Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro VIII/Capo II

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CAPO SECONDO.

Interni avvenimenti e relazioni esteriori.


XXIII. Al finire dell’anno 1816, arrivata nel golfo di Napoli una flotta americana, discese un ambasciatore che, prima con uffizii poi con minacce, dimandò al governo quattro milioni di dollari, a ristoro dei danni recati agli Stati-Uniti per la confisca di molte navi già venute in Napoli sopra data fede di libero commercio. L’ambasciatore rammentava fatti del 1809, allorchè, regnando Gioacchino e concertati alcuni patti di commercio tra Napoli e gli Stati-Uniti, vennero l’anno appresso molte navi americane con prezioso carico; ma sia che mancassero, come fu detto, alle accordate condizioni, sia l’urgente bisogno di danaro per la disegnata guerra di Sicilia, o l’avidità di preda ricchissima e l’usato disprezzo dei governi nuovi alle private ragioni, quelle navi, subito sequestrate, si venderono a profitto dell’erario napoletano. Mossero gli Americani querela, che sopita per alcuni anni si ridestò, come io diceva, nel 1816. Le risposte all’ambasciatore furono contrarie, e solamente riebbe tre barche vote, non ancora vendute. Egli di nuovo protestò, e per accomodamento dimandava di fondare un emporio di vicendevole commercio in qualche isola o porto delle due Sicilie; ma la nostra dipendenza dall’Inghilterra fu cagione del nocevole rifiuto. Indi la flotta si allontanò da’ nostri mari.

XXIV. L’avversione fra le due parti dell’esercito sempre più cresceva. stando per i così detti Siciliani il favore del re, per i così detti murattisti la politica del governo; amati gli uni e non pregiati, accarezzati gli altri ed abborriti, quel doppio infingimento mal si velava. La discordia ebbe un segno, da che il re diede nuova medaglia che chiamò di Onore a tutti i militari che ne’ dieci anni del dominio francese rimasero seco in Sicilia; era di bronzo, in una faccia colla effigie del re, nell’altra collo scritto: Costante attaccamento; una stella a quattro raggi la conteneva, sostenuta da nastro rosso. Fu grande il numero delle distribuite medaglie, vedendosi al petto per fino di coloro già tratti dalle galere, e di altri puniti o che si punivano coll’infame castigo delle verghe, e non ricordando alcuna virtù, giacchè il costante attaccamento era stato figlio di necessità, non mai posto a cimento di miglior sorte o di pericoli, ogni carattere dell’onor sociale mancava alla medagiia detta di Onore; servì a più discernere una parte dell’esercito e più separarla dall’altra.

Fu questo l’ultimo atto del supremo consiglio per la guerra. I suoi difetti altrove discorsi, l’ambizione di troppo esercito, il nessun [p. 194 modifica]uso alle faccende pubbliche ingenerarono tanti disordini di amministrazione che la finanza dello stato n’ebbe danno, il re disdegno. Il supremo consiglio fu sciolto, ed eletto capo delle armi il generate Nugent, nato Irlandese, al servizio allora dell’Austria, citato con varia fama nelle guerre d’Italia. Spiacque la scelta ai pretendenti, che, velando coll’amor di patria il dispetto, dolevansi che a tanti meritevoli Napoletani si anteponesse uno straniero, e rammentavano l’Acton, il Mack ed altri nomi. Il Nugent, ricomponendo l’esercito, disfece o mutò tutte le opere del supremo consiglio per ordinanze nuove e difettose; ma perchè poco durarono, e caddero al cadere di lui tacite ed ignote, vanno ad accrescere la immensa mole degli umani falli obliati. Parlerò di un solo, cagione ad infausti eventi: quelle ordinanze secondavano l’avarizia del fisco e le opinioni del ministro Medici, il quale credeva, Napoli e Francia insieme si reggessero; che una dinastia durerebbe quanto l’altra; che per noi la pace o la guerra, la quiete interna o gli sconvolgimenti avessero spinta e fato dalla Francia; Napoli, come schifo di gran vascello, non temeva procelle se quello durasse, nè sperava salvezza se fosse assorto, non abbisognava del proprio senno a governarsi. I pensieri de’ mediocri ingegni, portati in alto dalla fortuna, sono sistematici e stravaganti.

Era quindi l’esercito peso inutile allo stato, e bastavano quattro reggimenti guardie del re, e molti birri, custodia del regno. Ma il pattovito contingente di venticinquemila soldati nelle guerre dell’Austria ci obbligava a tenere un esercito, ancorchè la potentissima Santa Alleanza promettesse a’ sovrani lunga pace, riposata monarchia e paziente servitù de’ popoli. Cosicchè il ministro, scontento e tediato dello spendere senza bisogno, assottigliò le paghe, restrinse i comodi de’ soldati; dall’avarizia progredì alle ingiustizie, suscitò cruccio e lamenti nell’esercito. Istromento di lui era il Nugent, che sollecito di bene, ma straniero ed avido, biasimando que’ disastri, li cagionava.

Impediva la composizione dell’esercito un decreto dell’anno 15, col quale il re, notando la coscrizione come flagello del dominio francese, la rivocava. Ed oggi, dopo varii consigli, costretto dalle presenti condizioni, la rifece quale era innanzi, dandole nome di leva e chiamando recluta il coscritto. Sperò coprire colle mutate voci la turpitudine della violata promessa; ma il popolo doppiamente sdegnato, ricordando i coscritti avere comodi, fama, fortuna, diceva esser le reclute misere ed abiette, ed il legittimo re, condannando le asprezze degli usurpatori, esercitare tutte ed in peggio.

Il modo di comporre gli eserciti per coscrizione necessario alle repubbliche, alle monarchie costituzionali, e alle dispotiche moderate, se la feudalità vi è stata abolita, oggi è adoperato fin dai governi [p. 195 modifica]più assoluti, come il solo capace di sostenere la immensa mole degli eserciti. Ma tirando principio dall’eguaglianza fra’ cittadini appartiene alla novella civiltà; e quindi ne’ paesi liberi e di leggi uguali fa migliore l’esercito, ma i suoi benefizii si disperdono sotto governi arbitrarii che vogliono discipline varie, ed a piacimento del re favori o rigidezze. Ed arreca danno certo a’ governi odiati, per le opinioni di patria e di famiglia che i coscritti portano nell’esercito, A venti anni già si udirono i consigli de’ sapienti, i voti de’ cittadini, i lamenti del padre. Egli è dunque impossibile formare per coscrizione esercito servo passivo, cieco ad ogni ubbidienza. E senza la coscrizione è impossibile a’ dì nostri raccorre un tanto numero di milizie assoldate ed averle buone. Contrasto inesplicabile che spinge i governi assoluti alla ruina e i popoli alla civiltà.

