, mentre de’ proclami scemava il pregio la già pubblicata convenzione di Casalanza. Ma esercito ad esercito rinnito faceva il re più potente; ed aggiunte a’ trattati le promesse, più quetava il popolo e più sperava.
De cinque fogli del re, scritti in Messina dal 20 al 24 maggio erano i sensi: pace, concordia, oblio delle passate vicende; vi traluceva la modesta confessione de’ proprii torti; parlavasi di leggi fondamentali dello stato, di libertà civile, di formali guarentige; e così vi stava adombrata la costituzione senza profferirsene il nome. Erano confermati gl’impieghi militari, mantenuti i civili; conservati i codici del decennio e gli ordinamenti di pubblica economia. Non dunque altrui dolore scortava il re al trono antico, e mille speranze di bene destavansi negli onesti.
Furono ministri il marchese Circello veterano della monarchia assoluta, indotto scolare di moglie indotta; Il cavalier Medici estimato di fine ingegno, già due volte tenuto in carcere come partigiano di libertà nel regno, di monarchia nella repubblica, uomo perciò di fama pregiata, ma varia; il marchese Tommasi, nuovo in Napoli perchè ne uscì giovanetto, raccomandato dall’elogio ch’ei serisse del Filangieri. De’ tre ministri, Circello abborriva colle idee nuove il decennio francese; gli altri due, meno avversi, ma presuntuosi assai più, non tenevano in pregio le nostre cose. E tutti, re, ministri, consiglieri, prima marciti nell’ozio e nella servitù di Sicilia, poi travagliati dalle pratiche di libertà della siciliana costituzione dell’anno 12, ed infine scacciati di magistratura e spatriati o confinati, non avevano seguita la rivoluzione di Napoli nelle leggi ed instituzioni; sapevano di lei solamente le congiure e le condanne, credevano peggiorato il regno. Riguardavano Napoleone ed i re nuovi come usurpatori, le opere del decennio come delitti, gli operatori come rei: un governo di dieci anni riconosciuto in Europa, consolidato da codici, ordini di stato e bene pubblico, era chiamato occupazione militare. I fogli di Messina e di Casalanza non dunque da persuasione, ma da politica o necessità erano dettati; i nostri impieghi, le acquistate facoltà, ii viver nostro, non erano già nostri diritti, ma doni di regale clemenza.
IV. Il telegrafo segnò la partenza del re da Messina, ed allora la regina Murat sciolse dal porto di Napoli, prese i figli a Gaeta, e seguì l’odioso cammino di Trieste. Il vascello dov’era imbarcata s’incontrò all’altro che menava in Napoli il re Ferdinando, e l’ammiraglio apprestando i consueti omaggi disse alla Murat (sotto specie di bontà per dileggio) che non prendesse spavento del tiro del cannone, non essendo che a salva per festeggiare l’incontro del re di Napoli. E colei, che aveva animo ed uso regio, rispose, non essere ai Bonaparte nuovo nè ingrato quel romore. La nemica fortuna crucciava in tutti i modi la caduta famiglia: Gioacchino vagava in mare sopra fragil naviglio, a ventura più che a disegno, Carolina, tenuta per alcuni giorni nel porto, vide le feste della sua sventura, tollerò la scostumata plebaglia che sopra piccole barche si avvicinava al suo legno per cantare canzoni d’ingiuria, ed alfine libero lo sguardo e l’orecehio da spettacoli e suoni tanto molesti, s’incontrò prigioniera al fortunato rivale, e gli accrebbe la gioja del trionfo.
Il dì 4 giugno arrivò il re in Baja, il 6 a Portici, dove invitati si adunarono i generali murattiani e borbonici. Lo sguardo del re scorrea sopra tutti benigno ed eguale, ma le due parti biecamente guatavansi e dispettose; l’una era vinta, nè l’altra vincitrice; scambiavansi occultamente le false ingiurie d’infedeltà e di servaggio; all’amibizione degli uni pareva intoppo la nuova politica del re, all’ambizione degli altri il suo vecchio favore. Erano eguali tra loro l’odio e ’l disprezzo.
Il re, tre giorni dopo, fece pubblico ingresso in città, stando a cavallo con piccolo corteggio; erano mansueti i destrieri, semplici gli arredi e i vestimenti, contrapposti allo splendore ed al lusso del re Gioacchino. E perciò il volgo, querulo sempre, chiamava quello re da scena, e chiama ora questo re contadino; la pompa del primo prodigalità, la modestia dell’altro avarizia. Si fece festa per varii giorni e sincera; gli addolorati della caduta di Murat sospiravano, ma sommessamente, perchè quel dolore non aveva cagione pubblica; era pietà, gratitudine, amicizia, mesti e taciti sentimenti del cuore.
V. Ma i moti prodigiosi della Francia dopo il ritorno di Bonaparte dall’Elba, e la vastità del suo ingegno e della fortuna adombravano le prosperità del governo di Napoli, quanda giunse la nuova della battaglia di Vaterloo, ancora ignorandosi quella di Ligny, perciocchè la fama questa volta fu contro suo costume più celere nei lieti annunzii che ne’ contrarii. Con feste la vittoria fu celebrata. Il comandante di Gaeta, che ancora combatteva sotto l’insegna di Murat, a quello avviso cedè la fortezza; Pescara ed Ancona erano state cedute mesi innanzi, delle quali tre cessioni è debito che io favelli.
La fortezza di Pescara comandata dal general Napoletani fu resa nel 28 maggio; quella di Ancona, dal general Montemajor, nel dì seguente. Un araldo del re Ferdinando intimò a que’ due comandanti di arrendersi, e subito le porte si spalancarono. Fu araldo un già colonnello di Murat, unica macchia dell’onorata sua vita, im perciocchè nella mutazione degli stati quel cambiar necessario di bandiera è cordoglio agli eserciti non onta; ma nel passaggio se alcuno palesi volontà, o ambizione, o letizia, dà prova di animo incostante e servile. L’onor militare ha cangiato natura, e da gladiatorio qual era è fatto civile, che non più si ammira l’arte, il valore, la fortuna istessa di guerra, quando si combatte per iniqua causa, La tomba di Moreau giace oscura e non pianta; si onora la memoria de’ soldati francesi che tra le disperazioni di Vaterloo per volontarii vicendevoli colpi si uccisero; si abborrono i nomi de’ fortunati disertori di quella battaglia. Oramai la milizia (e ne siano rese grazie alla civiltà del secolo) se mercato di sangue e di servitù, è tenuta a vergogna; ma se strumento di nazionale difesa e grandezza, è virtù e decoro.
Alle prime intimazioni dell’araldo cederono i comandanti di Pescara e di Ancona benchè avessero numerose squadre, armi soperchie, vettovaglie abbandanti. Fu ignoranza e timore; avvegnacchè nati soggetti del re Borbone, riputavano colpa dissobbedire al suo cenno, temevano il noto sdegno e la superbia. Ancona restò presidiata dalle armi tedesche, poi resa al papa. Pescara fu smantellata, aperte per forza di mina diciassette brecee nei baloardi, oltraggio a re amico, sospetto di novelle guerre, e provvedimento per futura conquista. Lo stesso araldo ed i mali esempii non turbando la costanza del general Begani che comandava in Gaeta, durò l’assedio, ma lento. Dopo la battaglia di Vaterloo e la prigionia di Bonaparte, la bandiera de’ tre colori (testè sì altiera) sventolava, solitaria nel mondo, sopra i nudi sassi di Torre Orlando, bizzarria di fortuna e celebrità per quella rocca, sgomento e pericolo per Begani. Egli allora diè la fortezza, ma del lento ubbidire fu punito dal re, premiato dalla fama.
Chi disse ingiusta la pena, chi giusta, delle quali sentenze riferirò i concetti. Essere perduta l’Italia da’ Francesi e ’l regno da Gioacchino, la Francia assalita, l’Europa collegata co’ Borboni di Napoli, distrutta la importanza di Gaeta, impossibile ogni soccorso, la difesa inutile anzi colpevole delle morti e dei danni; Ferdinando legittimo re, per le armi disceso e dalle armi ricondotto sul trono, rinvigorite le sue ragioni, la sospensione di regno cessata; il generate Begani nato suddito di lui, ora suddito nuovamente, e se nemico, ribelle. Così gli uni.
Ma i contrarii dicevano: essere una legge degli assediati, non cedere, che a necessità; l’orecchio sorda a minacce o lusinghe, il guardo breve quanto il tiro dell’armi, e nel recinto della fortezza chiusa il loro mondo, a loro nessune altre leggi o doveri. solamente sacra la religione dei giuramenti. Non giudica egli della cessata importanza di combattere o della impossibilità de’ soccorsi, essendo incapace di misura il giusto momento di una fortezza. Se nell’anno 1798 il governatore di Gaeta non ne apriva le porte, la invasione francese fermavaasi al Garigliano, la repubblica, il brigantaggio, le atrocità del 99, il cardinal Ruffo, lo Speciale, e tanti nomi e cose abborrite non lorderebbero la nostra istoria; così che al poco spirito del vecchio generale Tschiudy si attenevano tante morti e vergogne. E se Gaeta nel 1806 poteva reggere altri otto giorni, l’esercito di Francia sforzato da’ borboniani usciva dal regno, o riparavasi a stento negli Abruzzi, eppure la potenza francese signoreggiava in quel tempo l’Italia ed atterriva l’Europa.
