Spaccio de la bestia trionfante/Dialogo primo/Parte seconda
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II.
Con questo dire, di passo in passo suspirando, il gran padre de la patria celeste, avendo finito il suo ragionamento con Venere, il proposito di ballare converse in proponimento di fare il gran consiglio con li dei de la tavola ritonda; cioè tutti quei, che non sono apposticci, ma naturali, ed han testa di consiglio, esclusi li capi di montone, corna di bue, barbe di capro, orecchie d’asino, denti di cane, occhi di porco, nasi di scimia, fronti di becco, stomachi di gallina, pance di cavallo, piedi di mulo, e code di scorpione. Però, data la crida per bocca di Miseno, figlio di Eolo, perchè Mercurio sdegna l'essere, come anticamente fue, trombettiero e pronunziator di editto, quei tutti dei, ch’erano dispersi per il palagio, si trovarono ben presto radunati. Qua dopo tutti, essendo fatto alquanto di silenzio, non men con tristo e mesto aspetto, che con alta presenza e preeminenza maestrale, menando i passi Giove, prima che montasse in soglio e comparisse in tribunale, se gli appresenta Momo, il quale con la solita libertà di parlare disse così con voce tanto bassa, che fu da tutti udita: «Questo concilio deve essere differito a l'altro giorno ed altra occasione, o padre, perchè questo umore di venir in conclave adesso immediate dopo pranzo, pare, che sia occasionato da la larga mano del tuo tenero coppiero; perchè il nettare, che non può essere dallo stomaco ben digerito, non consola o refocilla, ma altera e contrista la natura, e perturba la fantasia, facendo altri senza proposito gai, altri disordinatamente allegri, altri superstiziosamente divoti, altri vanamente eroici, altri collerici, altri macchinatori di gran castelli, sin tanto che col svanimento di medesime fumositadi, che passano per diversamente complessionati cervelli, ogni cosa casca e va in fumo. A te, Giove par che abbia commosse le specie di gagliardi e fluttuanti pensieri, e t’abbia fatto dovenir triste; per ciò che inescusabilmente ognuno ti giudica — ben che io solo ardisca di dirlo — vinto ed oppresso da l’atrabile, perchè in questa occorrenza, che non siamo convenuti, provisti a far consiglio, in questa occasione che siamo uniti per la festa, in questo tempo dopo pranzo, e con queste circostanze d’aver ben mangiato e meglio bevuto, volete trattar di cose tanto seriose, quanto mi par intendere, e alcunamente posso annasare col discorso.» Ora, perchè non è consuetudine, nè pur molto lecito a gli altri dei di disputar con Momo, Giove, avendolo con un mezzo ed alquanto dispettoso riso rimirato, senza punto rispondergli, monta su l’alta cattedra. Siede, rimira in cerchio la corona de l’assistente gran senato. Da quel sguardo convien ch’a tutti venisse a palpitar il cuore, e per scossa di maraviglia, e per punta di timore, e per empito di riverenza e di rispetto, che suscita nei petti mortali ed immortali la maestade, quando si presenta. A presso, avendo alquanto bassate le palpebre, e poco dopo allungate le pupille in alto, e sgombrato un focoso suspiro dal petto, proruppe in questa sentenza:
«Non aspettate, o dei, che, secondo la mia consuetudine, v’abbia ad intonar ne l’orecchio con uno artificioso proemio, con un terso filo di narrazione, e con un dilettevole agglomerato epilogale! Non sperate ornata tessitura di parole, ripolita, infilacciala di sentenze, ricco apparato di eleganti propositi, suntuosa pompa di elaborati discorsi, e, secondo l’instituto di oratori, concetti posti tre volte a la lima, prima ch’una volta a la lingua.
Non hoc, non hoc ista sibi tempus spectacula poscit.
Credetemi, dei, perchè crederete il vero; già dodici volte ha ripiene l’inargentate corna la casta Lucina, ch’io son stato in la determinazione di far questa congregazione oggi, in questa ora, e con tai termini, che vedete! E in questo mentre sono stato più occupato sul considerar quello che devo a nostro mal grado tacer, che mi sia stato lecito di premeditar sopra quello che debbo dire.