Ho riferito altrove che nel 1790 furono composte molte compagnie di miliziotti, poi dette nella repubblica guardie civiche, abolite alla caduta di quel governo, rinnovate nel regno di Giuseppe, accresciute da Gioacchino e chiamate legioni provinciali. Quelle stesse milizie civili, che per le condizioni della legge contenevano ottantamila inscritti, vennero formate nel 1817 in ventuno reggimento, quante sono le province nelle due Sicilie; obbligo e titolo ad essere inscritto era il possedimento di beni stabili, gli uffiziali scelti dal re fra i possidenti maggiori, le armi, le ordinanze, il vestimento, militari, il servizio gratuito e civile. Nella città erano stati confermati cinque battaglioni (quattro di fanti, uno di cavalieri) di guardia di sicurezza, i medesimi già formati sotto il regno di Gioacchino, essendone soldati i possidenti e gli artieri, uffiziali i ricchi ed i nobili. I quali battaglioni tenevano a dignità l’antico nome e il vestimento, a vanto l’origine, a gloria la mantenuta quiete ne’ moti popolari e borbonici dell’anno 15.

Per le quali milizie civili e per esercito composto da coscrizione, tutte le armi venendo in mano a’ cittadini, era potentissima la monarchia se aveva col popolo interessi comuni, o debole se contrarii. Le costituzioni politiche procedono colle armi: il governo, finchè le armi restano in mano ai conquistatori, è di conquista; quando le armi si dividono tra il capo e i baroni, si fa monarchia feudale; allorchè tutte si adunano nel monarca, sorge monarchia assoluta; il governo di cittadini armati è civile.

XXV. Il re Ferdinando IV si chiamò I e quel solo cambiar di numero generò gravi mutamenti di stato. Il congresso di Vienna riunendo in un regno le due Sicilie, Ferdinando (IV in quello di Napoli, III nell’altro) fu I nel regno unito. Pigliando esempio da’ re Normanni chiamò duca di Calabria il figlio erede al trono, principe di Salerno il secondo nato, duca di Noto il primo figlio del duca di Calabria, principe di Capua il secondo, conte di Siracusa il [p. 196 modifica]terzo, ed il quarto conte di Lecce; nudi titoli da passare a’ figliuoli de nominati per linea maschile senza terre o dominii. Divennero dubbie, dopo il mutato nome del re, le pretensioni del pontefice alla investitura del trono di Napoli; ma non si tolsero affatto le ragioni alla contesa, che aspetta il tempo.

Altro editto del giorno istesso instituì un consiglio di cancelleria di dodici consiglieri ordinarii, cinque straordinarii, otto referendarii; era dei referendarii l’informare, degli ordinarii il consigliare; e solanente nelle adunanze generali gli straordinarii davano voto. Il consiglio, diviso in tre camere, provvedeva all’amministrazione delle comunità, ed alle fondazioni pubbliche o religiose; ma non punto alle gravezze o alla finanza, nè alle amministrazioni di stato e di provincia. Il voto era consultivo, l’esame segreto sopra mandato di un ministro, ed a quello istesso rispondeva il consiglio; e perciò non censura o ritegno, ina baldanza ed ajuto a’ ministri: tralcio di assoluta potenza ingrato al popolo.

Altre due leggi, pure di quei giorno, riordinarono il consiglio di stato e ‘l ministero: il primo non avea facoltà nè tornate ordinarie; sceglieva il re i consiglieri, che gli piaceva di udire; il voto consultivo, segrete le adunanze e i pareri; non era dunque parte o corpo dello stato ma semplice forma di governo, e talora velame di consiglio alle voglie libere del re. Il ministero fu diviso in otto segreterie di stato; la polizia non ebbe per capo un ministro, ma più modesto magistrato chiamato direttore: migliorò il nome, restarono le cose.

Con le riferite ordinanze era mente del re spegnere di coperto le costituzioni della Sicilia. I Siciliani riempivano la quarta parte della cancelleria del consiglio di stato, del ministero; si dicevano eguali le condizioni delle due Sicilie; il governo risederebbe quando in Napoli, quando in Palermo; nessuna preminenza fra le due parti del regno. Il duca di Calabria fu eletto luogotenente del re in quell’isola; dove l’amministrazione, la finanza, la giustizia, tutte le parti di governo resterebbero indipendenti; confermati i tributi dell’anno 15 que’ medesimi decretati dal parlamento, fu dichiarato che senza il voto di questo nessun’altra taglia sarebbe imposta nell’avvenire. Con queste carezze ed infingimento il governo sperava di addolcire ne’ Siciliani l’offesa e ‘l dolore delle perdute libertà; non più il parlamento fu convocato, non più la stampa fu libera, nè più i cittadini dalle leggi fatti sicuri. Cadde la costituzione siciliana dell’anno 12, come per altri artifizii era caduta l’antichissima di sette secoli; dirò brevemente i progressi e l’oppressione delle siciliane libertà.

XXVI. Nell’anno 1080 i baroni normanni scacciando i Saraceni dalla Sicilia, si univano, per provvedere alla guerra in assemblea, [p. 197 modifica]la quale tenendo nome dal soggetto fu chiamata Braccio militare o baronale. E dipoi per rispetto alla potenza del clero, si aggiunse all’assemblea militare altra di ecclesiastici, e Braccio ecclesiastico fu chiamata. In quel tempo avanzava la civiltà di Sicilia, e ecrescevano con essi i bisogni e i tributi; ma non era il governo come in oggi, mancava il censo delle proprietà e delle rendite, la finanza non era una scienza, il conquistatore tutto prendeva da’ paesi vinti ma colla forza; il governante non poteva imporre gravezze che per volontarie offerte de’ soggetti, donde venne nell’antichità il dono gratuito, abusato ne’ posteriori secoli. Perciò ad occasione si convocava in Sicilia l’assemblea de’ liberi possidenti, chiamata Braccio demaniale, ed agli due bracci si aggiungeva.

Tutte e tre le congreghe si formavano in una che prendeva, secondo usi del tempo, nome di parlamento. Del braccio militare erano i membri ereditarii; dell’ecclesiastico, i vescovi e gli abati di certe sedi; del demaniale i deputati eletti dal consiglio municipale di alcune città o terre, Il parlamento si radunava in ogni anno; ma dopo l’impero di Carlo V ogni quattro anni in sessione generale, per distinguerla dalle straordinarie convocate ad occasione di non preveduti bisogni. Al chiudere della sessione generale venivano eletti quattro membri di ogni braccio, che insieme componevano un’assemblea esecutrice, tra le due sessioni, delle sentenze, sostenitrice delle ragioni del parlamento.

Il quale tassava i tributi, non potendo imporne il governo se non per casi urgentissimi, come il riscatto del re prigioniero, la invasione di nemici esterni, le interne rivoluzioni, o altro sconvolgimento istantaneo e di gran mole; ed anche allora l’arbitrio del re fra stretti limiti si volgeva. Gli Aragonesi avevano aggiunto al parlamento altre facoltà, che i re successori rivocarono; lasciando intera la sola ed antica su i tributi. Così stettero le cose insino all’anno 1810. Io riandando le costituzioni di tempi e popoli che chiamiamo barbari, dico sovente e me stesso che le più dure catene sono per noi che ci vantiamo secolo di civiltà.