Il re Ferdinando aveva perduto il regno per le armi, armi che lo acquistarono a Carlo suo genitore; la sovranità non migra, non migrano le nazioni, perchè l’una e l’altre sono legate al suolo della patria comune ed a’ cittadini. Ferdinando III di Sicilia era re straniero a’ Napoletani, la difesa di Begani così legittima come quella di Philipstad; e Begani, benchè nemico, innocente. Se vi ha macchia in lui è il non avere atteso nel difendere la fortezza l’estremità di forza o di fame.
Di tre comandanti due spregiati benchè potenti, Begani esule, venerato, dimostrano quale fosse il voto del mondo, e quanto folle la speranza de’ re di assegnare a volontà loro la vergogna o l’onore.
VI. Cominciava il riordinamento del regno dalla finanza pubblica. Il re avea contratto molti obblighi nel congresso di Vienna: doveva all’Austria ventisei milioni di franchi, prezzo della conquista, al principe Eugenio cinque milioni per indiscreto dono, e nove milioni a’ ministri potenti del congresso per mance di allegrezza, o per comprato favore; e nutrire l’esercito tedesco, il siciliano e ’l molto che avanzava del murattiano; volevasi mercede agli usciti, pane a’ fedeli, premio a’ partigiani, abbondanza a sè stessi. Ma così ampia era la finanza decennale che bastava a tanti bisogni, ora viepiù che il credito ristorato per la pace europea prometteva facile ricchezza al gran libro, e che all’ingegno avido dell’Agar la sottile parsimonia del Medici succedeva. Furono perciò confermati i sistemi finanzieri dei decennio, la legge delle patenti abolita; la quale gravezza risguardando le industrie, i mestieri, le arti, una gran massa di ricchezze e rendite sfuggì dalla finanza pubblica, e ne fu cagione la ignoranza delle dottrine economiche ed i vecchi usi ed errori del ministro.
Si restituirono agli usciti, poi rimpatriati con Ferdinando, i loro beni, ancorchè nel decennio venduti, e l’erario richiamò i doni di Giuseppe e Gioacchino; le quali forzate restituzioni produssero scontento a molti e talvolta vitupero al governo. Erano fra i donatarii gli orfani figli del marchese Palmieri, giustiziato nel 1807 qual cospiratore contro Giuseppe a pro di Ferdinando; le spese del giudizio furono grandi, i figliuoli miseramente eredi dovevano pagarle, ma Gioacchino le donò al pianto supplichevole della vedova. Ora la nuova finanza richiedeva quel dono; e colei, pregati senza frutto i ministri, si portò sicura di grazia alla reggia, non più abitata dai re traditi, ma dall’altro che fu cagione del tradimento. Pur le sue lacrime tornarono vane, e l’afflitta famiglia pagò il capestro del padre.
VII. Sopro rendite inscritte si vendevano i beni dello stato, si francavano i censi, si alienavano i beni delle fondazioni pubbliche; ed in tanti modi ricercate quelle rendite, e salite in maggior pregio, la finanza creando nuove cedole, accumulò ricche somme. Ma il debito dello stato cresceva; era di ducati ottocentomila al cadere di Murat, fu indi a poco doppiato. E maggiore pericolo derivava da quegli artifizii perchè tutte le fondazioni di universale giovamento, monti di pietà, ospedali, case, di arti, di scienze, di educazione, perderono il patrimonio de’ loro beni, spacciati dal governo e mutati in rendite sul gran libro dello stato. E perciò tutti i mezzi di civiltà trovandosi legali alle sorti della finanza, un imperioso bisogno, una spietata conquista, il cuore empio di un re poteva, negando o sospendendo quegl’impegni, respingere sino alla miseria tutta la napoletana società.
Tra le compre de’ suddetti beni, una che ne fece un ministro diede onta a lui, discredito al governo, e ragion vuole che io qui la narri; che a figurare il quinquennio (disegno con questo nome della sua durata il tempo del quale scrivo; come ho chiamato decennio i due regni uniti della stirpe Napoleonica), si richieggono molti fatti, ognuno de’ quali sembrerebbe non degno di ricordanza. Non aspetti il lettore le consuete cause delle rivoluzioni, tirannide attiva, decaduta finanza, depredate proprietà, vite spente o minacciate; ma più falli che colpe, leggere insidie, odii oscuri, rivoli quasi inosservati per cinque anni del politico torrente che inondò il regno nell’anno 20. È grave lo scrivere, tedioso il leggere di particolarità e di persone; ma sarà frutto della comune fatica la spiegazione di un fenomeno forse nuovo nel inondo. Fu visto emergere la rivoluzione dal seno di monarchia moderata, ricca finanza, quasi non macchiata giustizia civile; fu visto abbattere un reggimento che pure aveva partigiani ed amici, ed altro formarsene che di molti offendeva le opinioni e l’interesse; e quella novità, non appena mossa da pochi, seguita dai più, da tutti applaudito. Paradossi che diligente istoria spiegherà, descrivendo i vizii di ogni parte dello stato, e dando nome al morbo che lo spense.
Si vendeva la ricca dote dell’accademia reale, assegnata da due ultimi re per sostegno delle scienze e degli scienziati, e n’era tenue l’affitto come addiviene de beni pubblici. Il marchese Tommasi la comperò contro rendite inscritte, il guadagno fu grande, la già prodigiosa di lui fortuna fu doppiata, l’accademia perdè per sempre la speranza di miglior patto. I modi furono turpi: la legge che poneva in vendita i beni dello stato fu tenuta occulta dal ministro cancelliere per dar tempo al marchese di fare acquisto delle rendite, prima che l’effetto necessario di quella legge ne crescesse il valore; dipoi pubblicata, il ministro della giustizia per autorità e preghiere allontanò i concorrenti dalla compra; ed infine il ministro dell’interno, capo e sostenitore dell’accademia, non promosse la concorrenza, nè svelo gl’inganni. E perciò appare che tre ministri, dimentichi de’ doveri propri, giovassero al marchese Tommasi; ma, vergogna maggiore, que’ tre ministeri per intemperanza di regio favore erana fidati al marchese Tommasi lui stesso.
Gli errori e le frodi narrate apportavano piccolo danno all’erario per due qualità del ministro Medici, parsimonia allo spendere, fede agli impegni; perciocchè i talenti di lui; nulli o scarsi nelle dottrine della finanza, sono eminenti per le scaltrezze o i rigiri di banco, sì ch’egli ultimo finanziero, è il primo banchiere de’ nostri tempi. Il debito esterno sminuiva di giorno in giorno ed all’anno 1823 si estingueva; i pesi interni si pagavano esattamente. Si fondò la cassa di sconto, usata in Inghilterra, in Francia ed altrove, sicura dove le leggi fan certe le prosperità, utile se il denaro soprabbonda; alla quale fu impiegato un milione di ducati del banco di corte: così la finanza volgendo i privati depositi e gli altrui capitali a su profitto, con abuso di fede, ma nei tempi di pace senza danni o pericolo.
Deriva da quel che ho detto che la nuova finanza serbò le istituzioni del decennio; ma fu di natura meno avida, non infida, per credito migliorata, per alcune particolarità più disonesta. Mancavano ad entrambe le maggiori sorgenti di ricchezza, cioè le intraprese dell’industria privata collegate alla finanza pubblica; felice innesto che solamente alligna in paesi liberi, ma non si appiglia o presto muore sotto governi assoluti. Essendo grave all’erario il mantenimento dell’esercito tedesco, s’imprese a comporre il proprio esercito.
VIII. Un ministro di guerra sarebbe stato borbonico o murattista: fu creato un consiglio detto supremo, come antico quello di Vienna, composto dal principe reale don Leopoldo presidente, del marchese Saint-Clair vice presidente, e di quattro generali, due di ciascuna parte, consiglieri. Dell’esercito di Murat pochi soldati, come innanzi ho detto, restarano alle bandiere; e molti, pericolo alla tranquillità pubblica, disertarono: dell’esercito di Sicilia erano varie le schiere, variamente amministrate. I due eserciti ora uniti, testè nemici, avevano diversi gli ordini, l’indole, il vestimento; disparità che facevano deboli quelle milizie, e perciò ridurle a concordia di uomini e di cose doveva essere la scopo degli ordinatori.
Ma il supremo consiglio non era pari all’uffizio: inesperto alle pubbliche faccende, mirò (facil guida degli ingegni nuovi) alla perfezione ideale; blandi per ambizione il partito trionfatore; si perdè în gare di vanità che racconterò brevemente.