Odo, che vi maravigliate, perchè a questo tempo, rivocandovi da vostro spasso, v’abbia fatto citar a la congregazione e dopo pranzo a subitaneo concilio. Vi sento mormorare, che in giorno festivo vi vien tocco il core di cose seriose, e non è di voi chi a la voce de la tromba e proposito de l’editto non sia turbato. Ma io, benchè la ragione di queste azioni e circostanze pende dal mio volere, che l’ha possuto instituire, e la mia volontà e decreto sia l’istessa ragione de la giustizia, tutta volta non voglio mancare, prima che proceda ad altro, di liberarvi da questa confusione e maraviglia. Tardi, dico, gravi e pesati denno essere i proponimenti; maturo, secreto e cauto deve essere il consiglio: ma l’esecuzione bisogna, che sia alata, veloce e presta. Però non credete, che intra il desinare qualche strano umore m’abbia talmente assalito, che dopo pranzo mi tegna legato e vinto, onde non a posta di ragione, ma per impeto di nettareo fumo proceda a l’azione; ma dal medesimo giorno de l’anno passato cominciai a consultar entro di me quel tanto, che dovevo eseguire in questo giorno ed ora. Dopo pranzo dunque, perchè le nove triste non è costume d’apportarle a stomaco digiuno, a l’improviso perchè so molto bene, che non così, come a la festa, solete convenir volentieri al consiglio, il quale è intensissimamente da molti di voi fuggito: mentre chi lo teme, per non farsi nemici, chi per incertezza di chi vince e di chi perde, chi per timore, ch’il suo consiglio non sia tra’ dispregiati, chi per dispetto per quel, che il suo parere tal volta non è stato approvato, chi per mostrarsi neutrale ne le cause pregiudiziose o de l’una o de l’altra parte, chi per non aver occasione d’aggravarsi la coscienza; chi per una, chi per un’altra causa. Or vi ricordo, o fratelli e figli, che a quelli, ai quali il fato ha dato di posser gustar l’ambrosia, e bevere il nettare, e goder il grado de la maestade, è ingiunto ancora di comportar tutte gravezze, che quella apporta seco. Il diadema, la mitra, la corona, senza aggravarla, non onorano la testa: il manto regale e lo scettro non adornano senza impacciar il corpo. Volete sapere, perchè io a ciò abbia impiegato il giorno di festa, e specialmente tale, quale è la presente? Pare a voi dunque, pare a voi, che sia degno giorno di festa questo? E credete voi, che questo non deve essere il più tragico giorno di tutto l’anno? Chi di voi, dopo ch’arà ben pensato, non giudicarà cosa vituperosissima di celebrar la commemorazion de la vittoria contra i giganti, a tempo, che da li sorci de la terra siamo dispregiati e vilipesi? Oh che avesse piaciuto a l’onnipotente irrefragabil fato, che allora fussimo stati discacciati dal cielo, quando la nostra rotta per la dignità e virtù de’ nemici non era vituperosa tanto, perchè oggi siamo nel cielo peggio, che se non vi fossimo, peggio, che se ne fussimo stati discacciati, atteso che quel timor di noi, che ne rendea tanto gloriosi, è spento, la gran riputazione de la maestà, providenza e giustizia nostra è cassa, e quel ch’è peggio, non abbiamo facultà e forza di riparar al nostro male, di vendicar le nostre onte; perchè la giustizia, con la quale il fato governa li governatori del mondo, ne ha a fatto tolta quella autorità e potesà la quale abbiamo tanto male adoperata, discoperti e nudati avanti gli occhi de’ mortali e fatti manifesti i nostri vituperj, e fa che il cielo medesimo con così chiara evidenza, come chiare ed evidenti son le stelle, renda testimonianza dei misfatti nostri. Perchè vi si vedeno aperto li frutti, le reliquie, li riporti, le voci, le scritture, le istorie di nostri adulterj, incesti, fornicazioni, ire, sdegni, rapine e altre iniquitadi e delitti; e che, per premio di errori, abbiamo fatto maggiori errori, inalzando al cielo i trionfi de’ vizj e sedie di scelleraggini, lasciando bandite, sepolte e neglette ne l’inferno le virtudi e la giustizia. E per cominciare da cose minori, come da peccati