Spaccio de la bestia trionfante/Dialogo primo/Parte prima
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INTERLOCUTORI:
sofia, saulino, mercurio.
I.
sof. Tal che, se ne li corpi, materia ed ente non fusse la mutazione, varietade e vicissitudine, nulla sarebbe conveniente, nulla di buono, niente dilettevole.
saul. Molto bene l’hai dimostrato, Sofia.
sof. Ogni delettazione non veggiamo consistere in altro, che in certo transito, cammino e moto. Atteso che fastidioso e triste è lo stato de la fame; dispiacevol e grave è lo stato della sazietà: ma quello che ne deletta, è il moto da l’uno a l’altro. Lo stato del venereo ardore ne tormenta, il stato de l’isfogata libidine ne contrista; ma quel che ne appaga, è il transito da l’uno stato a l’altro. In nullo esser presente si trova piacere, se il passato non n’è venuto in fastidio. La fatica non piace, se non in principio, dopo il riposo, e, se non in principio dopo la fatica, nel riposo non è delettazione.
saul. Se così è, non è delettazione senza mistura di tristezza; se nel moto è la partecipazione di quel che contenta, e di quel che fastidisce.
sof. Dici bene. A quel che è detto, aggiungo, che Giove qualche volta, come gli venesse tedio di esser Giove, prende certe vacanze ora di agricoltore, ora di cacciatore, ora di soldato; adesso è con li dei, adesso con gli uomini, adesso con le bestie. Coloro che sono ne le ville, prendono la lor festa e spasso ne le cittadi; quei che sono ne le cittadi, fanno le loro relassazioni, ferie e vacanze ne le ville. A chi è stato assiso o colcato, piace e giova il camminare; e chi ha discorso con li piedi, trova refrigerio nel sedere. Ha piacer ne la campagna chi troppo ha dimorato in tetto; brama la stanza chi è satollo del campo. Il frequentar un cibo, quantunque piacevole, è cagione di nausea al fine: tanto che la mutazione da un estremo a l’altro per li suoi participj, il moto da un contrario a l’altro per li suoi mezzi viene a soddisfare, e in fine veggiamo tanta famigliarità di un contrario con l’altro, che uno più conviene con l’altro, che il simile con il simile.
saul. Così mi par vedere, per che la giustizia non ha l’atto, se non dove è l’errore, la concordia non s’effettua, se non dove è la contrarietade, lo sferico non posa nello sferico, perchè si toccano in punto, ma il concavo si quieta nel convesso; e moralmente il superbo non può convenire col superbo, il povero col povero, l’avaro con l’avaro; ma si compiace l’uno ne l’umile, l’altro nel ricco, questo col splendido. Però, se fisica - matematica - e moralmente si considera, vedesi, che non ha trovato poco quel filosofo, che è dovenuto a la ragione de la coincidenza de' contrarj, e non è imbecille pratico quel mago, che la sa cercare, dove ella consiste. Tutto dunque, che avete profferito, è verissimo. Ma vorrei sapere, o Sofia, a che proposito, a che fine voi lo dite.
sof. Quello che da ciò voglio inferire, è, che il principio, il mezzo ed il fine, il nascimento, l’aumento e la perfezione di quanto veggiamo, è da contrarj, per contrarj, ne’ contrarj, a contrarj: e dove è la contrarietà, è l'azione e reazione, è il moto, è la diversità, è la moltitudine, è l’ordine, son li gradi, è la successione. Per ciò nessuno che ben considera, giammai per l’essere ed aver presente si dismetterà o s’inalzarà d’animo, quantunque in comparazion d’altri abiti e fortune gli paia buono o rio, peggiore o megliore. Tal io con il mio divino oggetto, che è la verità, tanto tempo, come fuggitiva, occulta, depressa e sommersa, ho giudicato quel termine per ordinanza del fato come principio del mio ritorno, apparizione, esaltazione, e magnificenza tanto più grande, quanto maggiori son state le contradizioni.
saul. Così avviene, che, chi vuol più gagliardamente saltando alzarsi da terra, gli fia mestiero, che prima ben si recurve; e chi studia di superar più efficacemente trapassando un fosso, accatta tal volta l’empito, sè ritirando otto o diece passi a dietro.
sof. Tanto più dunque spero nel futuro miglior successo, per grazia del fato, quanto sin al presente mi son trovata al peggio.
saul. . . . . Quanto più depresso,
- quanto è più l’uom di questa ruota al fondo,
- tanto a quel punto più si trova appresso
- che da salir si de’ girar il tondo:
- alcun sul ceppo quasi il capo ha messo,
- che l’altro giorno ha dato legge al mondo.