I due primi del consiglio: uno della famiglia, l’altro della casa del re, avevano passione e cure di corte; a quattro minori era dato il carico di governare l’esercito; ed essi per mostra d’imparzialità, se della parte borbenica erano sempre avversi a’ borbonici, e se della murattista, a’ murattisti; e per dare pruova di animo elevato e benigno, ora gli uni, ora gli altri difendevano gli oppressi della opposta setta. Si scambiarono le veci, non mutarono le cose, vi furono fazioni, favori, oltraggi, scandalo, irritamento.
Tal cra il consiglio; discorriamone le opere. Radunarono in Salero i resti dell’esercito di Murat, tutte le milizie venute di Sicilia furono guardie reali. Dipoi composero alcuni reggimenti mescolando soldati ed uffiziali delle due parti, ma dando a quelli del decennio stipendio più scarso, a quelli di Sicilia più largo; i generali rimpatriati col re furono promossi di uno o due gradi; fu decretato che a grado uguale nel 23 maggio 1815 (giorno della restaurazione borbonica) gli uffiziali dell’esercito siciliano si preferissero ai Napoletani, qualunque fosse l’anzianità de’ servigi; nè ancora satollo di favori, il re alle posteriori promozioni de’ favoriti da lui pone l’antidata del 23 maggio a fine di aggiungere al maggiore grado il benefizio della preferenza. Negli eserciti l’anzianità è verità, materiale, immutabile come il tempo; può l’affetto o la intemperanza de’ potenti cumulare gradi a gradi, ma non far più lenti gli anni dell’uno, più celeri quelli dell’altro.
Dell’ordine cavalleresco delle due Sicilie, mantenuto per trattati e promesse, furono cangiati colori, stemma, epigrafe, e così trasformato nemmeno piacque al governo; il corpo di marina dovè nasconderlo; degli altri uffiziali dell’esercito, i timidi lo deposero, gli animosi erano malvisti; nei circoli di corte bisognava celare que’ fregi allo sguardo del re, o soffrirlo austero; nel nuovo scudo della monarchia quell’ordine non aveva segno. Le due parti dell’esercito erano dunque separate più che non mai, e ne derivava debolezza allo stato, onta al supremo consiglio, pericolo al governo.
Si rinnovarono le ordinanze militari, e tutto essendo nuovo, fu generale la inesperienza e ’l fastidio. La stessa tattica mutò, nata da Gustavo, perfezionata da Federico, usata da tutta Europa guerriera, rispettata da Bonaparte, sperimentata in tante guerre, coronata di successi e di gloria, parve imperfetta, e la riformavano quattro generali, due di un esercito non mai guerriero, e due di un’altro mai sempre vinto.
IX. Così la milizia. Nell’amministrazione civile, confermati gli ordini municipali e provinciali ma rivocato il consiglio di stato, restarono i consigli alle comunità, a’ distretti, alle province, mancò al regno; e poichè ad esso annodavansi le fila della economia generale, restò la catena interrotta e lo stato senza unità di amministrazione. Il nome gli fu cagione di morte; il consiglio di stato borbonico, benchè ozioso, era in mente del re Ferdinando il più alto magistrato della monarchia; ed un consigliere, assai maggiore di un ministro; però che ministri avea spesso nominati per necessità, non mai consiglieri se non per affetto; distinzione potentissima nell’animo regio avvezzo a misurare l’autorità e ’l merito dei soggetti dalle concessioni del suo favore. Se dunque il consiglio di stato del decennio si chiamava altrimenti, era forse mantenuto.
Gioacchino lasciò imperfetta l’amministrazione: sebbene avesse il pensiero di migliorarla, gli mancò il tempo; preparava nuova legge allorchè per Bonaparte uscito dall’Elba, e lui stesso mosso alla guerra d’Italia, restò interrotto il lavoro, che indi a poco perì affatto per la celere caduta di questo ardito monarca. Era gloria serbata al successore; ma questi, dando suo nome alle leggi di Giuseppe e Gioacchino, le confermò ciecamente; e maggiore odio gli nacque, avvegnachè i popoli attendono da’ vecchi governi quiete, parsimonia, abbondanza, come da nuovi gloria, imprese, grandezza. Volgevano sempre in peggio le cose amministrative, non importando al re il ministero dell’interno, che per venti mesi restò abbietto e quasi dimenticato nelle mani del ministro di giustizia; indi fu commesso ad un tal Parise siciliano, settuagenario, inesperto e nemico delle nuove cose, schernitore delle belle arti e delle scienze; e, lui morto, al ministro di marina general Naselli, meno nuovo del Parise alle cose nuove ma più ignorante; nelle quali scelte svelavasi la timida ambizione de’ ministri Medici e Tommasi, i quali volevano accerchiare il re e se stessi d’uomini inetti, acciocchè la propria mediocrità risplendesse.
X. A riformare i codici dello stato furono eletti parecchi magistrati di buona fama e dottrina; duravano intanto i codici del decennio, abolito solamente il divorzio e mutate in peggio le leggi di successione: altre adunanze riformavano il codice militare. Il governo era sollecito di far disparire dagli atti pubblici i nomi e i tempi di Giuseppe e Gioacchino, sperando, superbo e stolto, cancellare que’ due re da’ fasti della istoria e dalla memoria degli uomini.
Ho riferito ne precedenti libri che a’ primi tempi del decennio furono composte molte commissioni militari, tribunali atroci, nella novità di regni necessarie rigidezze, diminuite sotto Gioacchino, abolite affatto verso ii fine del suo regno. Tornarono pochi mesi dopo il ritorno dei Borboni, essendo turbata la quiete pubblica da gran numero di malfattori. Nè quel rigore bastando, usci decreto, del quale i modi e gli effetti io qui discorro per tracciare le vicende di civiltà e di barbarie tra cui vacillavano gli ordinamenti dello stato. Una giunta composta dell’intendente, del comandante della provincia e del presidente della corte criminale, formava e pubblicava la lista de’ fuorbanditi; la vita degli inseritti era messa a prezzo, e dato a tutti la facolià di spegnerla; premiavasi nel modo istesso l’arresto; il giudizio consisteva nel solo alto di identità, tenendo i delitti come provati; la pena era di morte, inappellabile la sentenza, immedialo l’effetto.
La effrenata potestà di quelle giunte voleva nei membri suoi prudenza quasi soprumana, e modo, senno, benignità, giustizia; ma pure i giudizii loro furono sì negligenti e precipitati che spesso vedevansi scambiati nomi e segnali de’ fuorbanditi, e inseritti nella esiziale lista uomini non rei, crcduti grassatori perchè indicati dal romore pubblico, o assenti, o dimenticati nelle prigioni, o soldati nell’esercito; de’ quali errori molti scoperti e corretti, più molti occultati dalla morte. Non erano di tanta asprezza le pratiche del decennio: allora non si metteva a prezzo la vita dei fuorbanditi; e presi, andavano al giudizio colle forme comuni: dibattimento e difesa.
Per altra legge aboliti i giudici correzionali, l’azione non più fu pubblica; la querela dell’offeso moveva il procedimento, il perdono lo troncava; le antiche rimessioni e trabsazioni spente colla feudalità. rividero il giorno. Erano colpe correzionali le ingiurie, le battiture, le non mortali ferite, le leggere violenze al pudore, che dopo quella legge restavano impunite se îl potere o la ricchezza del colpevole compravavo il silenzio o il perdono. Ingiustizia più scandalosa giacchè ad oltraggio dei deboli e de miseri, e più sentita perchè nel secolo delle uguaglianze, nata per l’avarizia del fisco, apportando que’ giudizi correzionali spesa non lieve al tesoro.
Tale giustizia era nelle leggi, notiamone alcuni effetti. Il principe Philipstad aveva due figliuole adulterine, e ’l duca di Spezzano parecchi figli della stessa colpa. Il codice vietava che fossero legittimati, ma il re li dichiarò legittimi in grazia de’ due genitori a lui cari, con grave danno degli eredi naturali e con offesa delle leggi.
Per altro decreto fu richiamato ad esame un giudizio feudale, deciso, prescritto, e la novella sentenza di magistrato composto ad arbitrio fu in danno della comunità, in benefizio del duca d’Ascoli favorito del re.
Antica lite tra il duca di Diano e ’l marchese di Villanova era stata nel decennio decisa e prescritta a pro del primo; divenuto possessore legittimo e sicuro di patrimonio ricchissimo. Ma il Diano era odioso al re Borbone, il Villanova era caro, e perciò la lite essendo rianimata per lettere regali nel 1815, timori nell’uno, speranze nell’altro si suscitarono: allorchè la indegnazione del pubblico, il grido, lo scandalo, il sospetto rattenendo gl’impeti del dispotismo non del favore, il re decise che rimanesse il Diano pacifico possessore delle guadagnate ricchezze, ma si concedessero al Villanova ducati duecentomila dalla cassa dello stato.