veniali: perchè solo il Deltoton, dico quel triangolo, ha ottenute quattro stelle a presso il capo di Medusa, sotto le natiche di Andromeda, e sopra le corna del Montone? Per far vedere la parzialità, che si trova tra li dei. Che fa il Delfino, giunto al Capricorno da la parte settentrionale, impadronito di quindici stelle? Vi è, a fine che si possa contemplar l'assunzione di colui, che è stato buon sensale, per non dir ruffiano, tra Nettuno e Amfitrite. Perchè le sette figlie d’Atlante soprassiedono a presso il collo del bianco Toro? Per essersi con lesa maestà di noi altri dei vantato il padre di aver sostenuti noi e il cielo ruinante, o pur per aver in che mostrar la sua leggerezza ai numi che vi l’han condotte. Perchè Giunone ha ornato il Granchio di nove stelle, senza le quattro altre circostanti, che non fanno imagine? Solo per un capriccio, perchè fortificò il tallone ad Alcide a tempo, che combatteva con quel gigantone. Chi mi saprà dar altra cagione, che il semplice e irrazional decreto de’ superi, perchè ii Serpentauro, detto da noi Greci Ofiuco, ottiene con la sua colobrina il carapo di trentasei stelle? Qual grave ed opportuna cagione fa al Sagittario usurparsi trenta e una stella? Perchè fu figlio di Euschemia, la quale fu nutrice o balia de le Muse. Perchè non più tosto a la madre? Perchè lui oltre seppe ballare e far i giuochi de le bagatelle. Acquario, perchè ha quaranta cinque stelle a presso il Capricorno? Forse, perchè salvò la figiia di Venere Taicete1 nel stagno? Perchè non ad altri, a li quali noi dei siamo tanto obligati, che sono sepolti in terra, ma più tosto a costui, ch’ha fatto un servigio indegno di tanta ricompensa, è stato conceduto quel spazio? Perchè così ha piaciuto a Venere. Li Pesci, ben che meritino qualche mercede, per aver dal fiume Eufrate cacciato quell'ovo, che, covato da la colomba, ischiuse la misericordia de la dea di Pafo, tutta volta paionvi soggetti d’ottener l'ornamento di trenta quattro stelle, senz'altre quattro circostanti, e abitare fuor de l'acque ne la region più nobile del cielo? Che fa Orione, tutto armato a scrimir solo, con le spalancate braccia, impiastrato di trentotto stelle, ne la latitudine australe verso il Tauro? Vi sta per semplice capriccio di Nettuno, a cui non ha bastato di privilegiarlo su l'acque, dove ha il suo legittimo imperio, ma oltre fuor del suo patrimonio si vuol con si poco proposito prevalere. La Lepre, il Cane, e la Cagnolina sapete, che hanno quaranta tre stelle ne la parte meridional, non per altro, che per due o tre frascarie non minori, che quella, che vi fa essere a presso l'Idra la Tassa ed il Corvo, che ottegnono quarant’e una Stella, per memoria di quel, che mandaro una volta li dei il Corvo a prender l’acqua da bere, il qual per il cammino vidde un fico, ch’avea le fiche o li fichi — perchè l’uno e l’altro geno è approvato dai grammatici, dite come vi piace — per gola quell’uccello aspettò, che fussero maturi, de’ quali al fine essendosi pasciuto, si ricordò dell’acqua, andò per empir la lancella, viddevi il dragone, ebbe paura, e ritornò con la ciarra vuota a li dei: i quali, per far chiaro, quanto hanno ben impiegato l’ingegno e il pensiero, hanno descritta in cielo questa istoria di sì gentile e accomodato servitore. Vedete, quanto bene abbiamo speso il tempo, l’inchiostro e la carta! La Corona austrina, che sotto l’arco e piedi di Sagittario si vede, ornata di tredeci topazj lucenti, chi l'ha predestinata ad essere eternamente senza testa? Che bel vedere volete voi, che sia di quel pesce Nozio, sotto li piedi d’Acquario e Capricorno, distinto in dodici lumi, con sei altri, che gli sono incirca? De l'altare o turibulo, o fano, o sacrario, come vogiiam dire, io non parlo; perchè giammai gli convenne così bene d’essere in cielo, se non ora, che quasi non ha dove essere in terra; ove vi sta bene, come una reliquia, o pur come una tavola de la sommersa nave de la religion e colto di noi.
