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LIBRO OTTAVO — 1816. 189

paura, fuggendo la infausta terra, e non fermando per avvisi o comandi, da molte archibugiate fu ucciso.

Nello interno della città le cure de’ magistrati erano più grandi e più triste. Gli animali che per lana, piume, o pelo facevano pericolo, in un giorno uccisi; le suppellettili degli appestati incenerite; eretti ospedali per infermi e per convalescenti, e di osservazioni e di contumacia; ogni casa spiata, ogni commercio impedito, sbarrate le strade, i tempii chiusi. Eppure più dell’obbedienza e del pericolo potendo spesso avarizia ed amore, le suppellettili preziose o gl’infermi cari si tenevano occulti e furono cagioni di esterminio ad intere famiglie.

XIX. Ultimo giorno della peste fu il 7 giugno 1816: durò quella sventura sei mesi e mezzo; grave in novembre e dicembre, gravissima nei tre mesi seguenti, scemata in aprile, rinvigorita in maggio, finì nel giugno. Tre furono le ultime vile spente in quel giorno, nè trovo memoria se di nobili o plebei, poveri o ricchi, tutti avendo agguagliati la comune sciagura. Il numero dei morti fu di settecentoventotto, e di guariti benchè appestati di settecentodieci; oltre il quarto della popolazione di Noja fu dunque tocco dalla pestilenza. Si notò il carattere del morbo essere astenico, rimedii gli eccitanti, la china prevalere in virtù; il morbo potentissimo se comunicato da materie, ma più mite se da uomo.

Estinto il morbo, fatte le espurgazioni, consumate le contumacie, ogni pericolo cessato, spararono in città centocinquanta colpi di cannone, che sebbene intendessero a scuotere col tuono l’atmosfera e dissipare gli atomi della pestilenza, fu segno di festa per la città e per il regno; un banditore percorrendo le vie di Noja pubblicava libero il conversare fra cittadini, e intanto le sbarre erano disfatte, i fossi colmati; ogni segno di lutto e di terrore disparve. Si riabbracciavano i congiunti, gli amici, e tutti a processione recaronsi alla chiesa per cantar inni di grazie. Universale fu la gioja; ma ne’ seguenti giorni ciascuno trovandosi orbo di padre, o di consorte, o di figli, durevole mestizia serbò nel cuore.

XX. Una notte si apprese il fuoco al magnifico teatro di San Carlo, e fu caso. Le poche genti che là stavano per le prime prove di un dramma fuggirono spaventate, e le grida e i globi di fumo divolgando il pericolo, si accorse da tutte le parti della città, ma già tardi. Crebbe l’incendio: esce il re e la famiglia dalla contigua reggia; la immensa mole del tetto superata dal fuoco, rende fiamme impetuose e lucenti, tanto che le riverbera il monte Sant’Elmo e ’l sottoposto mare: attonito e mesto il popolo rimirava. Il cielo da sereno diventò procelloso, ma tale il vento spirava che le fiamme lambivano i nudi ripari del Castelnuovo; e maggiore ventura fu la brevità del pericolo, perchè aridissima ed oliata era l’esca del fuoco.