Gli arbitrii duravano. Accusati di alto tradimento ed imprigionati l’intendente Santangelo, il colonnello Sponsa ed altri gentiluomini di Basilicata, dopo un mese di aspro carcere e di silenzio dimandarono il giudizio, ma non fu concesso, nè sciolte quelle catene, nè la polizia, come per leggi doveva, trasmise a magistrati ordinarii la cura del processo. Indi a parecchi altri mesi i due furon liberi e tornati in carica, e benchè dimostrata calunniosa l’accusa e false le carte presentate dagli accusatori, restarono questi delle nequizie impuniti come amici alla monarchia.
Fra’ militari serbati in impiego per il trattato di Casalanza era il general Zenardî, maledico, avido, cattivo in pace, pregevole in guerra. Il governo volea punirlo di non so quali falli del decennio, e la città ne fu spaventata, temendo il primo esempio di politica vendetta; gli altri generali provvidamente lo difendevano, più potendo in loro il comune pericolo che la privata ambizione, così che il re, sospendendo il cominciato giudizio, scacciò Zenardi in esilio. Già traspariva l’odio pei murattisti, trattenuto dai comandi del congresso di Vienna; e vedevasi la modestia de’ reggitori esser finta, varia, fugace, non assentita dalla coscienza.
Nelle Piagine, torbido e popoloso villaggio della provincia di Salerno, viveva la famiglia Pugli, amante invero del cassato governo, ma onesta. Alcuni tristi del paese, tornati da Sicilia, avidi di sangue e di prede, assaltano in giorno festivo quella casa che chiamano de’ giacobini, la spogliano e incendiano, e legando con funi tutti della famiglia di vario sesso ed età, li traggono nella piazza. Fanno sollecito apparecchio di aride legna, in gran mole disposte in giro, e vi chiudano nel mezzo non meno di cinque della nemica casa. Accendono le cataste, e quando la fiamma si dilatava, rovesciano le materie sopra que’ miseri che vivi bruciavano , o se alcuno tra le fiamme s’apriva un varco, vi era respinto. Quando i lamenti cessarono, indizio di morte, estinguono il fuoco, e fu visto fra le ceneri miserando cumulo di cadaveri in attitudini varie e pietose; il prete Pugli aveva le braccia incrociate al petto; la donna per materno zelo distesi a terra due teneri figliuoli, gli copriva del suo corpo, tal che morti si rinvennero, ma non bruciati. Orrendo spettacolo!
I rei che stavano allegri e sicuri nel villaggio furono imprigionati e condannati a morte dalla commissione militare di Salerno, e subito il difensore viene in Napoli, parla al re, rammenta fatti antichi di que’ condannati (atrocità di brigantaggio, ma servigi a’ BorDoni), dice la distrutta famiglia devota a Murat, nemica del legittimo re, ottiene la implorata grazia, e torna frettoloso in Salerno. Ma giustizia di Dio tanti ostacoli oppose al cammino, al parlare al re, al segnare il foglio, che giunse innanzi del rescritto l’ora fatale, per mano del carnefice furono spenti. Il re n’ebbe sdegno, punì alla cieca il presidente del tribunal militare, e i comandanti della provincia e della divisione, ancorchè suoi devoti.
In Reggio, città della Calabria, fu condannato a morte un tal Ronca, malvagissimo, come il dimostra un solo che narrerò de’ mille suoi misfatti commessi per molti anni da sbandito e brigante. Aveva moglie che lo seguiva ne’ cimenti del brigantaggio; ella incinse e si sgravò di un bambino, i cui vagiti apportando al padre tedio e periglio, egli crudele l’uccise battendo l’innocente capo ad un arbore. Alla quale vista la madre pianse di pietà e di orrore, ed egli, delle lagrime prendendo sdegno e sospetto, scaricò le armi contro la misera donna e la distese morta sopra il cadavere del bambino; nè abbandona già quel luogo atto alla difesa ed alle rapine, sì che l’infame per molti di mangia e dorme innanzi a’ corpi guasti e insepolti del figlio a della moglie. Uomo così perverso ebbe dal re grazia di vita, in mercede di altri delitti commessi per le parti de’ Borboni.
Così di giorno in giorno scemavano le speranze concepite del nuovo governo, e si ammolliva l’odio per l’antico, allorchè sopravvenne la morte di Murat, del qual caso descriverò ogni parte.
XI. Dopo la battaglia di Vaterloo e la caduta dell’impero francese molte voci si divolgavano sulle sorti del re Gioacchino; chi lo diceva in Tunisi, chi in America, o che nascosto si tenesse in Francia, o che travagliato fuggisse a ventura; quando s’intese che da re era giunto in Corsica, ed indi a poco da nemico in Calabria. Qui lo attendea la fortuna per dare al mondo novelli esempii di sua possanza, abbattendo le sublimità ch’ella dalla polvere aveva erette, e confondendo gli estremi di felicità e di miseria.
Ho detto le sventure di lui nella guerra d’Italia, e la fuga dal regno, e come in Ischia, restato un giorno, prese asilo sopra piccolo legno che navigava per Francia. Traversando il golfo di Gaeta, vedendo su le torri sventolare la sua bandiera, pensando che i suoi figli stavano tra quelle mura, e oltre ciò l’impeto naturale ed il lungo uso di guerra lo spingevano ad entrare nella fortezza, ed ivi combattere, non a speme di regno, per disperato consiglio; ma parecchie navi chiudendo le entrate al porto, egli addolorato, proseguì a navigare verso occidente.
Giunse a Frejus il 28 maggio ed approdò al lido istesso che il prigioniero dell’Elba due mesi avanti e con fato migliore avea toccato. Sulla terra di Francia mille pensieri e memorie lo agitavano, le primizie del suo valore, le fatiche, le fortune, il diadema, il nome; e dall’opposta parte gli ultimi fatti della guerra di Russia, l’ira di Bonaparte, le pratiche coll’Austria e con la Inghilterra, l’alleanza e la guerra contro la Francia, l’abbandono e la ingratitudine. Le avversità avevano ammollito quell’animo, e prevalendo il timore alla speranza, non osò recarsi a Parigi, si fermò a Tolone.
Scrisse lettere al ministro Fouchè suo amico nelle prosperità, e diceva: «Voi conoscete i motivi ed i casi della guerra d’Italia; or io in Francia offro all’imperatore il mio braccio, ed ho fede che a’ cieli piacerà di ristorare le sventure di re colle fortune di capitano.» Fouchè presentò il foglio a Bonaparte, che richiese qual trattato di pace avesse egli fermato col re di Napoli dopo la guerra dell’anno 14; così ricordando e vendicando le offese. Gioacchino restò in Tolone, venerato da quelle genti, o che fosse pietà della sua sventura, o memoria dell’antica grandezza, o sospetto di novelle fortune.
Pur quel molesto riposo gli fu turbato dopo i fatti di Vaterloo. Tolone, Nimes. Marsiglia si videro agitate da furie civili e religiose; i partigiani dell’impero trucidati, divise le spoglie. Gioacchino si nascose, e mandò lettere allo stesso Fouchè, che, poco fa ministro di Bonaparte ora di Luigi, serbava illesa l’autorità e la potenza presso re nemici, fra le rovine de’ regni. Gioacchino lo pregava di un passaporto per la Inghilterra, promettendo vivere da privato sottomesso alle leggi. E così scrisse a Maceroni suo uffiziale di ordinanza quando regnava, rimastogli fido, e per ingegno e fortuna noto a’ re alleati. Ma Fouchè non rispondeva, e Maceroni, venuto in sospetto della polizia di Francia, fu imprigionato.
Peggiori ogni dì si facevano le sorti dell’infelice Murat: cercato da’ manigoldi di Tolone, insidiato dal marchese La Riviere, che anni prima scampato per suo favore dal supplizio, ora gli rendeva ingratamente morte per vita; scrisse lettere al re di Francia non superbe nè abbiette, ma da re profugo ed infelice, e le mandò a Fouchè onde le appresentasse alle regie mani; il foglio al re non aveva data per non palesare l asilo e non mentirlo; quello al ministro diceva: dall’oscuro abisso del mio carcere, nè altro di miserevole, vietandolo il regale orgoglio. Nulla ottenne per que’ prieghi, che l’astuto ministro non rispose, e il re pur tacque. Misero e disperato deliberò di recarsi a Parigi e fidare le sue sorti a’ re collegati memore del cinto diadema, e de’ fasti di guerra e de’ confidenti colloquii con que’ re, e delle tante volte distese mani in pegno di amicizia e di fede: egli sperava nobile accoglimento e salvezza. Non imprese il cammino di terra per evitare le strade ancora bagnate del sangue del maresciallo Brune; fece noleggiare una nave che lo portasse ad Havre de Gràce, donde senza periglio poteva recarsi a Parigi.