Del Capricorno non dico nulla, perchè mi par dignissimo d’ottenere il cielo, per averne fatto tanto beneficio, insegnandoci la ricetta, con cui potessimo vincere il Pitone; perchè bisognava, che li dei si trasformassero in bestie, se volevano aver onor di quella guerra, e ne ha donata dottrina, facendoci sapere, che non si può mantener superiore chi non si sa far bestia. Non parlo de la Vergine; perchè, per conservar la sua virginità, in nessun loco sta sicura, se non in cielo, avendo da qua un leone, e da là uno scorpione per sua guardia. La poverina è fuggita da terra, perchè l'eccessiva libidine de le donne, le quali, quando più son pregne, tanto più sogliono appetere il coito, fa, che non sia sicura di non essere contaminata, anco se si trovasse nel ventre de la madre; però goda li suoi venti sei carbuncoli, con quelli altri sei, che le sono intorno. Circa l’intemerata maestà di quei doi asini, che luceno nel spazio di Cancro, non oso dire, perchè di questi massimamente per dritto e per ragione è il regno del cielo; come con molte efficacissime ragioni altre volte mi propono di mostrarvi, perchè di tanta materia non ardisco parlare per modo di passaggio. Ma di questo sol mi doglio e mi lamento assai, che questi divini animali sieno stati sì avaramente trattati, non facendoli essere, come in casa propria, ma ne l’ospizio di quel retrogrado animale acquatico, e non munerandoli più, che de la miseria di due stelle, donandone una a l’uno e l’altra a l’altro; e quelle non maggiori, che de la quarta grandezza.
De l'Altare dunque, Capricorno, Vergine ed Asini, ben che prendo a dispiacer, ch’ad alcuni di questi, non essendo lor trattati secondo la dignità, in loco di essere fatto onore, forse li è stata fatta ingiuria, or al presente non voglio definir cosa alcuna; ma torno a gli altri suppositi, che vanno per la medesima bilancia con li sopradetti.
Non volete voi, che murmurino gli altri fiumi, che sono in terra, per il torto che li vien fatto? Atteso che, qual ragion vuole, che più tosto l'Eridano deve aver le sue trenta e quattro lucciole, che si veggono citra e oltre il tropico di Capricorno, più tosto che tanti altri non meno degni e grandi, e altri più degni e maggiori? Pensate, che basta dire, che le sorelle di Faetone v’abbiano la stanza? O forse volete, che vegna celebrato, perchè ivi per mia mano cadde il fulminato figlio d’Apollo, per aver il padre abusato del suo ufficio, grado ed autoritade? Perchè il cavallo di Bellerofonte è montato ad investirsi di venti stelle in cielo, essendo che sta sepolto in terra il suo cavalcatore? A che proposito quella Saetta, che per il splendor di cinque stelle che tiene inchiodate, luce prossima a l’Aquila e Delfino? Certo, che se le fa gran torto, che non stia vicina al Sagittario, a fin che se ne possa servire, quando arà tirato quella, che tiene in punta; o pur non appaia in parte, dove possa rendere qualche ragion di sè. Appresso bramo intendere, tra il spoglio del Leone e la testa di quel bianco e dolce Cigno, che fa quella Lira fatta di corna di bue in forma di testuggine? Vorrei sapere, s’ella vi dimora per onor de la testuggine, o de le corna, o de la lira, o pur, perchè ognun veda la maestria di Mercurio, che l’ha fatta per testimonio de la sua dissoluta e vana iattanza?