XXVII. Nel 1810 il re Ferdinando, scacciato da Napoli, già da quattro anni confinato in Sicilia, minacciato dal re Murat, costretto a mantenere per difesa e speranza un esercito, volendo per segreti emissarii tener viva la sua parte nel regno perduto, e la dignità del nome, per ambasciatori, nelle corti straniere; scarsi a tante spese i tributi dell’isola e i soccorsi dell’Inghilterra, egli adunò parlamento, e, mostrando nell’opposta Calabria gli apparati del nemico, dimandò sussidii pari a’ bisogni ed alla grandezza del pericolo. Il parlamento ne diede, ma non quanti si speravano; ed aggiunse al piccolo dono patti gravosi. Quel re andava proclive allo sdegno; i suoi ministri, napoletani e sconosciuti, avevano in odio la Sicilia; [p. 198 modifica]e perciò spregiando le ragioni del parlamento e dello stato, rispettate per otto secoli da trentuno re, il re Ferdinando vendè i beni delle comunità ed impose tributo gravissimo sopra i contratti. Così l’antica siciliana costituzione fu distrutta.

Il parlamento protestò; e tre membri, a nome di tutti, firmarono un foglio spedito al re, che più acceso di sdegno non rivocò i decreti, non adunò altro parlamento: crebbero dalla opposta parte i lamenti e ’l dispetto. Indi a poco que’ tre soscrittori del foglio, ed altri due tra primi del parlamento, furono la notte arrestati; e senza difesa o giudizio chiusi nelle prigioni di Favignana e Pantelleria, isole infami destinate al supplizio dei malfattori. Erano i principi Belmonte, Jaci, Castelnuovo, Villafranca e il duca di Angiò. La scontentezza fu grande, universale; e non calmò che alla costituzione dell’anno dodicesimo; per la quale essendo il re spogliato del regio potere, il figlio vicario, e la regina esule o profuga, i cinque prigionieri, tornati liberi, ebbero potenza uguale alla fama ed al favore del popolo; e i ministri, i consiglieri, i confidenti del re, poco innanzi persecutori, furono perseguili e scacciati.

Risursero più potenti nell’anno quindici; e allora, par brama di vendetta sulla Sicilia, per cupidigia di assoluto comando, ed animo da ministri, a gara concitavano il re, per sè proclive al più libero impero, di abbattere la costituzione siciliana dell’anno dodicesimo; e facendo intoppo la guaranzia datale dell’Inghilterra, usarono gli inganni. Dissero al governo inglese che la Sicilia scontenta del suo stato politico dimandava nuove leggi, arrecando per prova gl’indirizzi di alcune comunità, procurati, o scambiati di senso, o falsati. Sir William Accourt ministro d’Inghilterra, confidente del re, amico del cavalier Medici, malevolo, scaltro, avvalorò quelle frodi; e la Gran Brettagna, ingannata ed ingannatrice, abbandonò la Sicilia. Le quali pratiche si tramarono per molti mesi copertamente; e lo statuto che trasmutava in I Ferdinando IV, fermato sin dal congresso di Vienna, fu promulgato non prima del dicembre dell’anno sedicesimo. Alfine il governo, avuto il consentimento dal ministro inglese, forte dell’esercito tedesco e napoletano, cessò d’infingersi; e pubblicando le leggi che ho rapportate, soprausò il potere, appagò le passioni senza ritegno. Dirò le particolarità di questi eccessi nel seguente libro, quando narrerò le rivoluzioni che poi ne derivarono l’anno ventesimo.

XXVIII. Il disgusto de’ popoli serpeggiando in vario modo ne’ due regni, divenne indi a poco più grande per nuova legge sul Tavoliere di Capitanata, e per lo eccidio de’ Vardarelli. Qual fosse il Tavoliere, e come nel decennio migliorato di coltura, ho già riferito nel sesto libro. Si coprivano di spighe quelle terre poco innanzi selvagge, apportando più che sperate ricchezze, allorchè nuova [p. 199 modifica]legge turbò la santità degli acquisti, disordinò le industrie, pose vincoli alla libertà del possesso, impedì la francazione delle servitù, ravvivò le già spente. Avidità finanziera ne fu motivo; e poichè faceva onta il confessarlo, dicendo a pretesto che si voleva giovare alla pastorizia, fu destinata non poca parte di quelle immense terre a pastura vaga e nomada; così distruggendo il più gran benefizio della legge del 1806, quello d’introdurre nel regno l’uso e ’l bisogno de’ pascoli artificiali. Non compete all’istoria l’analisi di una legge economica, e basti al mio debito palesare che quella della quale ragiono ricondusse in Capitanata la sterilezza e la povertà. Ora dirò de’ Vardarelli.

XXIX. Gaetano Vardarelli, di servili natali, prima soldato, poi disertore dell’esercito di Murat, ricoverò in Sicilia; e di là per nuovi delitti fuggendo, ritornato nel regno, cercò salvezza non dal perdono o dal nascondersi ma combattendo. Brigante, felice in molti scontri, poi perseguito vivamente, volse di nuovo a quell’isola sperando che i travagli e le fortune del brigantaggio gl’impetrassero scusa degli antichi misfatti; nè s’ingannò: lo tornarono alla milizia, divenne sergente nelle guardie, e così ricomparve in Napoli nell’anno quindicesimo.

Ma non pago di mediocre fortuna e di posato vivere, cercando il malo ingegno opulenza e cimenti, disertò nell’anno istesso, e si diede a scorrere, pubblico ladro, le campagne. Prodigo ai poveri, avido e feroce co’ ricchi, ebbe compagni due suoi fratelli, tre congiunti, quaranta e più altri, malvagi al pari di lui. Capo e tiranno di quella schiera puniva i falli con pene asprissime; la codardia colla morte. Tutti montati sopra cavalli, assalire velocemente, velocemente ritrarsi, camminar giorno e notte, apparire quasi al tempo stesso in lontane contrade, erano le arti che li facevano invitti, benchè sempre inseguiti e spesso raggiunti da non pochi soldati napoletani e tedeschi. Acquistò Vardarelli tanto nome di valore o fortuna, che ormai la plebe, scordando le nequizie, lo ammirava; e tanto più ch’ei davasi vanto (e forse lo era) di carbonaro.

Il ministero, sollecito di congedare l’esercito tedesco, era trattenuto dalla fortuna de’ Vardarelli e dal pensiero che una torma di assassini non sarebbe invincibile senza i secreti ajuti della setta; e che la setta viepiù ardirebbe, avendo mano di armati apertamente ribelli, avventurosi e potenti. Spegnere que’ tristi o soggettarli divenne interesse di governo, e poichè non si poteva abbatterli colla forza, si discese a quetarli coi trattati; e da pari a pari stipular atto che io qui registro acciò rimanga documento della debolezza del potere legittimo; fonte donde derivarono poco appresso altre sventure di maggior momento.