Fu scelta per lo imbarco spiaggia recondita e molta notte; ma fosse errore a caso, andò la nave in altro luogo, ed egli dopo lungo aspettare e cercarla, vedendo che spuntava la prima luce, andò vagando tra boschi e vigneti; trovò a caso altro asilo, scampò altre insidie, ed alfine sopra piccola navicella fuggì di Francia verso Corsica, isola ospitale, patria di molti che un dì furono suoi seguaci nella guerra e compagni di gloria. Dopo due giorni di navigare sorse improvvisa tempesta, sì che, raccolta la piccola e sola vela latina, corse il legno per trent’ore a fortuna di mare. Calmato il temporale (e fu ventura perchè il piccolo naviglio in più parti sdrucito non poteva reggere alle procelle), scoprirono altra nave più grande che veleggiava verso Francia; e raggiuntala, uno de’ tre seguaci di Gioacchino dimandò con preghi al piloto di accoglierli, e per larga mercede menarli in Corsica. E quegli, o che avesse cuore inumano, o che temesse d’insidia o di contagio, rigettò con disdegno la richiesta. Ma volle fortuna che gl’infelici fossero raggiunti dalla corriera che fa continuo passaggio tra Marsiglia e Bastia; Gioacchino, a viso alzato, palesò il suo nome a’ nocchieri, e soggiunse: «Io Francese parlo a’ Francesi, e vicino al naufragio dimando ajuto a chi naviga fuor di periglio.» Fu accolto ed onorato da re.
XII. Nel dì seguente sbarcò a Bastia. La Corsica in quel tempo era sconvolta da discordie civili, parteggiando i borbonici, i bonapartisti, gl’indipendenti; delle quali parti la prima era poca e debole; e le altre due, più forti, fidavano per novità di stato in Gioacchino. Perciò le autorità dell’isola insospettivano; ed egli per sicurtà e prudenza passò a Vescovado, indi ad Ajaccio, sempre perseguito da’ reggitori dell’isola e sempre difeso dagli isolani sollevati in armi. Le quali popolari accoglienze lo rendevano allo stato di re, mostrandogli falsa immagine di fortuna, sì che spesso diceva: «Se popoli nuovi per me combattono, che non faranno i Napoletani! Io ne accetto l’augurio.» Allora fece disegno, non rivelato che a’ suoi più fidi, di approdare in Salerno, dove tre mila del già suo esercito stavano oziosi e scontenti del governo borbonico; passar con essi ad Avellino, ingrossare, procedendo, di soldati e partigiani; precorrere di tre giorni sul cammino di Basilicata le schiere tedesche, le quali forse movevano da Napoli per combatterlo; riempiere della sua fama tutto il regno; e non volgere alla capitale primachè il grido de’ successi non avesse disordinato il governo, e spinto il timido Borbone alla fuga. Non prevedeva sventure, non curava pericoli, vietandolo naturale baldanza e lungo uso di fortuna e di guerra. Fra’ quali pensieri raccolse una squadra di duecentocinquanta Corsi, fidi a lui, pronti a cimenti, e noleggio sei barche.
Prefisse il giorno al partire; ma, poco innanzi di muovere, lettere del Maceroni da Calvi annunziavano ch’egli portatore di buona nuova era in cammino per Ajaccio. Gioacchino lo attese e quegli, giunto il dimani, narrò brevemente i proprii casi, e gli porse un foglio che in idioma francese diceva:
«Sua Maestà l’imperatore d’Austria concede asilo al re Gioacchino sotto le condizioni seguenti.
1°. Il re assumerà un nome privato; la regina avendo preso quello di Lipàno, si propone lo stesso al re.
2°. Potrà il re dimorare in una delle città della Boemia, della Moravia, o dell’Austria superiore; o se vuole in una campagna delle stesse province.
3°. Farà col suo onore guarentigia di non abbandonare gli stati austriaci senza l’espresso consentimento dell’imperatore; e di vivere qual uomo privato sottomesso alle leggi della monarchia austriaca
Dato a Parigi il 1°. settembre 1815.»
Per comando di S.M.I.R.A.
IL PRINCIPE DI METTERNICH.
«Or dunque, disse Gioacchino, una prigione è il mio asilo! prigione è come tomba, ed a re caduto dal trono non rimane che morir da soldato. Tardi giugneste, Maceroni; ho già fermo il mio destino: aspettai per tre mesi la decisione de’ re alleati; quegli stessi che non ha guari mi ricercavano di amicizia, mi han poi lasciato sotto il ferro de’ mici nemici. Io vo con felici speranze a riconquistare il mio stato; la sventurata guerra d’Italia nulla tolse alle mie ragioni; si perdono i regni e si acquistano per l’armi, i diritti alla corona sono immutabili, e i re caduti risalgono al trono se lo vuole fortuna, istromento di Dio. La mia prigionia, qualora fallisca l’impresa, troverà scusa dalla necessità; ma non mai serberò, volontario schiavo sotto barbare leggi, misero avanzo di vita. Bonaparte rinunziò al trono di Francia; vi tornò per quelle vie che ora io tento, fu sconfitto in Vaterloo e prigioniero. Io non ho rinunziato; i miei diritti sono illesi, destino peggiore della prigionia sarebbe contrario alla ragione delle genti; ma rassicuratevi, sarà Napoli la mia Sant’Elena.»
XIII. Nella notte, che fu del 28 settembre, la piccola armata salpò di Ajaccio, ed era sereno il cielo, placido il mare, propizio il vento, animosa la schiera, allegro il re; fallaci apparenze. Il governo di Napoli molto sapeva di Gioacchino, e dirò come. Appena sentì ch’egli era in Corsica cercò persona che lo spiasse, ed a quel vile offizio si offerse, o (raccomandato dalla sua mala fama) fu richiesto un tale Carabelli, Corso di patria, impiegato da Gioacchino nel suo regno, d’ingegno vario ed ingrato. Si accostò in Ajaccio all’incauto Murat, e simulando gratitudine lo distoglieva dall’impresa; consiglio amichevole come che di nemico, avendo così comandato al Carabelli il governo di Napoli che misurava i pericoli di quella impresa. Quegli dunque riferì di Gioacchino il proponimento, le speranze, gli apparecchi e le mosse, ma il governo nulla faceva in difesa, ignorando il luogo del disegnato sbarco e temendo divolgare i pensieri di Gioacchino pel regno, dov’erano molti ed audaci i suoi partigiani, pochi e deboli i borbonici, e già mancate le speranze che il ritorno dell’antico re avea suscitate ne’ creduli ed inesperti.
Per sei dì l’armata prosperamente navigò, poi la disperse tempesta che durò tre giorni; due legni, l’uno de’ quali tenea Gioacchino, erravano nel golfo di Santa Eufemia, altri due a vista di Policastro, un quinto nei mari della Sicilia, ed il sesto a ventura. Il pensiero dello sbarcare a Salerno impedirono i cieli a noi benigni, perciocchè quelle armi non assai potenti al successo, nè così deboli da restar subito oppresse, bastavano a versare nel regno discordie civili, tirannide e lutto. L’animo di Gioacchino si arrestò dubbioso, e poi disperato ed audace stabilì di approdare al Pizzo per muovere con ventotto seguaci alla conquista di un regno.
XIV. Era l’8 d’ottobre, di festivo, e le milizie urbane stavano schierate ad esercizio nella piazza, quando giungendo Gioacchino colla bandiera levata, egli ed i suoi gridarono: «Viva il re Murat.» Alla voce rimasero muti i circostanti che prevedevano infausta fine alla temerità della impresa. Murat, viste le fredde accoglienze accelerò i passi verso Monteleone, città grande, capo della provincia e ch’egli sperava amica non credendola ingrata. Ma nel Pizzo un capitano Trentacapilli ed un agente del duca dell’Infantado, devoti ai Borboni, questi per genio e quegli per antichi ed atroci servigi, uniscono in fretta aderenti e partigiani, raggiungono Gioacchino e scaricano sopra di lui archibugiate. Egli si arresta e non coll’armi, co’ saluti risponde. Crebbe per la impunità l’animo a’ vili; tirano altri colpi, rimane ucciso il capitano Moltedo, ferito il tenente Pernice, si dispongono gli altri a combattere; ma Gioacchino lo vieta, e col cenno e col braccio lo impedisce.
Ingrossando le nemiche torme, ingomberato d’esse il terreno, chiusa la strada, non offre campo che il mare, ma balze alpestri si frappongono; eppure Gioacchino vi si precipita, ed arrivando al lido vede la sua barca veleggiare da lunge. Ad alta voce chiama Barbarà (era il nome del condottiero), ma quegli l’ode e più fugge per far guadagno delle ricche sue spoglie. Ladro ed ingrato: Gioacchino, regnando, lo aveva tratto della infamia di corsaro, e benchè Maltese ammesso nella sua marina e sollevato in breve spazio a capitano di fregata, cavaliere e barone. Gioacchino, disperato di quel soccorso, vuole tirare in mare piccolo naviglio che è sulla spiaggia, ma forza d’uomo non basta, e mentre si affatica, sopraggiunge Trentacapilli co’ suoi molti, lo accerchiano, lo trattengono, gli strappano i giojelli che portava al cappello e sul petto, lo feriscono in viso, e con atti ed ingiurie in mille modi l’offendono; fu quello il momento dell’infima sua fortuna, perchè gli oltraggi di villana plebaglia sono più duri che morte. Così sfregiato lo menarono in carcere nel piccolo castello, insieme ai compagni che avean presi e maltrattati.