Ecco o dei, l’opre nostre! ecco le egregie nostre manifatture, con le quali ne rendemo onorati al cielo! Vedete, che belle fabriche, non molto dissimili a quelle, che sogliono far li fanciulli, quando contrattano la luta, la pasta, le boscaglie, le frasche e festuche, tentando imitare l’opre de’ maggiori! Pensate, che non doviamo render ragione e conto di queste? Possete persuaderà, che de l’opre oziose saremo meno richiesti, interrogali, giudicati e condannali, che de l’oziose parole? La dea Giustizia, la dea Temperanza, la dea Costanza, la dea Liberitade, la dea Pazienza, la dea Veritade, la dea Mnemesine, la dea Sofia e tante altre dee e dei vanno banditi, non solo dal cielo, ma e oltre da la terra, e in loco loro e ne gli eminenti palagi edificati da l’alta Providenza per residenza loro si veggono delfini, capre, corvi, serpenti, ed altre sporcarie, levitadi, capricci e leggerezze. Se vi par questa cosa inconveniente, e ne tocca il rimorso de la conscienza per il bene, che non abbiam fatto; quanto più dovete meco considerare, che doviamo esser punti e trafitti per le gravissime scelleraggini e delitti, che commessi avendono, non solamente non ne siamo ripentiti ed emendati, ma oltre ne aviamo celebrati trionfi, e drizzati come trofei non in un fano labile e ruinoso, non in tempio terrestre, ma nel cielo e ne le stelle eterne. Si può patire, o dei, e facilmente si condona a gli errori, che son per fragilità, e per non molto giudiziosa levità; ma qual misericordia, qual pietade può rivoltarsi a quelli, che son commessi da color, che, essendone posti presidenti ne la giustizia, in mercede di criminalissimi errori, contribuiscono maggiori errori con onorar, premiar ed esaltar al cielo i delitti insieme coi delinquenti? Per qual grande e virtuoso fatto Perseo ha ottenute venti sei stelle? Per aver coi talari e scudo di cristallo, che lo rendeva invisibile, in servigio de l'infuriata Minerva ammazzate le Gorgoni, che dormivano, e presentatole il capo di Medusa. E non ha bastato, che vi fusse lui; ma per lunga e celebre memoria bisognava, che vi comparisse la moglie Andromeda con le sue venti tre, il suo genero Cefeo, con le sue tredici, ch’espose la figlia innocente a la bocca del ceto per capriccio di Nettuno, adirato solamente, perchè la sua madre Cassiopea pensava essere più bella che le Nereidi. E però anco la madre vi si vede residente in cattedra, ornata di tredeci altre stelle, ne’ confini de l’artico circolo. Quel padre de gli agnelli con la lana d’oro, con le sue dieci e otto stelle, senza l’altre sette circostanti, che fa ballando sul punto equinoziale? È forse ivi per predicar la pazzia e sciocchezza del re di Calchi, l’impudicizia di Medusa, la libidinosa temeritade di Giasone, e l’iniqua providenza di noi altri? Quei doi fanciulli, che nel signifero succedono al Toro, compresi da dieci e otto stelle, senza altre sette circostanti informi, che mostrano di buono o di bello in quella sacra sedia, eccetto, che il reciproco amore di doi bardassi? Per qual ragione il Scorpione ottiene il premio di venti e una stelle, senza le otto, che son ne le chele, e le nove, che sono circa lui, e tre altre informi? Per premio d’un omicidio ordinato da la leggerezza ed invidia di Diana, che gli fece uccidere l'emulo cacciator Orione. Sapete bene, che Chirone con la sua bestia ottiene ne l’australe latitudine del cielo sessanta e sei stelle per esser stato pedante di quel figlio, che nacque dal stupro di Peleo e Teti.
Sapete, che la corona di Ariadna, ne la quale risplendono otto stelle, ed è celebrata là avanti il petto di Boote e le spire de l’angue, non v’è se non in commemorazione perpetua del disordinato amor del padre Libero, che s’imbracciò la figlia del re di Creta, rigettata dal suo stupratore Teseo.