Articolo. 1°. «Sarà concesso perdono ed oblio ai misfatti de’ Vardarelli e loro segnaci.» [p. 200 modifica]

Art. 2°. «La comitiva sarà mutata in squadriglia di armigeri.»

(Dicesi tra noi comitiva una banda di grassatori, e squadriglia d’armigeri una piccola squadra di genti d’arme stipendiata dal governo a sostegno della pubblica tranquillità.)

Art. 3°. «Lo stipendio del capo Gaetano Vardarelli sarà di ducati 90 al mese, di ognuno dei tre sottocapi di ducati 45, di ogni armigero di ducati 30. Sarà pagato anticipatamente ogni mese.»

(Erano paghe da colonnelli e da capitani.)

Art. 4°. «La suddetta squadriglia giurerà fede al re, in mano di «regio commissario; quindi obbedirà a’ generali che comandano nelle province, e sarà destinata a perseguitare i pubblici malfattori in qualunque parte del regno.

«Napoli 6 luglio 1817.»

I Vardarelli giurarono, e mantenendo i patti spensero i grassatori che scorrevano la Capitanata; ma sospettosi del governo, chiamati a rassegna, si adunavano in aperta campagna; non venivano in città benchè comandati, prendevano alloggiamenti sempre varii, e parte dello stuolo vegliava in armi mentre l’altra stava in riposo. Ed erano giusti quei sospetti, avvegnachè continui inganni tramava loro il governo, e che volea purgare la ignominia di quella pace col tradimento; e difatti, salvi per lungo tempo dalle insidie vi caddero alfine. Andavano spesso in Ururi piccolo villaggio delle Puglie, assicurati da numerosi amici e parenti; fra questi trovò il governo chi assumesse il carico infame di assassinarli. Un giorno la schiera giaceva spensierata sulla piazza, allorchè partirono dai vicini edifizii molti colpi di archibugio, e vi restarono morti Gaetano, i suoi due fratelli, e sei dei maggiori compagni. Fuggirono i restanti sbigottiti. Era tra gli uccisori un tristo di Porto-Cannone, nemico ai Vardarelli perchè n’ebbe giovine sorella presa di forza e stuprata. Questi, dopo l’eccidio, corse sopra i cadaveri, bagnò più volte le mani nel sangue di quei miseri, e sporcandone orrendamente il proprio viso coll’atto di lavarlo, si volse al molto popolo colà raccolto, e ricordata la macchia dell’antica ingiuria, disse, indicandone il viso col dito: l’ho purgata.

Il governo promise vendetta dell’assassinio. Il generale Amato, che comandava nelle Puglie, mandò in cerca dei profughi (che pur Virdarelli, onorandosi del nome, si chiamavano), e per lettere accertò che il misfatto di Ururi sarebbe punito, che il trattato del 6 luglio reggeva intatto, che altro capo eleggessero. Erano trentanovè quei tristi, scompigliati, intimiditi, creduli alcuni, altri confidenti, ed in molti serpeva l’ambiziosa speranza di esser primo. Restarono cheti ma più guardinghi. Una squadra di soldati andò in Ururi; degli omicidi altri furono imprigionati, ed altri fuggiaschi; sì ordinò il giudizio, si fece pompa di severità. [p. 201 modifica]

Dopo le quali apparenze il generale chiamò a rassegna i Vardarelli nella città di Foggia, e promise di eleggere, a voti loro, il capo e i sottocapi della squadriglia: ed eglino, dopo varie sentenze, si recarono al destinato loco; fuorchè otto, contumaci all’invito, Era giorno di festa: la piazza scelta per la rassegna stava ingombrata di curiosi, quando vi giunsero i Vardarelli gridando viva il re, ed avendo spiegate solennissime, a modo loro, vesti ed arredi. Il generale dal balcone faceva col sorriso cenni di compiacenza, e il colonnello Sivo, disposti in fila que’Irentuno, li rassegnava, e lodando la bellezza ora dell’uomo ora del cavallo, facea dimande, scriveva note; dall’alto il gerinerale anch’egli con loro conversava; infine il colonnello si recò a lui, e credevasi per la scelta dei capi: restarono i Vardarelli in piedi, ciascuno innanzi al suo cavallo. Per due ore furono tenuti a rassegna, nel qual tempo le squadre napoletane avevano di nascosto circondata la piazza, ed attendevano il convenuto segnale a prorompere.

XXX. Levossi il berretto il generale Amato (era questo il segno), e ad un tratto avanzarono le colonne colle armi in pugno, e gridando, arrendetevi. Si aprono le affollate genti e s’incalzano: i Vardarelli frettolosamente montano sopra i cavalli; ed allora le prime file dei soldati scaricano le armi, nove dei Vardarelli cadono estinti, due s’aprono un varco e dileguansi; gli altri venti, atterriti, abbandonano i cavalli, fuggono confusamente in un grande e vecchio edifizio ch’era alle spalle. La fama del loro coraggio e la disperazione che lo accresceva ritiene i soldati dallo inseguirli: accerchiano però l’edifizio, spiano, non veggono uomo nè segno di fuga, entrano a folla le guardie, ricercano vanamente ogni loco; stavano maravigliate ed incerte, quando dallo spiraglio di una cava uscì colpo che andò a voto; un soldato che vi si affacciò per altro colpo fu spento: erano i Vardarelli in quella fossa. Vi gettano i soldati in gran copia e per lungo tempo materie accese, non esce da quell’inferno lamento o sospiro, ma più crescevano il fuoco ed il fumo. Si udirono contemporanei due colpi, e poi seppesi che partirono dalle armi di due fratelli, che dopo gli estremi abbraccinamenti a vicenda si uccisero; si arrenderono altri diciassette, un ultimo si trovò morto ed arso.

Informato il governo, comandò che gli arresi fossero messi in giudizio per aver mancato alla convenzione del 6 luglio; e però in un sol giorno del maggio 1818 furono dal tribunale militare giudicati, condannati, posti a morte. Gli altri dieci, ancora fuggiaschi, in vario modo, in varii tempi furono distrutti; si spense affatto quella trista gente, non in buona guerra dove tante volte fu vincitrice, ma per tradimenti ed inganni, cosicchè nel popolo i nomi loro e le geste sono ancora raccontate con lode o pietà. I già [p. 202 modifica]imprigionati di Ururi tornarono liberi e premiati. Delle malvagità dei Vardarelli altra ed alta malvagità fu punitrice; ne venne al governo pubblico vitupero, che non si onesta il tradimento perchè cada su traditori.

XXXI. Fermata la sommissione dei Vardarelli, ma innanzi della descritta catastrofe, l’esercito alemanno ridotto in quel tempo a dodicimila soldati, venuto nemico di Murat in maggio dell’anno 15 partì amico dei Borboni nell’agosto del 17. Lasciò di sè buona fama per disciplina e modestia; nessuno affetto. Affidato il regno a sè stesso cessò la vergogna nel re, ne’ soggetti, di governare, di essere governati per forza straniera.