Ma di grazia séguita, Sofia, a specificar più espressamente il tuo proposito.
sof. Il tonante Giove, dopo che tanti anni ha tenuto del giovane, s’è portato da scapestrato, ed è stato occupato ne l’armi e ne gli amori, ora, come domo dal tempo, comincia a declinare da le lascivie e vizj, e quelle condizioni, che la virilitade e gioventude apportan seco.
saul. Poeti sì, filosofi non mai, hanno sì fattamente descritti li dei. Dunque Giove e gli altri dei invecchiano? Dunque non è impossibile, ch’ancor essi abbiano ad oltrepassar le rive di Acheronte?
sof. Taci, non mi levar di proposito, Saulino! Ascoltami sin al fine!
saul. Dite pure, ch’io attentissimamente vi ascolto, perchè son certo, che da la tua bocca non escono se non grandi e gravi propositi: ma dubito, che la mia testa non li possa capire e sostenere.
sof. Non dubitate! Giove, dico, comincia ad esser maturo, e non admette oltre nel consiglio, eccetto che persone, ch’hanno in capo la neve, a la fronte li solchi, al naso gli occhiali, al mento la farina, a le mani il bastone, a' piedi il piombo; in testa, dico, la fantasia retta, la cogitazion sollecita, la memoria retentiva, ne la fronte la sensata apprensione, ne gli occhi la prudenza, nel naso la sagacità, ne l’orecchio l’attenzione, ne la lingua la veritade, nel petto la sinceritade, nel core gli ordinati affetti, ne le spalle la pazienza, nel tergo l’obblio de le offese, nello stomaco la discrezione, nel ventre la sobrietade, nel seno la continenza, ne le gambe la costanza, ne le piante la rettitudine, ne la sinistra il pentateuco di decreti, ne la destra la ragione discussiva, la scienza indicativa, la regolativa giustizia, l’imperativa autoritade e la podestà esecutiva. saul. Bene abituato! ma bisogna, che prima sia ben lavato, ben ripurgato.
sof. Ora non son bestie, ne le quali si trasmute: non l'Europe, che l’incornino in toro, non Danae, che lo impallidiscano in oro, non Lede, che l’impiumino in cigno, non ninfe Asterie e frigi fanciulli, che lo imbecchino in aquila, non Dolide1, che lo inserpentiscano, non Nemosine, che lo degradino in pastore, non Antiope, che lo semibestialino in Satiro, non Alcmene, che lo trasmutino in Amfitrione; perchè quel temone, che volgeva e dirizzava questa nave de le metamorfosi, è dovenuto sì fiacco, che poco più che nulla può resistere a l’empito de le onde, e forse, che l’acqua ancora gli va mancando a basso. La vela è di maniera tale stracciata e sbusata, che in vano per ingonfiarla il vento soffia. Li remi, ch’al dispetto di contrari venti e turbide tempeste soleano risospingere il vascello avanti, ora, faccia quanto si voglia calma, e sia a sua posta tranquillo il campo di Nettuno, in vano il comite sibilarà a orza, a poggia a la scia, a la voga, perchè li remigatori son dovenuti come paralitici.
saul. Oh gran caso!
sof. Indi non fia chi più dica e favoleggi Giove per carnale e voluttuario; perchè il buon padre s’è adonato allo spirito.
saul. Come colui, che tenea già tante moglie, tante ancelle di moglie, e tante concubine, al fine dovenuto qual ben satollo, stufato e lasso, disse: Vanità, vanità, ogni cosa è vanità?.