Quel Leone, che nel core porta il basilisco, e che ottiene il campo di trenta e cinque stelle, che fa continuo al Cancro? Evvi fortasse per esser giunto a quel suo commilitone e suo conservo de l'irata Giunone, che lo apparecchiò vastatore del cleoneo paese, a fine che, a mal grado di quello, aspettasse l’avvenimento del strenuo Alcide? Ercole invitto, laborioso, mio figlio, che col suo spoglio di leone e la sua mazza par che si difenda le venti e otto stelle, quali con più che mai altri abbia fatto tanti gesti eroici s’ha meritate, pure, a dire il vero, non mi par conveniente, che tegna quel loco, onde il suo geno pone avanti gli occhi de la giustizia il torto fatto al nodo coniugale de la mia Giunone per me e per la pellice Megara, madre di lui. La nave di Arco, ne la quale sono inchiodate quaranta cinque risplendenti stelle, ne l’ampio spazio vicino al circolo antartico, evvi ad altro line, che per eternizzare la memoria del grande errore, che commise la saggia Minerva, che mediante quella instituì i primi pirati, a fine che, non meno che la terra, avesse li suoi solleciti predatori il mare? E per tornar là, dove s’intende la cintura del cielo, perchè quel bove, verso il principio del zodiaco, ottiene trenta e due chiare stelle, senza quella, ch’è ne la punta del corno settentrionale, e undici altre, che son chiamate informi? Per ciò ch’è quel Giove, oimè! che rubò la figlia ad Agenore, la sorella a Cadmo. Che aquila è quella, che nel firmamento s’usurpa l’atrio di quindici stelle, oltre Sagittario verso il polo? Lasso! è quel Giove, che ivi celebra il trionfo del rapito Ganimede, e di quelle vittoriose fiamme ed amori. Quella Orsa, quella orsa, o dei! perchè ne la più bella ed eminente parte del mondo, come in una alta specola, come in una più aprica piazza, e più celebre spettacolo, che ne l’universo presentar si possa a gli occhi nostri, è stata messa? Forse a fine che non sia occhio, che non veda l’incendio, ch’assalse il padre de li dei a presso l’incendio de la terra per il carro di Fetonte, quando in quel mentre, ch’andavo guardando le ruine di quel foco, e riparando a quelle con richiamar i fiumi, che timidi e fugaci erano ristretti a le caverne, e ciò effettuando nel mio diletto arcadio paese, ecco, altro foco, m’accese il petto, che, dal splendor del volto della vergine nonacrina procedendo, passommi per gli occhi, scorsemi nel core, scaldommi l'ossa, e penetrommi dentro le midolla; di sorte, che non fu acqua nè rimedio, che potesse dar soccorso o refrigerio a l’incendio. In questo foco fu il strale, che mi trafisse il core, il laccio, che mi legò l’alma, e l’artiglio, che mi tolse a me, e diemmi in preda a la beltà di lei. Commisi il sacrilego stupro, violai la compagna di Diana, e fui a la mia fidelissima consorte ingiurioso, per la quale, in forma e specie d’un’Orsa, presentandomisi la bruttura del fedo eccesso mio, tanto si manca, che da quella abominevol vista io concepissi orrore, che sì bello mi parve quel medesimo mostro, e si mi soprapiacque, che volsi ch’il suo vivo ritratto fusse esaltato nel più alto e magnifico sito de l’architetto del cielo: quell’errore, quella bruttezza, quell'orribil macchia, che sdegna ed abbomina lavar l'acqua de l’Oceano, che Teti, per tema di contaminar l’onde sue, non vuol, che punto s’avvicine verso la sua stanza: Dictinna l’ha vietato l’ingresso di suoi diserti per tema di profanar il sacro suo collegio, e per la medesima cagione le niegano i fiumi le Nereidi e Ninfe.