XXXII. In questo anno 1818 si fermò il concordato colla corte di Roma, dal quale tolgo motivo di esporre gli altri trattati colle corti straniere nei cinque anni racchiusi in questo libro. Il re di Napoli, ai 9 giugno 1815, aderì al congresso di Vienna. Ai 12 dello stesso giugno fermò alleanza coll’Austria: questa nelle guerre d’Italia difenderebbe il regno con poderosi eserciti, il re nelle guerre d’Austria fornirebbe venticinquemila soldati, poi ridotti a dodicimila per la convenzione di Vienna del 4 febbrajo 1819. Ai 26 settembre 1815 si unì alla santa alleanza. Ai dì 3, 17 e 29 aprile 1816 conchiuse pace con gli stati di Algeri, Tunisi e Tripoli; trattatore per le nostre parti lord Exmouth ammiraglio brittanico. Le condizioni di sicurezza e di commercio furono eguali, ma ottenute a prezzo, pagando il governo di Napoli annuo tributo di quarantamila piastre spagnuole, e, nel tempo del trattato, il riscatto dei già fatti schiavi. L’esser tributarii dei pirati offese il nazionale orgoglio: ma il governo, più saggio, salvò per piccola mercede i commercianti dal pericolo di schiavitù, il commercio da molti danni. La pirateria africana è vergogna europea, un solo potentato non bastando a spegnerla; nè finirà se un’alleanza veramente santa non impedisca colle armi l’esercizio infame, o se i grandi re colle minacce, i piccoli coi donativi non divezzino dalle rapine quella iniqua genia. Chè al cuore dei barbari pure scendono le dolcezze della pace e della giustizia, le quali, gustate, fanno grave ed insopportabile la fatica e i cimenti della vita malvagia.

Per lo quale trattato fu imposta nuova gravezza di due milioni di ducati, esorbitante perchè tre volte più del bisogno. Sbarcarono nel porto di Napoli trecentocinquantasette schiavi affrancati, ed a processione attraversarono la città, con tristo spettacolo, giacchè indossando veste lurida e servile rappresentavano le miserie della schiavità. Immenso popolo li seguiva, ora vedendosi frotte liete perchè di congiunti che si abbracciavano, ora udendo i gemiti di altre famiglie che cercando del parente lo sentivano morto o venduto nelle catene. Stava sul volto ai riscattati non allegrezza e non [p. 203 modifica]mestizia, ma curiosità e stupore; molti fra loro, antichissimi alla schiavitù, riducendosi alle famiglie, trovandole spente o rifatte da generazioni ignote alla memoria ed al cuore, ed essi già diversi da noi per usi, costumi, bisogni dell’acquistata barbara natura, ritornavano volontarii, ma franchi, alle terre africane.

XXXIII. Aveva Napoli antichi trattati di commercio con la Inghilterra, la Francia, ed antiche pratiche colla Spagna; queste non avevano data: quelli colla Gran Bretagna erano due di Madrid del 1667 e 1715, e tre di Utrecht del 1712 e 13; e colla Francia, uno di Madrid del 1669, altro de Pirenei del 1688, Napoli concedeva innumerabili benefizii alle tre bandiere, senza premii o mercede, come servitù a signoria. Per trattati novelli del 25 settembre 1816 colla Inghilterra, del 26 febbrajo 1817 colla Francia, e del 15 agosto dello stesso anno colla Spagna furono aboliti gli antichi, e si diede al commercio delle tre nazioni il ribasso del decimo de’ dazii che si pagano dagli altri legni stranieri o napoletani; perciò le mercanzie di qualunque luogo venendo a noi colle favorite bandiere, gran parte del commercio di trasporto e quanto di utilità e di forza ne deriva, ci fu rapito.

In settembre 1817 e gennajo 1818 fu assegnato il pagamento di cinque milioni di franchi al principe Eugenio Beauharnais, in ricompensa de’ beni da lui perduti in Italia, ne’ dominii che occupò l’Austria l’anno 1814, per noi servile omaggio a’ voleri della santa alleanza, ed all’affetto indiscreto che portava al già vicerè l’imperatore Alessandro.

Nell’anno istesso 1818 fu concordato con tutte le corti europee l’abolizione dell’albinaggio, nato nell’antichità quando lo straniero era tenuto barbaro e nemico, perciò universale in Europa, ed oggi per migliori costumi universalmente rivocato.

Nel dicembre 1819 si fece trattato col Portogallo, cagione di scandalo e sdegno pubblico. Le galere di pena chiudevano esorbitante numero di condannati, amaro frutto de’ continui sconvolgimenti del regno e della corruttela de’ tempi, peso alla finanza, cura e pericolo alla polizia. Fu convenuto dare al Portogallo, per trasportarli a Rio-Janeiro, i condannati a vita, e dipoi gli afflitti di pene a tempo, e perfino coloro che ne avevano tollerata gran parte. I commissarii del Portogallo, rifiutando i vecchi, gli storpii, gl infermi, ricercavano la sana gioventù come più valente a’ servili lavori. Il governo si vantava di pietà per aver fatti liberi que’ prigioni, benchè in altro emisfero: ma il sociale patto (che pure alcuno ve ne ha coi delinquenti) riprovava quell’atto, ed un secreto sentimento di umanità lo rendeva abominevole: dicevasi che, vietata nel mondo la tratta infame degli schiavi, si vedevano in Napoli uomini, nati liberi, andare a schiavitù, e per sordido risparmio dati in dono. [p. 204 modifica]Altri trattati si fermarono colla Russia, la Sardegna, la santa sede, che io non rammemoro perchè di lieve passeggero momento, e ’l desiderio mi spinge a narrare le cagioni e gli effetti del concordato.

XXXIV. Ho discorso del concordato del 1741 nel primo libro di queste istorie, delle contese sulla chinea nel secondo. Godè poi Napoli tempi felici per lunga pace e per numero di scienziati amante delle pubbliche libertà; giacchè dopo il Giannone, altri, di lui poco men chiari, scrissero delle vane pretendenze del papa, ed il re Ferdinando, giovane allora e di più larga coscienza, applaudiva gli scritti. Per la rivoluzione di Francia, cruenta e trionfatrice, il re delle Sicilie ed il sommo pontefice, legati dallo spavento comune, sospesero le private brighe. L’alta Italia fu invasa da’ Francesi, indi Roma, indi Napoli: fuggirono i due sovrani, i due stati si ordinarono a repubblica, la pontificale navicella tenevasi a stento fra le tempeste. Poi fugate d’Italia nel 1799 le già vincitrici schiere francesi, que’ due sovrani ritornarono alle antiche sedi, scosse ancora dalle passate vicissitudini e minacciate dalle avvenire che scopertamente il secolo preparava; onde a cure sì gravi di regno cedevano le minori di predominio. E frattanto per bisogni di guerra e di stato il governo di Napoli vendeva, senza che il papa lo acconsentisse, beni di chiesa, scioglieva conventi, non provvedeva alle sedi vacanti dei vescovi per godere delle rendite, abbassava in molte guise la pontificale superbia che silenziosa attendeva (come è suo stile nelle avversità) il tempo alla vendetta.