Prima la fama e poi lettere annunziarono alle autorità della provincia que’ fatti, nè furono creduti. Comandava nelle Calabrie il general Nunziante, che spedì al Pizzo il capitano Stratti con alquanti soldati. Stratti si recò al castello, ed imprese a scrivere i nomi de’ prigioni, egli medesimo non credendo che vi stesse Gioacchino; dopo due, dimandò al terzo chi fosse, e quegli: «Gioacchino Murat re di Napoli.» A’ quali detti il capitano compreso di maraviglia e rispetto, abbassò gli occhi, lo pregò di passare a stanza migliore, gli fu cortese di cure, gli disse maestà, ultimi favori o ludibrii della fortuna. Arrivò Nunziante, lo salutò sommessamente e provvide ai bisogni di cibo e vesti. Quel generale nella prigionia di Gioacchino conciliò (difficile opera) la fede al re Borbone e la riverenza all’alta sventura del re Murat.
XV. Per telegrafo e corriere seppe il governo i casi del Pizzo: spavento del corso pericolo, allegrezza de’ successi, ancora sospetti e dubbiezze, odio antico, vendetta, proponimento atroce, furono i sensi del ministero e del re. Si voleva porre in carcere i murattisti più noti e più potenti, mancò l’animo a farlo; si mossero soldati nelle province; si mandò in Calabria con poteri supremi il principe di Canosa, sperimentato strumento di tirannide e di enormità; si afforzò la reggia di guardie e di custodi. Le quali sollecitudini cessavano colla morte di Murat, e ne fu dato il comando per via di segni e di messi: un tribunal militare dovea giudicarlo come nemico pubblico. E mentre il comando di morte volava sulle ale de’ telegrafi, Gioacchino al Pizzo passava il tempo serenamente, dormiva come i fortunati, curava le mondizie della persona, parlava al Nunziante qual re a generale straniero; e nel giorno innanzi al morire gli disse, esser facile accordarsi col re Ferdinando, questi cedendo a lui il reame di Napoli, ed egli all’altro le sue ragioni sulla Sicilia. Ne’ quali pensieri temerarii ed inopportuni traspariva di Gioacchino l’indole e l’ingegno.
Ma il fatale comando della notte del 12 arriva. Si eleggono sette giudici, tre de’ quali ed il procurator della legge erano di que’ molti che Murat nel suo regno avea tolti dal nulla, ed accumulati sovr’essi doni ed onori. Se rifiutavano il crudele uffizio erano forse puniti (come voleva rigor di legge) colla perdita dell’impiego e la prigionia per tre mesi, compravano a basso prezzo onorata fama; ma preferendo la disonestà, tutti accettarono, rendendo grazie a chi gli scelse, per la opportunità, ei dicevano, di dar pruova di fede al nuovo re. Ed erano crudeli all’antico, e speravano col nome di una virtù nascondere le turpitudini dell’opposto vizio. In una stanza del castello fu l’infame concilio adunato.
In altra stanza Gioacchino dormiva l’ultimo sonno della vita. Entrò Nunziante quando già chiaro era il giorno, ma pietà non sofferse che il destasse; ed allorchè per sazietà di sonno apri le luci, quegli, composto a dolore, gli disse che il governo aveva prescritto ch’ei fosse da un tribunale militare giudicato. «Ahi, rispose, io son perduto! il comando del giudizio è comando di morte.» Di pianto velò gli occhi, ma poi vergognando il respinse, e domandò se gli sarebbe permesso di scrivere alla moglie, al che l’altro con un segno (poichè sentiva l’animo commosso e soffocata, la voce) accennò il sì, ed egli con mano sicura scrisse in francese: « Mia cara Carolina, l’ultima mia ora è suonata, tra pochi istanti io avrò cessato di vivere, e tu di aver marito. Non obliarmi giammai, io moro innocente, la mia vita non è macchiata di alcuna ingiustizia. Addio mio Achille, addio mia Letizia, addio mio Luciano, addio mia Luisa, mostratevi al mondo degni di me. Io vi lascio senza regno e senza beni, tra numerosi nemici, Siate uniti e maggiori dell’infortunio; pensate a ciò che siete non a quel che foste, e Iddio benedirà la vostra modestia. Non maledite la mia memoria. Sappiate che il mio maggior tormento in questi estremi di vita è il morire lontano dai figli. Ricevete la paterna benedizione, ricevete i miei abbracciamenti e le mie lacrime. Ognora presente alla vostra memoria sia il vostro infelice padre. Gioacchino, Pizzo 13 ottobre 1815.» Recise alcune ciocche de’ suoi capelli, e le chiuse nel foglio che consegnò e raccomandò al generale.
Fu cletto difensore il capitano Starace che si presentò all’infelice per annunziargli il doloroso ufficio presso que’ giudici. Ed egli: «Non sono miei giudici, disse, ma soggetti; i privati non giudicano i re, nè altro re può giudicarli perchè non vi ha impero su gli eguali: i re non hanno altri giudici che Iddio ed i popoli. Se poi sono riguardato qual maresciallo di Francia, un consiglio di marescialli può giudicarmi, e se qual generale, di generali. Prima che io scenda alla bassezza degli eletti giudici, molte pagine dovranno strapparsi dalla storia di Europa. Quel tribunal è incompetente, io ne arrossisco.» Ma pure Starace lo pregava a comportare di esser difeso, ed egli allora con risoluto consiglio: «Voi non potrete salvare la mia vita, fate che io salvi il decoro di re. Qui non trattasi di giudizio, ma di condanna; e costoro che chiamano miei giudici, sono miei carnefici. Non parlerete in mia difesa, io ve lo vieto.
Dolente partivasi il difensore, entrò il giudice compilatore del processo, e gli chiedea, come è costume del nome; ed altro dir volea, ma il prigioniero troncò il molesto discorso con dirgli: «Io sono Gioacchino Murat re delle due Sicilie e vostro; partite, sgombrate di voi la mia prigione.» Rimasto solo, chinò a terra il capo, incrociate al petto le braccia, gli occhi affissati sopra i ritratti della famiglia; al sospirar frequente, alla profonda mestizia palesava che asprissimo pensiero gli premeva il cuore. Trovandolo in quell’atto il capitano Stratti, suo benevolo custode, non osava parlargli; ma Gioacchino gli disse: «Nel Pizzo è gioja la mia sventura (il suppose o il sapeva). E che ho fatto io a Napoletani per avergli a nemici? Ho speso a loro pro tutto il frutto di lunghe fatiche e di guerra, e lascio la mia famiglia. Quanto è di libero nei codici, è opera mia. Io diedi fama all’esercito, grado alla nazione fra le più potenti d’Europa. Io per amor di voi dimenticai ogni altro affetto; fui ingrato a’ Francesi che mi avevano guidato sul trono, donde io scendo senza tema o rimorso. Alla tragedia del duca di Enghien, che il re Ferdinando oggi vendica con altra tragedia, io non presi parte, e lo giuro a quel Dio che in breve mi terrà nel suo cospetto». Tacque per alcuni istanti, e dipoi: «Capitano Stratti, sento bisogno di esser solo. Io vi rendo grazie dell’amore mostratomi nella sventura, nè in altro modo posso provarvi la mia riconoscenza a che confessandola. Siate felice.» Così Gioacchino, e lo Stratti ubbidiente il lasciava, ma piangendo.
Indi a poco, non ancora palese la condanna, entrò il prete Masdea, e disse: «Sire, è questa la seconda volta che io le parlo. Quando V. M. venne al Pizzo, sono cinque anni, io le dimandai un soccorso per compiere le fabbriche della nostra chiesa, ed ella il concesse più largo delle speranze. Non dunque sfortunata è la mia voce appo lei, ed oggi ho fede che ascolterà le mie preghiere, solamente rivolte al riposo eterno dell’anima.» Compiè Gioacchino gli atti di cristiano con filosofica rassegnazione, ed a dimanda del Masdea scrisse in idioma francese: «Dichiaro di morire da buon cristiano. G. M.».
XVI. Opere così pietose si praticavano in una camera del castello; ma spietatissime in altra, dove il tribunale militare profferiva: Che Gioacchino Murat, tornato per la sorte delle armi privato tale nacque, venne a temeraria impresa con ventotto compagni, confidando non già nella guerra, ma nei tumulti; che spinse il popolo a ribellarsi, che offese la legittima sovranità, che tentò lo sconvolgimento del Regno e della Italia, e che perciò, nemico pubblico, era condannato a morire in forza di legge del decennio mantenuta in vigore. La quale legge (per maggiore scherno di fortuna) dettata da Gioacchino sette anni innanzi, benignamente da lui sospesa in molti casi di governo, fu, come ho detto, istromento della sua morte.