sof. Pensa al suo giorno del giudizio, perchè il termine de li o più o meno o a punto trenta sei mila anni, come è pubblicato, è prossimo, dove la revoluzion de l’anno nel mondo minaccia, ch’un altro Celeo vegna a ripigliar il domino, e per la virtù del cangiamento, ch’apporta il moto de la trepidazione, e per la varia, e non più vista, nè udita relazione e abitudine di pianeti, teme, che il fato disponga, che l’ereditaria successione non sia come quella de la precedente grande mondana rivoluzione, ma molto varia e diversa, gracchino quanto si voglia li pronosticanti astrologi ed altri divinatori.
saul. Dunque si teme, che non vegna qualche più cauto Celeo, che, a l’esempio del Prete Gianni, per obviare a li possibili futuri inconvenienti, non bandisca li suoi figli a li serragli del monte Amarat ed oltre, per tema, che qualche Saturno non lo castre, non faccia mai dietto di non allacciarsi le mutande di ferro, e non si riduca a dormire senza braghe di diamante? Laonde non succedendo l’antecedente effetto, verrà chiusa la porta a tutti gli altri conseguenti, e in vano s’aspetterà il giorno natale de la dea di Cipro, la depressione del zoppo Saturno, l’esaltazion di Giove, la moltiplicazion de' figli e figli de' figli, nipoti, e nipoti de' nipoti, sino a la tantesima generazione, quantesima è a' tempi nostri, e può sin al prescritto termine essere ne li futuri.
- Nec iterum ad Trojam magnus mittetur Achilles.
sof. In tal termine dunque essendo la condizion de le cose, e vedendo Giove ne l'importuno memoriale de la fiancuta forza e snervata virtute appressarsi come la sua morte, cotidianamente fa caldi voti, ed effonde ferventi preghiere al fato, a ciò che le cose ne li futuri secoli in suo favore vegnano disposte.
saul. Tu, o Sofia, mi dici de le maraviglie. Volete voi, che non conosca Giove la condizion del fato, che per proprio e pur troppo divulgato epiteto è intitolato inesorabile? È pur verisimile, che nel tempo de le sue vacanze, se pur il fato gli ne concede, talvolta si volga a leggere qualche poeta, e non è difficile, che gli sia pervenuto a le mani il tragico Seneca, che gli done questa lezzione:
Fato ne guida, e noi cedemo al fato;
E i radi stami del contorto fuso
Solleciti pensier mutar non ponno.
Ciò che facciamo e comportiamo, d’alto
E prefisso decreto il tutto pende;
E la dura sorella
Il torto filo non ritorce a dietro.
Discorron con cert’ordine le Parche,
Mentre ciascun di noi
Va incerto ad incontrar li fatti suoi.
sof. Ancora il fato vuol questo, che, ben che sappia il medesimo Giove, che quello è immutabile, e che non possa essere altro, che quel che deve essere e sarà, non manchi d’incorrere per cotai mezzi il suo destino. Il fato ha ordinate le preci, tanto per impetrare, quanto per non impetrare; e per non aggravar troppo gli animi trasmigranti, interpone la bevanda del fiume leteo, per mezzo de le mutazioni, a fine che, mediante l’oblio, ognuno massime vegna affetto e studioso di conservarsi nel stato presente. Però li giovani non richiamano lo stato de la infanzia, gl’infanti non appetono lo stato nel ventre de la madre, e nessuno di questi lo stato suo in quella vita, che vivea, prima che si trovasse in tal naturalitade. Il porco non vuol morire, per non esser porco: il cavallo massime paventa di scavallare. Giove per le instanti necessitadi sommamente teme di non esser Giove. Ma la mercè e grazia del fato, senza averlo imbibito de l’acqua di quel fiume, non cangerà il suo stato.
saul. Tal che, o Sofia — cosa inaudita! — questo nume ancora hav’egli dove effondere orazioni? esso ancora versa nel timore de la giustizia? Mi maravigliavo io, perchè li dei sommamente temevano di spergiurare la stigia palude: ora comprendo, che questo procede dal fio, che denno pagare anch’essi.