Tali erano le cose quando uno de’ Bonaparte e poi Murat vennero al trono di Napoli. Le regole di questo regno furono le stesse dell’impero di Francia, il quale ancora serbava molte delle libertà e licenze dell’appena estinta repubblica; si disfacevano i conventi, era il matrimonio atto civile, si legittimava il divorzio per civile giudizio, tutte si offendevano le antiche ragioni Roma. Ed indi a poco imprigionato il papa, si aggregò il patrimonio della chiesa all’impero di Francia. Le legazioni e le Marche al regno italico, scomparendo d’Italia il fatale triregno, perpetuo nemico della unione e prosperità italiana. Nè perchè il pontefice tornasse in Roma nel 1814, il governo di Napoli cangiò tenore, che anzi reggeva le Marche da padrone, e pretendeva a più vasto e stabile dominio negli stati del papa. Il popolo napoletano poco tenace a’ dogmi di religione, contento delle forme, fatto ricco di beni della chiesa, viste a nudo le ribalderie de’ già frati, e chiarita alquanto la mente da’ lumi di ragione, non aveva a fastidio nè a peccato quella indipendenza.

XXXV. Ma nel 1815 il re Ferdinando, perduta la vigoria della giovinezza, fatto timido della morte, circuito di preti, non curante [p. 205 modifica]del bene dello stato, facendosi colpa delle antiche dispute col papa, voleva calmare la coscienza col concordato. Alcuni dei ministri si opponevano, veramente a boria di bello spirito più che per salda persuasione, o perchè se quanto nuoce ed ingiuria governare lo stato nella dipendenza papale. Frattanto il re, col passare de’ giorni più vicini alla morte, impaziente ed assoluto comandò di accordarsi con Roma, e scelse a negoziatore il cavalier Medici, l’oppositore al concordato più forte ma segreto; e se in lui prevalesse il passato giudizio o la presente ambizione, lo dirà l’opera del concordato.

Convennero in Terracina col cardinal Consalvi, e fermarono il trattato, del quale sono queste le parti degne di memoria:

1°. Riordinamento delle diocesi; erano i vescovi centotrentadue, poi ridotti per vacanze non provviste a quarantatrè; oggi saliti a centonove.

2°. Riconoscimento delle vendite de’ beni ecclesiastici, seguite ne’ regni di Ferdinando, Giuseppe e Gioacchino. I beni non ancora venduti, restituirsi.

3°. Ristabilimento de conventi nel maggior numero che si possa, avuto riguardo alla quantità de’ beni restituiti, ed alle assegnazioni possibili alla finanza.

4°. Diritto di nuovi acquisti alla chiesa.

5°. Divieto al presente re, ed a’ re successori di mai disporre de’ possessi ecclesiastici; oggi viepiù dichiarati e riconosciuti sacri, inviolabili.

6°. Annuo pagamento a Roma di ducati dodicimila sopra le rendite de’ vescovadi napoletani.

7°. Ristabilimento del foro ecclesiastico per le discipline de’ chierici, e delle cause (benchè fra i laici) che chiamò ecclesiastiche il Tridentino concilio.

8°. Facoltà di censura ne’ vescovi contro qualunque trasgredisse le leggi ecclesiastiche, ed i sacri canoni.

9°. Libero a’ vescovi comunicare co’ popoli; libero corrispondere col papa; concesso ad ognuno ricorrere alla corte romana; i divieti del liceat scribere rivocati.

10°. Facoltà ne’ vescovi d’impedire la stampa o la pubblicazione de libri giudicati contrarii alle sacre dottrine.

11°. Dato al re proporre i vescovi; riserbato al pontefice il diritto di scrutinio e consecrazione.

12°. prescritto il giuramento de’ vescovi; ed era: «Io giuro e prometto sopra i santi evangeli obbedienza e fedeltà alla real maestà. Parimenti prometto che io non avrò alcuna comunicazione nè interverrò ad alcuna adunanza, nè conserverò dentro o fuori del regno alcuna sospetta unione che noccia alla pubblica [p. 206 modifica]tranquillità. E se, tanto nella mia diocesi che altrove, saprò che alcuna cosa si tratti in danno dello stato, la manifesterò a S.M.»

XXXVI. Fu questo il concordato del 16 febbrajo 1818. Roma avvantaggiò; e dalla nostra parte il decoro del re, il bene de’ popoli, lo sforzo di cento ingegni, i progressi filosofici di cento anni, perirono in un giorno, per la inerzia di un re, e l’ambizione di un suo ministro. Discorriamone gli effetti. Spiacque a’ sapienti per quel che ho detto, ed a’ lividi cattolici perchè credettero fuggito il momento nel quale la romana curia poteva risalire all’altezza de’ tempi di Gregorio VII. Furono riaperti conventi; i già religiosi, gustata per molti anni la vita libera, repugnavano di tornare alle regole conventuali; ma li costringeva fanatismo di pochi ed autorità del governo. Ed il popolo, ridendo di quelle fogge ormai viete, rammmentava (a vederli camuffati ed austeri) le poco innanzi esercitate disonestà. Numerose missioni uscirono da nuovi conventi, con effetto contrario alle speranze, perciocchè non ascoltate o derise tornavano.

Un guardiano de’ frati notò di censura un capitano delle milizie civili, franco e licenzioso nelle pratiche di religione, onesto nelle civili; e poichè non mutò vita ed anche indarno gli fu interdetta la comunione de’ fedeli, quel frate, messo a bruno l’altare, in giorno festivo, a voce altissima, pronunziò l’anatema. Sia che il capitano avesse amici nel popolo, sia che il tempo degli anatemi fosse passato, i popolani a tumulto minacciarono il guardiano; e l’uccidevano se il capitano istesso pregando e minacciando la plebe, nol difendeva. Quegli fu padre Ambrogio di Altavilla, traslocato in pena di quello scandalo ad altro convento; il capitano, Salati, rimasto in impiego e lodato della generosa difesa; il paese, Gioi nel Cilento; l’anno, 1819.

Finalmente (nè altro dirò, perchè molte carte riempirei se tutti narrar volessi i mali effetti del concordato) il giuramento de’ vescovi eccitando sospetto che le cose religiosamente confessate fossero rivelate al governo, i settarii, i liberali, i nemici de’ potenti, e i potenti trasandavano la confessione a detrimento de’ principii e degl’interessi de’ due sovrani che si concordarono. Intendevano all’adempimento delle stabilite il marchese Tommasi per le nostre parti, il vescovo Giustiniani per le parti di Roma; l’uno e l’altro, per autorità e per animo, assai da meno del tribunale misto, nominato da Carlo nel concordato del 1741. Il delegato della giurisdizione non fu rifatto; mancò d’allora innanzi chi vegliasse alle ragioni della corona e dello stato.

