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192 LIBRO OTTAVO — 1816.


Funesta promessa mantenuta nell’anno 16. Era nel regno la setta dei calderari, che dovea per voti sostenere la monarchia dispotica, opprimere i carbonari, i liberi-muratori, i murattiani, i liberali: ed erano calderari uomini malvagi, che provenivano dalle disserrate prigioni nei tumulti del 99, dalla anarchia di quell’anno, dal brigantaggio del decennio, e dalle galere di Ponza e Pantelleria. Molti in quindici anni o nei cimenti o per condanne furono morti, e pur troppo ne lasciò vivi l’ira della fortuna; i quali speravano al ritorno dei Borboni trionfo e potere, ma respinti dalla politica si nascosero.

Di loro si fece capo, e lo era, il principe di Canosa, che divenuto ministro gli agitò coi mezzi e nel segreto della setta, accrebbe il numero, distribuì patenti ed armi, diede comandi e consigli: attendeva l’opportunità di prorompere nella città e nelle province, al giorno istesso, su le sette nemiche. E per avvincere l’animo del re, Canosa doppiamente adultero, sempre ubbriaco di vino e di furore, esercitava con pompa tutte le pratiche della cristianità, e religioso era tenuto dal re e dal volgo. Maraviglia vederlo in chiesa genuflesso agli altari, mormorare preci e baciare sante reliquie; maraviglia vederlo in casa trattare opere inique sotto le immagini del Salvatore e dei santi; e le sale ripiene di delatori e sicarii, e confessori e frati che avevano fama di santità.

Ma tanta ipocrisia nol nascose, perciocchè prima del preparato scoppio, furti, omicidi, assassinii si commettevano: le città di ribaldi, le campagne di grassatori erano ingombre; i carbonari offesi rioffendevano; erano minacciate le autorità, conculeate le leggi, la forza pubblica partecipante ai delitti o inefficace a frenarli. Del quale abisso civile cercate le cagioni e trovate in Canosa, furono imprigionati gli emissarii suoi nelle province, sorpresi i fogli, palesate le trame. Più che della sofferta peste il popolo n’ebbe sdegno, perciocchè tutte le avversità egli perdona al destino, nessuna agli uomini. Restava intanto ministro: alcuni consiglieri di stato e grandi della corte, gli ambasciatori di Austria e di Russia pregavano il re a discacciarlo; e e quegli a stento, per altrui non per proprio consiglio, lo rivocò dal ministero, lasciandolo ricco di stipendii. Volle Canosa partire dal regno, tale uomo essendo che non può vivere nella sua patria che da tiranno. I moti civili durarono lungo tempo, più lenti, più nascosi, non mai quetati; ed altra sciagura derivò dalla stessa caduta, perchè i carbonari trionfando crebbero di numero e di arroganza.

Fu nominato non già ministro di polizia ma direttore del ministero Francesco Patrizio, caldo partiziano della monarchia legittima ed assoluta: il quale, se spinto dalle sue passioni, era eccessivo; se ricordava le male sorti del Canosa, era mite: la perplessità e la incostanza, difetti pessimi in un ministro, furono i distintivi del suo governo.