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168 LIBRO OTTAVO — 1815.


Il popolo, travagliato per venti anni da fortune contrarie, ricordava le ingiuste persecuzioni del 93, la tirannide del 99, il dispotismo de’ seguenti anni, le fallace della moderna libertà, la rapina e la superbia degli eserciti stranieri, la invalidità del proprio esercito. Numerava le promesse mancate, i giuramenti spergiurati, gl’inganni fattigli per trarne profitto di dominio e di lucro. Sapeva che re antichi e re nuovi non curando le persuasioni de’ soggetti avevano comandato, i primi col prestigio, i secondi colla forza. Ma oramai dissipato il prestigio e spezzata la forza, erano i borbonici e i murattiani pochi; e la maggior parte dei pensanti, settarii o liberali, non discontenti della caduta di Gioacchino, solleciti e sospettosi del successore.

I popoli e i principi si osservavano a vicenda. ricambiandosi i timori e le speranze. All’universale desiderio della indipendenza nuovamente surto, siccome ho detto, negli ultimi anni, avevano i vincitori contrapposta il domma politico della legittimità, la quale se restringevasi al ritorno degli antichi re, avrebbe ricordato i mali che quelli operarono, e dato sospetto che per vendetta e per genio distruggerebbero della civiltà nuova per fino le cose giovevoli a loro; ma i re fecero miglior promessa, e il popolo fu lieto in udirgli; ravveduti e modesti, confermare alcuni le buone leggi e promettere tutti franchige nuove; e sentì rassicurarsi al vedere governo moderato in mano de’ vecchi reggitori ammaestrati dalle sventure; invece che de’ nuovi, guasti dalla fortuna, eccessivi nel comando, abili a rompere ogni freno. Sperò quindi il popolo nella pace un nuovo patto, stabile e a tutti egualmente profittevole, del quale gli erano documento gli editti stessi de’ re. E se le promesse della legittimità si mostravano sincerità e non inganno, i popoli vi aderivano; ed oggi l’Europa riposerebbe da’ suoi travagli.

Tale per cose e persone i re francesi lasciarono il regno.

III. Il congresso di Vienna per la guerra d’Italia mossa da Gioacchino nell’anno quindicesimo lo dichiarò decaduto dal trono di Napoli, e ristabilita la vecchia dinastia de’ Borboni. Dipoi, cominciate le sventure dell’esercito di Murat, il re Ferdinando preparò armi di terra e mare per assaltare la Calabria, e proclami e decreti per lusingare i Napoletani; ma o tardi a muovere il re di Sicilia, o troppo celeri i precipizii dell’altro, quelle armi e que’ fogli giunsero in Napoli quando la conquista era già compiuta da’ Tedeschi, L’esercito siciliano, della non sua gloria superbo, fece tardo e pomposo ingresso, mentre de’ proclami scemava il pregio la già pubblicata convenzione di Casalanza. Ma esercito ad esercito rinnito faceva il re più potente; ed aggiunte a’ trattati le promesse, più quetava il popolo e più sperava.

De cinque fogli del re, scritti in Messina dal 20 al 24 maggio