XXXVII. Benchè civile si mostrasse il popolo ne’ fatti del concordato, fu incivilissimo alla fondazione de’ campi santi da [p. 207 modifica]provvida legge prescritti; cosicchè regge ancora il costume osceno, insalutare e più che barbaro (i barbari meglio che noi dando sepoltura a cadaveri) d’interrare nelle fosse delle chiese, in mezzo alle città. E può tanto invecchiato errore, che non si tiene in pregio alzar tomba in sito ameno a corpi morti delle care persone, ma si vuole nella stessa comune lurida fossa confondere le spoglie di vergini figliuole o di pudiche consorti a quelle di ladroni, ribaldi e dissoluti. Vero è che i preti soffiano in quella ignoranza per non perdere il guadagno de’ mortorii, nè diminuire il raccolto del purgatorio, sempre più largo se in presenza della fossa che chiude ceneri adorate o venerande.

XXXVIII. Poichè ho riferito i trattati di cinque anni, dirò nel tempo stesso con egual brevità i matrimonii e le morti degne d’istoria.

A’ 15 aprile 1816, furono celebrate le nozze tra ’l duca di Berry nipote al re di Francia, e la principessa Carolina Ferdinanda figlia primogenita del duca di Calabria; la quale era nella tenera età che scorre appena tre lustri gradevole di persona, di colto ingegno, di animo donnesco e superbo.

A’ 16 luglio dell’anno istesso il principe di Salerno strinse matrimonio coll’arciduchessa Maria Clementina figlia dell’imperatore d’Austria.

Ed a’ 3 agosto 1818, furono sposi l’infante don Francesco di Paola fratello al re di Spagna, e la principessa Luisa Carlotta secondogenita del duca di Calabria, giovinetta pur ella di leggiadre forme. La dote, presa e data in que’ tre matrimonii, fu la consueta delle due reali famiglie di Napoli e di Vienna.

Morì nel maggio 1815 il duca di Civitella, onesto, ma in vita oscuro; la morte diede esempio meritevole di ricordanza: amico a Gioacchino ed uno della sua corte, addolorato per la caduta della casa Murat, il giorno che l’esercito tedesco entrò in città, egli senza timori, senza rimorsi, ma non tollerando l’abborrita vista, si gettò dall’alto e perì, benchè lasciasse bella e giovine moglie, teneri e molti figli. Il suicidio per precipizii è il più usalo da’ Napoletani, e se taluno è preso del melanconico proponimento, i famigliari non celano ferri o veleni, ma chiudono le uscite a’ dirupi.

Nell’anno istesso Giovanni Meli medico e poeta egregio morì a Palermo sua patria della età di anni settantasei, i suoi versi scritti in dialetto siciliano sono celebrati anche più del merito in Sicilia, meno in Italia. La città fece scolpire il suo busto in marmo, e disegna di alzare a sua gloria un monumento.

Più grave di età morì nel 1816 Giovanni Paisiello. La musica per lui, cangiato stile, da misurata e ristretta divenne spontanea ed abbondante. Ebbe compagno in virtù ne’ suoi primi anni il [p. 208 modifica]Cimarosa, negli ultimi il Rossini, dal quale fu vinto, perchè il gusto de’ suoni è rapido e cangiante. Ottenne in vita onori e ricchezze, in morte pompose esequie, recitate lodi e monumento di marmo che le amorose di lui sorelle posero nella chiesa di Santa Maria Nova.

E pur nel 1816, della età di anni centoquindici trapassò Domenico Giovanelli, del quale registro il nome non per ventura di longevità, ma perchè volle, morendo, il suo ricco patrimonio, frutto di modesta ed operosa vita, spartito tra i poveri di Lentella sua patria. Egli vide morir di vecchiezza un nipote, figlio del figlio; il casato che in lui si spegneva fu aggiunto al casato proprio de’ poveri beneficati, e la duce del nome divenne vasta ed onoratissima.

Ed in quell’anno medesimo finì la vita del principe di Russia Philipstadt di regio sangue alemanno, capitan generale negli eserciti napoletani, per valore di guerra e virtù private degno rampollo di nobilissima stirpe.

Due anni appresso, nel 1818, morì il tenente generale Saint-Clair, francese, emigrato quando era giovinetto per fuggire i civili sconvolgimenti della sua patria. Servì negli eserciti napoletani, grato alla corte e caro alla regina Carolina d’Austria, alla quale fu discreto amico nelle buone sorti, devoto nelle avverse; civile, onesto, benefico, amato, compianto.

XXXIX. Il re andò a Roma per inchinare il papa, avere onore del concordato, e benedizioni, indulgenze; portò seco la moglie, piccolo corteggio, nessuna pompa; ma nello stretto numero di seguaci pur volle Casacciello buffo napoletano, che sulle scene di Roma non piacque, perciocchè il ridere, non avendo come il pianto immutabile cagione nella natura degli eventi, prende misura da’ luoghi e tempi, sì che piangiamo ancora dei mesti casi di Germanico e di Agrippina, ma nessun labbro moverebbe a riso le facezie degli Osci. E però i motti di Casacciello fastidivano i Romani uditori, e fra tanta pubblica noja il solo ridere del re gli accrebbe fama di goffezza.

Il re, stando in Roma, fece grazia del ritorno a dieci Napoletani che nel 1815 spatriarono, altri per seguire Gioacchino, altri per fuggire i Borboni. Tre de’ dieci sono degni di ricordanza, il conte Zurlo, il barone Poerio, Davide Winspeare, de’ quali appresso parlerò, essendo riserbati dalla sorte a novelli giuochi di fama e di sventure. Ritornò il re, e seco venne il fratello Carlo IV, sovrano per venti anni delle Spagne, confinato a Roma dopo i rivolgimenti del suo regno, nè tornato alla potenza e alle fortune per la caduta del nemico e l’innalzamento del figlio. Era stato in Napoli poco innanzi a diporto, dicevasi che ora venisse a permanenza. I due re [p. 209 modifica]fratelli davano segni di vicendevole amore, ed il pubblico ammirava quella, in cuor de’ potenti, rara dolcezza di domestici affetti. Il duca di Calabria indi a poco andò a Roma, trovò inferma la regina di Spagna, e vistone il fine, accelerò il ritorno in Napoli.

