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LIBRO OTTAVO — 1815. 185

prigionia per tre mesi, compravano a basso prezzo onorata fama; ma preferendo la disonestà, tutti accettarono, rendendo grazie a chi gli scelse, per la opportunità, ei dicevano, di dar pruova di fede al nuovo re. Ed erano crudeli all’antico, e speravano col nome di una virtù nascondere le turpitudini dell’opposto vizio. In una stanza del castello fu l’infame concilio adunato.

In altra stanza Gioacchino dormiva l’ultimo sonno della vita. Entrò Nunziante quando già chiaro era il giorno, ma pietà non sofferse che il destasse; ed allorchè per sazietà di sonno apri le luci, quegli, composto a dolore, gli disse che il governo aveva prescritto ch’ei fosse da un tribunale militare giudicato. «Ahi, rispose, io son perduto! il comando del giudizio è comando di morte.» Di pianto velò gli occhi, ma poi vergognando il respinse, e domandò se gli sarebbe permesso di scrivere alla moglie, al che l’altro con un segno (poichè sentiva l’animo commosso e soffocata, la voce) accennò il sì, ed egli con mano sicura scrisse in francese: « Mia cara Carolina, l’ultima mia ora è suonata, tra pochi istanti io avrò cessato di vivere, e tu di aver marito. Non obliarmi giammai, io moro innocente, la mia vita non è macchiata di alcuna ingiustizia. Addio mio Achille, addio mia Letizia, addio mio Luciano, addio mia Luisa, mostratevi al mondo degni di me. Io vi lascio senza regno e senza beni, tra numerosi nemici, Siate uniti e maggiori dell’infortunio; pensate a ciò che siete non a quel che foste, e Iddio benedirà la vostra modestia. Non maledite la mia memoria. Sappiate che il mio maggior tormento in questi estremi di vita è il morire lontano dai figli. Ricevete la paterna benedizione, ricevete i miei abbracciamenti e le mie lacrime. Ognora presente alla vostra memoria sia il vostro infelice padre. Gioacchino, Pizzo 13 ottobre 1815.» Recise alcune ciocche de’ suoi capelli, e le chiuse nel foglio che consegnò e raccomandò al generale.

Fu cletto difensore il capitano Starace che si presentò all’infelice per annunziargli il doloroso ufficio presso que’ giudici. Ed egli: «Non sono miei giudici, disse, ma soggetti; i privati non giudicano i re, nè altro re può giudicarli perchè non vi ha impero su gli eguali: i re non hanno altri giudici che Iddio ed i popoli. Se poi sono riguardato qual maresciallo di Francia, un consiglio di marescialli può giudicarmi, e se qual generale, di generali. Prima che io scenda alla bassezza degli eletti giudici, molte pagine dovranno strapparsi dalla storia di Europa. Quel tribunal è incompetente, io ne arrossisco.» Ma pure Starace lo prevaga a comportare di esser difeso, ed egli allora con risoluto consiglio: «Voi non potrete salvare la mia vita, fate che io salvi il decoro di re. Qui non trattasi di giudizio, ma di condanna; e costoro che