Io misero peccatore dico la mia colpa, dico la mia gravissima colpa in cospetto de l’intemerata assoluta giustizia, e mostro, che sin al presente ho molto gravemente peccato, e per il malo esempio ho porgiuta ancor a voi permissione e facilità di far il simile; e con questo confesso, che degnamente io insieme con voi siamo, incorsi il sdegno del fato, che non ne fa più essere riconosciuti per dei, e mentre abbiamo a le sporcarie de la terra conceduto il cielo, ha dispensato, ch’a noi fussero cassi li tempj, imagini e statue, ch’avevamo in terra; a fine che degnamente vegnano depressi quelli, quali indegnamente han messe in alto le cose vili o basse.
Oimè! dei, che facciamo? Che pensiamo? Che indugiamo? Abbiamo prevaricato, siamo stati perseveranti ne gli errori, e veggiamo la pena giunta e continuala con l'errore. Provedemo dunque, provedemo a’ casi nostri! perchè, come il fato ne ha negato il non posser cadere, così ne ha conceduto il posser risorgere; però, come siamo stati pronti al cascare, cosi anco siamo apparecchiati a rimetterci sui piedi! Da quella pena, ne la quale mediante l'errore siamo incorsi, e peggior de la quale ne potrebbe sopravvenir, mediante la riparazione, che sia ne le nostre mani, potremo senza difficultade uscire. Per la catena de gli errori siamo avvinti; per la mano de la giustizia ne disciogliamo! Dove la nostra levità ne ha deprimuti, indi bisogna, che la gravità ne inalze. Convertiamoci a la giustizia, da la quale essendo poi allontanati, siamo allontanati da noi stessi; di sorte, che non siamo più dei, non siamo più noi. Ritorniamo dunque a quella, se vogliamo ritornare a noi! L’ordine e maniera di far questo riparamento è, che prima togliamo da le nostre spalle la grieve soma d’errori, che ne trattiene; rimoviamo davanti li nostri occhi il velo de la poca considerazione, che ne impaccia; ingombriamo dal core la propria affezione, che ne ritarda; gittiamo da noi tutti que’ vani pensieri, che ne aggravano; adattiamoci a demolire le macchine di errori ed edificj di perversitade, che impediscono la strada ed occupano il cammino; cassiamo e annulliamo, quanto possibil fia i trionfi e trofei di nostri facinorosi gesti, a fine che appaia nel tribunal de la giustizia verace pentimento di commessi errori! Su, su, o dei, tolgansi dal cielo queste larve, statue, figure, imagini, ritratti, processi ed istorie di nostre avarizie, libidini, furti, sdegni, dispetti ed onte! che passe questa notte atra e fosca di nostri errori, perchè la vaga aurora del nuovo giorno de la giustizia ne invita; e disponiamoci di maniera tale al sole, ch’è per uscire, che non ne discopra così, come siamo immondi! Bisogna mondare e renderci belli; non solamente noi, ma anco le nostre stanze e i nostri tetti fia mestieri che sieno puliti e netti; doviamo interiormente ed esteriormente ripurgarci. Disponiamoci, dico, prima nel cielo, che intellettualmente è dentro di noi, e poi in questo sensibile, che corporalmente si presenta a gli occhi! Togliamo via dal cielo de l’animo nostro l’Orsa de la difformità, la Saetta de la detrazione, l'Equicolo de la leggerezza, il Cane de la murmurazione, la Canicola de l’adulazione! Bandiscasi da noi l’Ercole de la violenza, la Lira de la congiurazione, il Triangolo de l’empietà, il Boote de l’incostanza, il Cefeo de la durezza! Lungi da noi il Drago de l’invidia, il Cigno de l’imprudenza, la Cassiopea de la vanità, l’Andromeda de la desidia, il Perseo de la vana sollecitudine! Scacciamo l’Ofiuco de la maldizione, l’Aquila de l’arroganza, il Delfino de la libidine, il Cavallo de l’impazienza, l’Idra de la concupiscenza! Togliamo da noi il Ceto de l’ingordigia, l’Orione de la fierezza, il Fiume de le superfluitadi, la Gorgone de l’ignoranza, la Lepre del vano timore! Non ne sia oltre dentro il petto l’Argo nave de la vanità, la Tazza de l’insobrietà, la Libra de l’iniquità, il Cancro del mal regresso, il