sof. Così è. Ha ordinato al suo fabro Vulcano, che non lavore a' giorni di festa; ha comandato a Bacco, che non faccia comparir la sua corte, e non permetta di vagare le sue Evanti, fuor che nel tempo di carnasciale, e ne le feste principali de l’anno, solamente dopo cena, a presso il tramontar del sole, e non senza sua speziale ed espressa licenza. Momo, il quale avea parlato contro li dei, e, come a essi pareva, troppo rigidamente arguiti li loro errori, e però era stato bandito dal concistoro e conversazion di quelli, e relegato a la stella, ch’è ne la punta de la coda di Calisto, senza facultà di passar il termine di quel parallelo, a cui sottogiace il monte Caucaso, dove il povero dio è attenuato dal rigor del freddo e de la fame, ora è richiamato, giustificato, restituito, al suo stato pristino, e posto precone ordinario ed estraordinario, con amplissimo privilegio di posser riprendere li vizj, senza aver punto risguardo a titolo, o dignitade di persona alcuna. Ha vietato a Cupido d’andar più vagando in presenza de gli uomini, eroi e dei, così sbracato, come ha di costume, ed ingiuntegli, che non offenda oltre la vista dei celicoli, mostrando le natiche per la via lattea e olimpico senato: ma che vada per l’avenire vestito al meno da la cintura a basso; e gli ha fatto strettissimo mandato, che non ardisca oltre di trar dardi, se non per il naturale, e l’amor de gli uomini faccia simile a quello de gli altri animali, facendoli a certe e determinate stagioni inamorare, e così, come a li gatti è ordinario il marzo, a gli asini il maggio, a questi sieno accomodati quei giorni, ne’ quali s'inamorò il Petrarca di Laura, e Dante di Beatrice; e questo statuto è in forma d’interim sino al prossimo concilio futuro, entrante il sole al decimo grado di libra, il quale è ordinato nel capo del fiume Eridano, là, dove è la piegatura del ginocchio d’Orione. Ivi si ristorarà quella legge naturale, per la quale è lecito a ciascun maschio di aver tante mogli, quante ne può nutrire ed impregnare; perchè è cosa superflua ed ingiusta, e a fatto contraria a la regola naturale, che in una già impregnata e gravida donna, o in altri soggetti peggiori, come altre illegitime procacciate, che, per tema di vituperio, provocano l’aborto, vegna ad esser sparso quell’omifico seme, che potrebbe suscitar eroi, e colmar le vacue sedie de l’empireo.
saul. Ben provisto, a mio giudizio. Che più?
sof. Quel Ganimede, ch’al marcio dispetto de la gelosa Giunone, gli era tanto in grazia, e a cui solo liceva d’accostarsegli, e porgergli li fulmini triforchi, mentre a lungi passi a dietro riverentemente si tenevano li dei, al presente credo che, se non ha altra virtute, che quella, ch'è quasi persa, è da temere, che da paggio di Giove non debba aver a favore di farsi come scudiero a Marte.
saul. Onde questa mutazione?
sof. E da quel ch'è detto del cangiamento di Giove, e perchè lo invidioso Saturno a' giorni passati, con finta di fargli de' vezzi, gli andò di maniera tale rimenando la ruvida mano per il mento e per le vermiglie gote, che da quel toccamento se gl’impela il volto, di sorte, che pian piano va scemando quella grazia, che fu potente a rapir Giove dal cielo, e farlo essere rapito da Giove in cielo, ed onde il figlio d’un uomo venne deificato, ed uccellato il padre de li dei.
saul. Cose troppo stupende! Passate oltre!
sof. Ha imposto a tutti li dei di non aver paggi o cubicularj di minore etade, che di venticinque anni.
saul. Ah! ah! Or che fa, che dice Apolline del suo caro Giacinto?
sof. Oh se sapessi, quanto è egli mal contento!
saul. Certo credo, che la sua contristazione cagiona questa oscurità del cielo, ch’a perdurato più di sette giorni; il suo alito produce tante nuvole, i suoi suspiri sì tempestosi venti, e le sue lacrime sì copiose piogge.
sof. Hai divinato.
saul. Or, che sarà di quel povero fanciullo?
sof. Ha preso partito di mandarlo a studiar lettere umane in qualche universitade o collegio riformato, e sottoporlo a la verga di qualche pedante.
saul. O fortuna, o sorte traditora! Ti par questo boccone da pedanti? Non era meglio sottoporlo a la cura d’un poeta, farlo a la mano d’un oratore, e avvezzarlo su il baston de la croce? Non era più espediente d’obbligarlo sotto la disciplina di — ?