La sentenza venne udita dal prigioniero con freddezza e disdegno. Menato in un piccolo ricinto del castello, trovò schierato in due file uno squadrone di soldati; e non volendo bendar gli occhi, veduto serenamente l’apparecchio dell’armi, postosi in atto d’incontrare i colpi, disse ai soldati: «Salvate al viso, mirate al cuore.» Dopo le quali voci le armi si scaricarono, ed il già re delle due Sicilie cadde estinto, tenendo stretti in mano i ritratti della famiglia, che insieme alle misere spoglie furono sepolti in quel tempio istesso che la sua pietà aveva eretto. Quei che crederono alla sua morte amaramente ne piansero, ma la più parte de’ Napoletani ingannava il dolore, fingendo non so qual mendacio in tutti i fatti del Pizzo.
XVII. Questa fine ebbe Gioacchino nel quarantesim’ottavo anno di vita, settimo di regno. Era nato in Cahors di genitori poveri e modesti; nel primo anno della rivoluzione di Francia, giovanetto appena, fu soldato ed amante di libertà, ed in breve tempo uffiziale e colonnello. Valoroso ed infaticabile in guerra, lo notò Bonaparte e lo pose al suo fianco; fu generale, maresciallo, gran duca di Berg e re di Napoli. Mille trofei raccolse (da secondo più che da capo) in Italia, Alemagna, Russia ed Egitto; era pietoso a’ vinti, liberale a’ prigioni, e lo chiamavano l’Achille della Francia perchè prode ed invulnerabile al pari dell’antico; ebbe il diadema quasi in dote della sorella Bonaparte, lo perdè per ignoranza di governo. Due volte fatale alla Francia, nell’anno 14 per provvido consiglio, nel 15 per insano. Ambizioso, indomabile, trattava colle arti della guerra la politica delle stato. Grande nelle avversità tollerandone il peso; non grande nelle fortune perchè intemperato ed audace. Desiderii da re, mente da soldato, cuore di amico. Decorosa persona, grato aspetto, mondizie troppe, e più ne’ campi che nella reggia. Perciò vita varia per virtù e fortuna, morte misera, animosa, compianta.
XVIII. Addolorati ancora per i fatti del Pizzo erano i Napoletani, allor che avvenne caso più grande di pietà e di spavento: la peste entrò nel regno. Appena da pochi mesi era spento in Malta quel morbo, quando risurse in Dalmazia, e quasi al tempo stesso a Smirne ed in alcuni villaggi dell’isola di Corfù, e, girando l’Arcipelago, a Scutari e Salonico; era di nuovo apparso per la bestiale ignavia de Turchi ne’ sobborghi di Costantinopoli; a distanza infinita travagliava gli abitanti di Cadice. E ne’ giorni medesimi si apprese in Noja, piccola città della Puglia che l’Adriatico bagna, popolata di cinquemiladuecento abitanti. Avidità d’illecito guadagno la introdusse con alcune merci, non so se da Dalmazia o da Smirne, perciocchè l’autore del controbando o debitamente morì, o si nascose per evitar la pena e l’infamia del gran misfatto.
Nel dì 23 novembre morì Liborio di Donna, e nel dì seguente Pasqua Cappelli sua moglie, settuagenarii, poverissimi, ignoti per fino in patria, ed ora l’istoria registra i loro nomi (infausta celebrità) perchè prime vittime della pestilenza. Questa, sconosciuta ancora, si diffuse nelle genti più misere, perchè vili erano le materie appestate, o perchè la fortuna è più crudele agli afflitti. Le case de’ ricchi, durando illese, non credevano contagioso quel morbo; ma un tal giovane Lamanna, dissoluto ed arrischiato, praticando alla spensierata fra donnesche lascivie, ne fu tocco, portò il male nella famiglia, ed indi a poco tutti i ceti della sventurata città ne furono presi o minacciati.
I sintomi erano spaventevoli: la faccia si scolorava, e subito ingialliva e scarnivasi come di cadavere; si dilatavano le pupille, balbutiva il labbro, la lingua si copriva di cotenna bianca, o mostravasi arida, tremante, torta ad un lato, con striscia rossa nel mezzo, contornata di largo lembo giallastro; sete ardente, inestinguibile; brividi, deliri, demenza, e, fra tante cagioni di moto, immobile il corpo come morto. Spuntavano bubboni all’inguine ed alle ascelle; il ventre o il petto coprivano le antraci, che se vivide e dolorose, erano indizio di salvezza, ma se pallide e scomparenti, di morte. Non forza di età o di sesso potea contro al male, era universale il pericolo e lo spavento: in tre, in cinque, in sette giorni gli appestati morivano; ma più fortunati coloro, e parecchi ve n’ebbe, che la furia del male in poche ore spegneva.
A’ 23 novembre, come ho rammentato, la peste troncò la prima vita, e solamente a’ due gennajo la città fu cinta; per quaranta giorni con libero traffico entravano ed uscivano uomini e merci. si spandevano nelle province, ne pervennero in Napoli. Ma fortuna o provveder divino volle salvo il regno e la Italia, perciocchè non uomo o cosa, delle tante cose ed uomini usciti da Noja, era infetto di peste. Ma se pigre da principio le autorità della provincia, fu il governo dappoi diligentissimo, mandando commissarii, soldati, provvedimenti, ed affidando la somma delle opere al general Mirabelli, umanamente severo, per zelo infaticabile e di buona fama. La misera città fu chiusa da tre circoli di fossato, l’uno dei quali a sessanta passi, l’altro a novanta, ed il terzo (segno più che ostacolo) a dieci miglia; le ascolte guernivano que’ ripari, e numerosi fuochi gl’illuminavano nella notte. Era pena la morte a chi osasse di tentare il passaggio, e però un infelice, fatto demente per morbo o per paura, fuggendo la infausta terra, e non fermando per avvisi o comandi, da molte archibugiate fu ucciso.
Nello interno della città le cure de’ magistrati erano più grandi e più triste. Gli animali che per lana, piume, o pelo facevano pericolo, in un giorno uccisi; le suppellettili degli appestati incenerite; eretti ospedali per infermi e per convalescenti, e di osservazioni e di contumacia; ogni casa spiata, ogni commercio impedito, sbarrate le strade, i tempii chiusi. Eppure più dell’obbedienza e del pericolo potendo spesso avarizia ed amore, le suppellettili preziose o gl’infermi cari si tenevano occulti e furono cagioni di esterminio ad intere famiglie.
XIX. Ultimo giorno della peste fu il 7 giugno 1816: durò quella sventura sei mesi e mezzo; grave in novembre e dicembre, gravissima nei tre mesi seguenti, scemata in aprile, rinvigorita in maggio, finì nel giugno. Tre furono le ultime vile spente in quel giorno, nè trovo memoria se di nobili o plebei, poveri o ricchi, tutti avendo agguagliati la comune sciagura. Il numero dei morti fu di settecentoventotto, e di guariti benchè appestati di settecentodieci; oltre il quarto della popolazione di Noja fu dunque tocco dalla pestilenza. Si notò il carattere del morbo essere astenico, rimedii gli eccitanti, la china prevalere in virtù; il morbo potentissimo se comunicato da materie, ma più mite se da uomo.
Estinto il morbo, fatte le espurgazioni, consumate le contumacie, ogni pericolo cessato, spararono in città centocinquanta colpi di cannone, che sebbene intendessero a scuotere col tuono l’atmosfera e dissipare gli atomi della pestilenza, fu segno di festa per la città e per il regno; un banditore percorrendo le vie di Noja pubblicava libero il conversare fra cittadini, e intanto le sbarre erano disfatte, i fossi colmati; ogni segno di lutto e di terrore disparve. Si riabbracciavano i congiunti, gli amici, e tutti a processione recaronsi alla chiesa per cantar inni di grazie. Universale fu la gioja; ma ne’ seguenti giorni ciascuno trovandosi orbo di padre, o di consorte, o di figli, durevole mestizia serbò nel cuore.
XX. Una notte si apprese il fuoco al magnifico teatro di San Carlo, e fu caso. Le poche genti che là stavano per le prime prove di un dramma fuggirono spaventate, e le grida e i globi di fumo divolgando il pericolo, si accorse da tutte le parti della città, ma già tardi. Crebbe l’incendio: esce il re e la famiglia dalla contigua reggia; la immensa mole del tetto superata dal fuoco, rende fiamme impetuose e lucenti, tanto che le riverbera il monte Sant’Elmo e ’l sottoposto mare: attonito e mesto il popolo rimirava. Il cielo da sereno diventò procelloso, ma tale il vento spirava che le fiamme lambivano i nudi ripari del Castelnuovo; e maggiore ventura fu la brevità del pericolo, perchè aridissima ed oliata era l’esca del fuoco. In meno di due ore quel nobile albergo delle arti fu incenerito, e si conobbe il fallo (nè perciò corretto) di aver disciolte per finanziera avarizia le compagnie de’ pompieri, guardie del fuoco.