Capricorno de la decezione! Non fia, che ne s’avvicine il Scorpio de la frode, il Centauro della animale affezione, l’Altare de la superstizione, la Corona de la superbia, il Pesce de l’indegno silenzio! Con questi caggiano i Gemini de la mala familiaritade, il Toro de la cura di cose basse, l’Ariete de l’inconsiderazione, il Leone de la tirannia, l’Acquario de la dissoluzione, la Vergine de l’infruttuosa conversazione, il Sagittario de la detrazione! Se così è, o dei, purgaremo la nostra abitazione, se così renderemo nuovo il nostro cielo, nuove saranno le costellazioni ed influssi, nuove le impressioni, nuove fortune; perchè da questo mondo superiore pende il tutto, e contrari effetti sono dependenti da cause contrarie. Oh felici, oh veramente fortunati noi, se faremo buona colonia del nostro animo e pensiero! A chi di voi non piace il presente stato, piaccia il presente consiglio! Se vogliamo mutar stato, cangiamo, cangiamo costumi! Se vogliamo, che quello sia buono e migliore, questi non sieno simili o peggiori. Purghiamo l’interiore affetto, atteso che da l’informazione di questo mondo interno non sarà difficile di far progresso a la riformazione di questo sensibile ed esterno. La prima purgazione, o dei, veggio che la fate, veggio che l’avete fatta; la vostra determinazione io la veggio, ho vista la vostra determinazione, la è fatta, ed è subito fatta, perchè la non è soggetta a’ contrappesi del tempo. Or su, procediamo a la seconda purgazione! Questa è circa l’esterno, corporeo, sensibile e locato. Però bisogna, che vada con certo discorso, successione ed ordine; però bisogna aspettare, conferir una cosa con l’altra, comparar questa ragione con quella, prima che determinare; atteso che circa le cose corporali, come in tempo è la disposizione, così non può essere, come in uno instante, l’esecuzione. Eccovi dunque il termine di tre giorni, dove non avete da decidere e determinare infra di voi, se questa riforma si debba fare o no; perchè, per ordinanza del fato, subito che ve l’ho proposta, insieme l’avete giudicata convenientissima, necessaria ed ottima; e non in sogno esteriore, figura e ombra, ma realmente e in verità veggio il vostro affetto, come voi reciprocamente vedete il mio, e non men subito, ch’io v’ho tocco l’orecchio col mio proponimento, voi col splendor del consentimento vostro m’avete tocchi gli occhi. Resta dunque, che pensiate e conferiate infra di voi circa la maniera, con cui s’ha da provedere a queste cose, che si toglieno dal cielo, per le quali fia mestiero procacciare e ordinar altri paesi e stanze; ed oltre, come s’hanno da empire queste sedie, a fin che il cielo non rimanga deserto, ma migliormente colto ed abitato che prima. Passati che saranno i tre giorni, verrete premeditati in mia presenza circa loco per loco e cosa per cosa, a ciò che, non senza ogni possibile discussione, conveniamo il quarto giorno a determinare e pronunziar la forma di questa colonia. Ho detto.»
Così, o Saulino, il padre Giove toccò l’orecchio, accese il spirto, e commosse il core del senato e popolo celeste; chè lui medesimo apertamente nei volti e gesti s’accorse, mentre orava, che ne la mente era conchiuso e determinato quel tanto, che da lui loro venia proposto. Avendo dunque fatta l’ultima clausula ed imposto silenzio al suo dire il gran Patriarca de li dei, tutti con una voce e con un tuono dissero: «Molto volontieri, o Giove, consentemo d’effettuar quel tanto, che tu hai proposto e veramente ha predestinato il fatto.» Qua successe il fremilo de la moltitudine, qua apparendo segno d’una lieta risoluzione, là d’un volonteroso ossequio, qua d’un dubbio, là d’un pensiero, qua un applauso, là uno scrollar di testa di qualche interessato, ivi una specie di vista, e quivi un’altra, sin tanto che, giunta l’ora di cena, chi da questo lato si retirò, e chi da quell’altro.
saul. Cose di non poco momento, o Sofia!
Note
- ↑ Lezione incerta.