sof. Non più! Quel che deve essere, sarà; quel che esser dovea, è. Or, per compire l’istoria di Ganimede, l’altieri, sperando le solite accoglienze, con quell’usato ghigno fanciullesco gli porgeva la tazza di nettare; e Giove, avendogli alquanto fissati li turbidi occhi al volto: non ti vergogni, gli disse, o figlio di Troo? pensi ancor essere putto? Forse, che con gli anni ti cresce la discrezione, e ti s’aggiunge di giudizio? Non ti accorgi ch'è passato quel tempo, quando mi venevi ad assordir l’orecchie, che allora uscivamo per l’atrio esteriore, Sileno, Fauno, quel di Lampsaco ed altri si stimavano beati, se posseano aver la commodità di rubarti una pizzicatina, o al meno toccarti la veste, ed in memoria di quel tocco non si lavar le mani, quando andavano a mangiare, e far de le altre cose, che li dettava la fantasia? Ora disponiti, e pensa, che forse ti bisognerà di far altro mestiero. Lascio, che io non voglio più frasche a presso di me. Chi avesse veduto il cangiamento di volto di quel povero garzone o adolescente, non so, se la compassione, o il riso, o la pugna de l’uno e l’altro affetto l’avesse mosso di vantaggio.
saul. Questa volta credo io, che risit Apollo.
sof. Attendi, perchè quel ch’hai finora udito non è altro che fiore.
saul. Dì pure!
sof. Ieri, che fu la festa in commemorazion del giorno de la vittoria de’ dei contra li giganti, immediatamente dopo pranzo quella, che sola governa la natura de le cose, e per la qual gode tutto quel che gode sotto il cielo,
La bella madre del gemino amore,
La diva potestà d’uomini e dèi,
Quella, per cui ogni animante al mondo
Vien conceputo, e nato vede il sole,
Per cui fuggono i venti e le tempeste,
Quando spunta dal lucid’oriente,
Le arride il mar tranquillo, e di bel manto
La terra si rinveste, e le presenta
Per belle man di Naiadi gentili
Di copia di fronde, fiori e frutti
Colmo il smaltato corno d’Acheloo,
avendo ordinato il ballo, se gli fece inante con quella grazia che consolerebbe ed invaghirebbe il torbido Caronte, e, come è il dovere de l’ordine, andò a porgere la prima mano a Giove; il quale in loco di quel ch’era uso di fare, dico, di abbracciarla col sinistro braccio, e stringer petto a petto, e con le due prime dita de la destra premendole il labro inferiore, accostar bocca a bocca, denti a denti, lingua a lingua — carezze più lascive, che possano convenire a un padre inverso de la figlia! — e con questo sorgere al ballo, ieri impuntandole la destra al petto, e ritenendola a dietro, come dicesse: Noli me tangere, con un compassionevole aspetto, ed una faccia piena di devozione: ah Venere, Venere, le disse, è possibile, che pur una volta al fine non consideri lo stato nostro, e specialmente il tuo? Pensi pur, che sia vero quello che gli uomini s’imaginano di noi, che, chi è vecchio, è sempre vecchio, chi è giovane, è sempre giovane, chi è putto, è sempre putto, così perseverando eterno, come quando da la terra siamo stati assunti al cielo; e così, come la pittura e il ritratto nostro si contempla sempre medesimo, talmente qua non si vada cangiando o ricangiando la vital nostra complessione? Oggi per la festa mi si rinova la memoria di quella disposizione, ne la quale io mi ritrovavo, quando fulminai e debellai que’ fieri giganti, che ardiro di ponere sopra Pelia Ossa, e sopra Ossa Olimpo: quando io il feroce Briareo, a cui la madre Terra avea donate cento braccia e cento mani, a ciò potesse con l’empito di cento versati scogli contra li dei debellare il cielo, fui potente di abissare a le nere caverne dell’orco voraginoso. quando relegai il presuntuoso Tifeo là, dove il mar tirreno con l'iono si congiunge; spingendoli sopra l’isola Trinacria, a fin che al vivo ella fusse perpetua sepoltura. Onde dice un poeta:
Ivi a l’ardito ed audace Tifeo,
Che carco giace del trinacrio pondo,
Preme la destra del monte Peloro
La greve salma, e preme la sinistra
Il nomato Pachin, e l’ampie spalle,
Ch’al peso han fatto i calli,
Calca il sassoso e vasto Lilibeo:
E 'l capo orrendo aggrieva Mongibello,
Dove col gran martello
Folgori tempra il scabroso Vulcano.