Al dì vegnente entrammo nell’arso edifizio, e n’era l’aspetto come delle antiche rovine di Roma o Pesto; se non che le presenti, per la fresca memoria de’ superbi dipinti del Nicolini e delle armonie del Rossini, ci apparivano più gravi e più triste. Si trovarono calcinati marmi e graniti, fuso il vetro e i metalli. Volle il re che in breve tempo fosse rifatto, e sorgendo al quarto mese più bello dell’antico, lasciò incerto qual de’ due re dovesse averne maggior lode, il padre o il figlio.
XXI. Nell’anno istesso magrezza di ricolto fu a’ poveri cagion di fame, costando il grano ducati venti al cantajo. Il governo impedì l’uscita delle granaglie, sminuì, poi tolse ogni dazio all’entrata, e infine la invitò con ricchi premii; de’ quali godendo, come vuol ragione, i venditori non i consumatori del genere premiato, si accrebbe la fortuna de’ commercianti, ma niun sollievo si arrecò a’ poveri. Il monopolio aggravò la penuria; il governo non seppe disnodarlo; e le gravi somme che profuse andarono contro i suoi disegni o a vuoto. Durata due anni la fame, sparita al terzo per copiosi ricolti, molto vecchio grano era ancora in serbo; parecchi negozianti fallirono; l’avidità fu punita. Compagne della fame furono le febbri, che, apprese alle prigioni e avventatesi al popolo, divennero mortali e contagiose. La plebe sempre menata da ignoranza e superstizioni credeva quella peste, quel foco, la penuria, la febbre segni di collera divina, e castigo a’ peccati del Pizzo, sì che al governo derivava odio non giusto ma vero.
In quel tempo il re sciolse un voto. Udendo, quando egli era fuggitivo in Sicilia, che in Napoli per ingrandire il foro del regal palagio e far loco ad un Panteon si demoliva la chiesa di San Francesco da Paola, egli fece voto di rialzarla più decorosa se a Dio piacesse di ricondurlo sul perduto trono. Esaudito nel 1815, decretò riedificarsi quel tempio, chiamando a gara d’ingegno gli architetti d’Italia; e prescelto il disegno dei Napoletani Fazio e Peruta, gli autori ne attendevano il promesso premio e la sperata gloria, quando fu commessa l’opera ad altro architetto, Bianchi di Lugano, ignoto ai concorrenti ed alla fama. Fu posta la prima pietra il 17 giugno dell’anno 1816 dal re medesimo, con pubblica e sacra cerimonia; e quindi proseguendo il lavoro, furono adoperati i migliori ingegni napoletani nella scultura e pittura; e il Landi e il Camuccini, che hanno fama in Italia ed oltr’Alpi, dipinsero due tele di evangelica istoria. Non è finito il tempio ora che io scrivo.
XXII. La polizia restò per molti mesi discreta ed inosservata nelle mani del cavalier Medici, però che le massime benigne del congresso di Vienna duravano. Dipoi ne fu ministro il principe di Canosa, del quale dirò l’origine, i costumi e le arti. Nato in Napoli di nobile famiglia, visse oscuro sino al settimo lustro di età, quando per merito del casato entrò nel consiglio della città. Era l’anno 1798 allorchè l’esercito francese guidato da Championnet stava nemico alle porte di Napoli; non vi era re nè reggente perchè fuggiti, non esercito perchè sciolto; il popolo tumultuava, i repubblicani si adunavano in secrete combriccole. Convocata in consiglio la municipalità per provvedere a’ pericoli, Canosa disse il re decaduto giustamente per lo abbandono che aveva fatto del regno; e doversi allo stato novello reggimento, l’aristocratico. La quale sentenza, vana, impossibile (due sole specie di governo contendevano, monarchica e popolare), destò riso negli uditori; ed a lui poco appresso tornò in pianto, perchè insospettitane la democrazia fondata dal vincitore, il Canosa fu posto in carcere. Ne uscì alla caduta di quel governo e come il folle desiderio di aristocrazia, infesto alla repubblica, lo era del pari al monarca, fu il Canosa condannato a cinque anni di prigionia; di sei voti tre furono per la morte, i tre più miti prevalsero; e la sola volta che l’empia giunta di stato sentisse pietà, fu per uomo che indi a poco spegnere dovea mille vite. Era in quella pena quando per la pace di Firenze, fatto libero, tornò privato ed oscuro alla famiglia. Ma nel 1805 la corte napoletana di nuovo fuggendo, egli offerse alla regina i suoi servigi, ed accolto passò in Sicilia.
Politica infernale moveva in quel tempo la casa dei Borboni; o ch’ella sperasse il rinnovamento dei prodigi del 99, o che la prosperità del regno perduto le fosse odiosa, pose ogni arte ad agitarlo colle discordie civili: spedi frà Diavolo, Ronca, Guariglia in varie province, tessè congiure, rianimò gli smarriti campioni del 99, profuse doni e promesse, diede premio ai delitti. E acciò regola e durata avesse quello inferno, si voleva per le trame un orditore sagace, ai ribaldi un capo, alle congiure un centro non lontano dal regno; a tale ufizio andò Canosa su lo scoglio di Ponza.
Era in quell’isola un ergastolo, ch’egli dischiuse: con quei galeotti e con altri pessimi, condotti da Sicilia o attirati da Napoli, ordì nel regno per cinque anni trame, ribellioni, delitti, e fu cagione di mille morti, o da lui date, o dall’avversa parte per vendetta e condanne. Mancò quasi materia al brigantaggio; e nell’anno 1810 Canosa non sazio tornò in Sicilia. Trovò la corte amareggiata da lord Bentink, ed indi a poco vide espulsa la regina, il re confinato, ed il civile reggimento rivolto a tale che per Canosa non era luogo. I servigi di Ponza non altro gli fruttarono che la promessa del ministero di polizia qualora piacesse ai cieli di rendere al legittimo re il trono di Napoli.
Funesta promessa mantenuta nell’anno 16. Era nel regno la setta dei calderari, che dovea per voti sostenere la monarchia dispotica, opprimere i carbonari, i liberi-muratori, i murattiani, i liberali: ed erano calderari uomini malvagi, che provenivano dalle disserrate prigioni nei tumulti del 99, dalla anarchia di quell’anno, dal brigantaggio del decennio, e dalle galere di Ponza e Pantelleria. Molti in quindici anni o nei cimenti o per condanne furono morti, e pur troppo ne lasciò vivi l’ira della fortuna; i quali speravano al ritorno dei Borboni trionfo e potere, ma respinti dalla politica si nascosero.
Di loro si fece capo, e lo era, il principe di Canosa, che divenuto ministro gli agitò coi mezzi e nel segreto della setta, accrebbe il numero, distribuì patenti ed armi, diede comandi e consigli: attendeva l’opportunità di prorompere nella città e nelle province, al giorno istesso, su le sette nemiche. E per avvincere l’animo del re, Canosa doppiamente adultero, sempre ubbriaco di vino e di furore, esercitava con pompa tutte le pratiche della cristianità, e religioso era tenuto dal re e dal volgo. Maraviglia vederlo in chiesa genuflesso agli altari, mormorare preci e baciare sante reliquie; maraviglia vederlo in casa trattare opere inique sotto le immagini del Salvatore e dei santi; e le sale ripiene di delatori e sicarii, e confessori e frati che avevano fama di santità.
Ma tanta ipocrisia nol nascose, perciocchè prima del preparato scoppio, furti, omicidi, assassinii si commettevano: le città di ribaldi, le campagne di grassatori erano ingombre; i carbonari offesi rioffendevano; erano minacciate le autorità, conculeate le leggi, la forza pubblica partecipante ai delitti o inefficace a frenarli. Del quale abisso civile cercate le cagioni e trovate in Canosa, furono imprigionati gli emissarii suoi nelle province, sorpresi i fogli, palesate le trame. Più che della sofferta peste il popolo n’ebbe sdegno, perciocchè tutte le avversità egli perdona al destino, nessuna agli uomini. Restava intanto ministro: alcuni consiglieri di stato e grandi della corte, gli ambasciatori di Austria e di Russia pregavano il re a discacciarlo; e e quegli a stento, per altrui non per proprio consiglio, lo rivocò dal ministero, lasciandolo ricco di stipendii. Volle Canosa partire dal regno, tale uomo essendo che non può vivere nella sua patria che da tiranno. I moti civili durarono lungo tempo, più lenti, più nascosi, non mai quetati; ed altra sciagura derivò dalla stessa caduta, perchè i carbonari trionfando crebbero di numero e di arroganza.
Fu nominato non già ministro di polizia ma direttore del ministero Francesco Patrizio, caldo partiziano della monarchia legittima ed assoluta: il quale, se spinto dalle sue passioni, era eccessivo; se ricordava le male sorti del Canosa, era mite: la perplessità e la incostanza, difetti pessimi in un ministro, furono i distintivi del suo governo.