XL. Al terminare di quell’anno istesso il re mortalmente ammalò, e Carlo gli fece assistenza tenera e zelante. Palpitarono a quel pericolo i Napoletani più accorti per sospetto che il figlio mutasse in peggio gli ordini civili, giacchè tenuto proclive al male, avverso alle blandizie di governo, intimo amico al Canosa. E dirò cosa non credibile, ma vera; i ministri del re morente laceravano la fama del successore. Ma quei guarì, ed ebbe feste sacre o civiche, dove i migliori ingegni rappresentarono l’universale contento con rime e prose in grosso volume raccolte. Il re si diceva grato a que’ voti pubblici, i ministri divolgavano che in breve farebbe cosa piacevole a’ liberali, i liberali fra le mille possibili felicità fermarono il pensiero e le speranze nella costituzione, quando si udì che Ferdinando aveva fatto recidere la coda de’ suoi capelli a segno e documento de’ mutati principii. Qui rammento, come ho riferito nel quinto libro, che la recisione della coda nel 1799 fu indizio di giacobinismo per la plebaglia, ed argomento e colpa ne’ giudizii della giunta di stato; cosicchè quella moda o vaghezza che allora generò eccidii e pene, oggi, per il taglio delle chiome regie, suscitò non contentezza e non riso, ma dolorosi ricordi.

XLI. Poco appresso infermò Carlo IV, e il re n’ebbe avviso frettoloso stando in Persano a diporto di caccia; ma, troppo dedito a que’ piaceri o confidando della guarigione, non tornò alla città. Carlo, sollecito del fratello, ne dimandava a’ circostanti, che per confortare quelle ansietà di morte accertavano vicino il ritorno del re; ma questi, per altre lettere, per altri messi, avvisato e fastidito, comandò che non si aprisse un foglio allora giunto, e non gli si parlasse del fratello prima della tornata da una caccia, pronta per lo indomani, e sperata dilettevole dall’abbondanza di cignali e cervi da uccidere. Si obbedisce al comando. Venuti dalla caccia ed aperto il trattenuto foglio, fu letto esser Carlo agli estremi di vita, e sforzare il debole fiato dell’agonia per richiedere del fratello. Disse Ferdinando: «A quest’ora egli è dunque trapassato, io giungerei tardo ed inutile; aspetterò altri avvisi.»

Subito vennero, e recarono che Carlo era morto, e poichè lo arrestarsi a Persano per diporto faceva pubblico scandalo, il re passò a Portici. La storia di Spagna dirà di Carlo IV l’indole e i casi: ma spetta a noi rammentare che nacque in Napoli l’anno 1748, che ne partì con Carlo suo padre nel 1759; che nella infanzia fu gradito perchè lieto e carezzevole, nell’ultimo della vita buon fratello a Ferdinando, buono amico ai cortigiani che seco trasse da Spagna, [p. 210 modifica]e buono ospite re nella reggia straniera; che morì serenamente da cristiano cattolico nel 19 gennajo 1819.

Si fecero le esequie al sesto dì dopo la morte, serbando le ridevoli cerimonie spagnuole, così che da sei giorni era spento il re ma si fingeva che vivesse, mangiasse, comandasse; chiudendo il cadavere nella tomba, tre volte era chiamato a nome, tre volte scosso e pregato a rispondere, onde paresse che per suo talento si partiva dal mondo, non soffrendo la regal superbia ch’egli cedesse al fato universale. Le spoglie, prima deposte nella chiesa di Santa Chiara dove hanno tomba i re di Napoli, furono poi trasportate nella Spagna. Mentre i funerali si celebravano, il re Ferdinando andò da Portici a Carditello per nuova caccia, e facendo invitare la sera innanzi, per averlo compagno, il ministro d’Inghilterra sir William Accourt, n’ebbe risposta che pietose auguste cerimonie (tacendo il nome) impedivano di accettare il grazioso invito. E nel dimani, stando l’Accourt in chiesa ad ascoltare le lodi del defunto, il re con altro foglio, nella chiesa diretto, gli diceva che disbrigato dei funerali di Carlo il raggiungesse a Carditello. L’Inglese maravigliando si recò all’invito, e poi disse che il re fu allegro più che non mai ed avventuroso alla caccia.

Ma nei giorni che succederono sentì l’animo agitato dal timore della morte, però che, visto spento il fratello, rammentò che i Borboni della sua stirpe i più longevi intorno a settant’anni di vita morirono, ed egli era al sessantanovesimo. Ricorrendo alla religione votò un eremo di frati cappuccini, che, in breve tempo eretto nel mezzo del bosco di Capodimonte prossimamente alla reggia, ricetterà il re in una delle sei celle a lui serbata, quando stanco di regno si ritiri dal mondo. Quel bosco istesso voleva mutare Gioacchino in caccia da corsa e torneo, e poco innanzi Giuseppe in orti ameni e lascivi. Indizio dell’animo dei re sono le opere di privato diletto, spesso più dei fatti pubblici composti ad apparenza o a necessità.

XLII. In aprile dell’anno istesso 1819 venne in Napoli a diporto ed a pompa l’imperatore di Austria Francesco I, accompagnato dalla moglie e da una figlia, seguito dal principe di Metternich ed altri personaggi di fama. Riverito ed onorato, ebbe albergo nella reggia. Partì nel maggio seguente; ed allora il re Ferdinando nominò duca di Portella (Portella è una porta della frontiera, ingresso al regno) il principe di Metternich con larghissimi doni. Aveva già creato il general Bianchi duca di Casalanza. in memoria e merito della convenzione di quel nome; e duca di Dino il ministro Talleyrand, che al tempo istesso principe di Benevento per Bonaparte portava nelle sue dignità il documento della mutata fede. Concedè ricche pensioni agli ambasciatori Ruffo, Castelcicala e Serracapriuola, e larghi doni a’ ministri Medici, Tommasi, Circello, Naselli: diede [p. 211 modifica]al generale Nugent, per vil prezzo, le vaste terre di Castel-Volturno; e poco appresso agli stessi Medici, Tommasi e Nugent, ducati cent’ottantamila sopra i risparmii dell’amministrazione di guerra, o veramente su la nudità e penuria dell’esercito. Alla margravia di Anspak (per prodigalità, nuova insino allora nella storia de’ re) fece dono di una vasta piazza dell’amenissima strada di Posilipo; e colei, per più farla privata, la cinse di muri, l’adornò di giardini e vi alzò casa. Doni assai maggiori faceva alla moglie ne’ giorni del nome, ne’ natalizii, al primo dell’anno, all’anniversario delle nozze, ad ogni felicità della reggia. Una villa sul Vomero che venti anni prima un tal Lulù, favorito della regina Carolina d’Austria, avea fabbricata, e dicevasi per le secrete lascivie di lei, fu comprata ed ingrandita dal ministro Saliceti, e poi dagli eredi venduta al re, che la donò alla moglie chiamandola, dal titolo di lei, Floridia. Vi aggiunse altre terre, altri edifizii, e con prodiga mano tutti que’ luoghi abbellì: vi si alimentavano per lussuriante grandezza i kangaron animali dell’America, per deformità singolari, camminando spesso su le zampe anteriori e la coda lunga e ravvolta; e per pattovito prezzo di diciotto così oscene bestie furono date all’Inghilterra altrettanti papiri non ancora svolti dell’Ercolano, trattando quel cambio sir William Accourt.