Io, che sopra quell’altro ho fulminata l’isola di Prochita; io, ch’ho reprimuta l’audacia di Licaone, ed a tempo di Deucalione liquefeci la terra al ciel rubella, e con tanti altri manifesti segnali mi son mostrato degnissimo de la mia autoritade, or non ho polso di contrastar a certi mezzi uomini, e mi bisogna, al grande mio dispetto, a voto di caso e di fortuna lasciar correre il mondo, e, chi meglio la seguita, l’arrive, e, chi la vince, la goda. Or son fatto qual quel vecchio esopico lione, a cui impune l’asino dona di calci, e la scimia fa de le beffe, e quasi come ad un insensibil ceppo il porco vi si va a fricar la pancia polverosa. Là dove io avevo nobilissimi oracoli, fani ed altari, ora essendono quelli gittati per terra, ed indegnissimamente profanati, in loco loro han dirizzate are o statue a certi, ch’io mi vergogno nominare, perchè son peggio che li nostri Satiri e Fauni e altre semibestie, anzi più vili che li crocodilli d’Egitto, perchè quelli, pure magicamente guidati, mostravano qualche segno di divinità; ma costoro sono a fatto letame de la terra: il che tutto è provenuto per la ingiuria de la nostra nemica Fortuna, la quale non li ha eletti e inalzati tanto per onorar quelli, quanto per nostro vilipendio, dispregio e vituperio maggiore. Le leggi, statuti, culti, sacrificj e ceremonie, ch’io già per li miei Mercurj ho donati, ordinati, comandati e instituiti, son cassi e annullati; e in vece loro si trovano le più sporche e indegnissime poltronerie, che possa giammai questa cieca altrimenti fingere, a fine che, come per noi gli uomini diventavano eroi, adesso dovegnano peggio che bestie. Al nostro naso non arriva più fumo di rosto, fatto in nostro servizio da gli altari; ma, se pur tal volta ne viene appetito, ne fia mestiero d’andar a sbramarci per le cocine, come dei patellari. E ben che alcuni altari fumano d’incenso quod dat avara manus, a poco a poco quel fumo dubito che non se ne vada in fumo, a fine che nulla rimagna di vestigio ancora de le nostre sante instituzioni. Ben conoscemo per pratica, che il mondo è a punto, come un gagliardo cavallo, il quale molto ben conosce, quando è montato da uno, che non lo può strenuamente maneggiare, lo spregia, e tenta di toglierselo da la schena, e, gittato che l’ha in terra, lo viene a pagar di calci.
Ecco, a me si dissecca il corpo, e mi s’umetta il cervello; mi nascono i tofi, e mi cascano gli denti; mi s’inora la carne, e mi s’inargenta il crine, mi si distendono le palpebre e mi si contrae la vista, mi s’indebolisce il fiato e mi si rinforza la tosse; mi si fa fermo il sedere e trepido il caminare; mi trema il polso, e mi si saldano le coste; mi s’assottigliano gli articoli e mi s’ingrossano le giunture: ed in conclusione, quel che più mi tormenta, perchè mi s’indurano gli talloni e mi s’amolla il contrappeso, l’otricello de la cornamusa mi s’allunga ed il bordon s’accorta,
La mia Giunon di me non è gelosa,
La mia Giunon di me non ha più cura.
