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LIBRO OTTAVO — 1816. 191

congresso di Vienna duravano. Dipoi ne fu ministro il principe di Canosa, del quale dirò l’origine, i costumi e le arti. Nato in Napoli di nobile famiglia, visse oscuro sino al settimo lustro di età, quando per merito del casato entrò nel consiglio della città. Era l’anno 1798 allorchè l’esercito francese guidato da Championnet stava nemico alle porte di Napoli; non vi era re nè reggente perchè fuggiti, non esercito perchè sciolto; il popolo tumultuava, i repubblicani si adunavano in secrete combriccole. Convocata in consiglio la municipalità per provvedere a’ pericoli, Canosa disse il re decaduto giustamente per lo abbandono che aveva fatto del regno; e doversi allo stato novello reggimento, l’aristocratico. La quale sentenza, vana, impossibile (due sole specie di governo contendevano, monarchica e popolare), destò riso negli uditori; ed a lui poco appresso tornò in pianto, perchè insospettitane la democrazia fondata dal vincitore, il Canosa fu posto in carcere. Ne uscì alla caduta di quel governo e come il folle desiderio di aristocrazia, infesto alla repubblica, lo era del pari al monarca, fu il Canosa condannato a cinque anni di prigionia; di sei voti tre furono per la morte, i tre più miti prevalsero; e la sola volta che l’empia giunta di stato sentisse pietà, fu per uomo che indi a poco spegnere dovea mille vite. Era in quella pena quando per la pace di Firenze, fatto libero, tornò privato ed oscuro alla famiglia. Ma nel 1805 la corte napoletana di nuovo fuggendo, egli offerse alla regina i suoi servigi, ed accolto passò in Sicilia.

Politica infernale moveva in quel tempo la casa dei Borboni; o ch’ella sperasse il rinnovamento dei prodigi del 99, o che la prosperità del regno perduto le fosse odiosa, pose ogni arte ad agitarlo colle discordie civili: spedi frà Diavolo, Ronca, Guariglia in varie province, tessè congiure, rianimò gli smarriti campioni del 99, profuse doni e promesse, diede premio ai delitti. E acciò regola e durata avesse quello inferno, si voleva per le trame un orditore sagace, ai ribaldi un capo, alle congiure un centro non lontano dal regno; a tale ufizio andò Canosa su lo scoglio di Ponza.

Era in quell’isola un ergastolo, ch’egli dischiuse: con quei galeotti e con altri pessimi, condotti da Sicilia o attirati da Napoli, ordì nel regno per cinque anni trame, ribellioni, delitti, e fu cagione di mille morti, o da lui date, o dall’avversa parte per vendetta e condanne. Mancò quasi materia al brigantaggio; e nell’anno 1810 Canosa non sazio tornò in Sicilia. Trovò la corte amareggiata da lord Bentink, ed indi a poco vide espulsa la regina, il re confinato, ed il civile reggimento rivolto a tale che per Canosa non era luogo. I servigi di Ponza non altro gli fruttarono che la promessa del ministero di polizia qualora piacesse ai cieli di rendere al legittimo re il trono di Napoli.