Del tuo Vulcano, lasciando gli altri dei da canto, voglio che consideri tu medesima. Quello, che con tanto vigore suole percuotere la salda incudine, che a li fragorosi schiassi, quali da l’ignivomo Etna uscivano a l’orizonte, Eco da le concavitadi del campano Vesuvio, e del sassoso Taburno, risponde — adesso dov'è la forza del mio fabro e tuo consorte? Non è ella spenta, non è ella spenta? Forse, che ha più nerbo da gonfiar i folli, per accendere il fuoco? Forse, ch’ha più lena d’alzar il gravoso martello, per battere l’infocato metallo? Tu ancora, mia sorella, se non credi ad altri, dimandane al tuo specchio e vedi, come per le rughe, come ti sono aggionte, e per li solchi, che l’aratro del tempo t’imprime ne la faccia, porgi giorno per giorno maggior difficultade al pittore, s’egli non vuol mentire, dovendoti ritrarre per il naturale. Ne le guancie ove ridendo formavi quelle tue fossette tanto gentili, doi centri, doi punti, in mezzo de le tanto vaghe pozzette, facendoti il riso, che imblandiva il mondo tutto giungere sette volte maggior grazia al volto, onde, come da gli occhi ancora, scherzando scoccava i tanto acuti e infocati strali Amore: adesso cominciando da gli angoli de la bocca, sino a la già commemorata parte, da l’uno e altro canto comincia a scoprirsi la forma di quattro parentesi, che ingeminate par che ti vogliano, stringendo la bocca, proibir il riso con quegli archi circonferenziali, ch’appaiono tra li denti ed orecchi, per farti sembrar un crocodillo. Lascio che, o ridi o non ridi, ne la fronte il geometra interno, che ti disecca l’umido vitale, e con far più e più sempre accostar la pelle a l’osso, assottigliando la cute, ti fa profondar la descrizione de le parallele a quattro a quattro, mostrandoti per quelle il diritto cammino, il qual ti mena, come defuntoro. Perchè piangi, Venere? Perchè ridi, Momo? disse, vedendo questo mostrar i denti, e quella versar lacrime. Ancora Momo sa, quando un di questi buffoni, de' quali ciascuno suol porgere più veritadi di fatti suoi a l’orecchi del prencipe, che tutto il resto de la corte insieme, e per quali per il più color, che non ardiscono di parlare, sotto specie di gioco parlano, e fanno muovere e muovono dei propositi, disse ch'Esculapio ti avea fatta provisione di polvere di polpa di cervio e di conserva di coralli, dopo averti cavate due mole guaste tanto secretamente, che ora non è pietruccia in cielo, che nol sappia. Vedi dunque, cara sorella, come ne doma il tempo traditore, come tutti siamo suggetti a la mutazione: e quel che più tra tanto ne affligge, è, che non abbiamo certezza nè speranza alcuna di ripigliar quel medesimo essere a fatto, in cui tal volta fummo. Andiamo, e non torniamo medesimi, e, come non avemo memoria di quel ch'eravamo, prima che fussimo in questo essere, così non possemo aver saggio di quel che saremo da poi. Così il timore, pietà e religione di noi, l’onore, il rispetto e l’amore vanno via, li quali a presso la forza, la providenza, la virtù, dignità, maestà e bellezza, che volano da noi, non altrimente, che l’ombra insieme del corpo, si parteno. La veritade sola, con l’assoluta virtude è immutabile e immortale: e, se tal volta casca e si sommerge, medesima necessariamente al suo tempo risorge, porgendole il braccio la sua ancella Sofia. Guardiamoci dunque di offendere del Fato la divinitade, facendo torto a questo gemino nume, e a lui tanto raccomandato e favorito! Pensiamo al prossimo stato futuro, e non, quasi poco curando il nume universale, manchiamo d’alzare il nostro core ed affetto a quello elargitore d’ogni bene e distributor di tutte l’altre sorti! Supplichiamolo, che ne la nostra trasfusione, o transfissione, o metempsicosi, ne dispense felici genj: atteso che, quantunque egli sia inesorabile, bisogna pure aspettarlo con li voti o di essere conservati nel stato presente, o di subintrar un altro migliore, o simile, o poco peggiore. Lascio, che l’esser bene affetto verso il nume superiore è come un segno di futuri effetti favorevoli da quello; come, chi è prescritto ad esser uomo, è necessario ed ordinario, ch’il destino lo guide, passando per il ventre de la madre; lo spirto predestinato ad incorporarsi in pesce, bisogna, che prima vegna attuffato a l’acque. Talmente a chi è per esser favorito da li numini, conviene, che passe per mezzo di buoni voti ed operazioni.
Note
- ↑ Occorre ancor negli Eroici furori.