Signorine povere/Terza parte/IV
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IV.
Uniti dall’amore, sospinti da un desiderio inesorabile, ma in uno stato d’animo affatto diverso, i due amanti s’ingannavano a vicenda partendo insieme quella mattina da casa Valmeroni. Apparentemente, una semplice scampagnata amorosa; in realtà, un viaggio nell’ignoto. E la carrozzella andava allegramente e il piccolo cavallo, abituato a quelle corse, trottava di buona voglia, aspirando a pieni polmoni l’aria fresca e fragrante dei colli. Costeggiarono il lago, traversarono il ponte, percorsero una parte della città e cominciarono a salire verso i boschi ed i prati deliziosamente verdi della Valsassina.
Erano assolutamente soli, poichè Isidoro guidava da sè; e quella solitudine li inebbriava. Antonietta si stringeva a lui in silenzio; egli la guardava negli occhi, balbettando brevi parole: poscia, prorompendo l’ardente desiderio, la serrava al suo petto, la copriva di baci.
— Finalmente!... finalmente!... Perchè hai tardato tanto a concedermi questa gioia di averti sola con me? Perchè tanto severa, se pure mi amavi? Quante belle passeggiate come questa avremmo potuto fare... quanti bei giorni perduti!... No, no, non accigliarti così. Non ti rimprovero. Ti ringrazio in ginocchio, ti adoro... La tua divina bontà mi lega a te per la vita.
Un pallido sorriso sfiorava le labbra della fanciulla. La vita per lei doveva finire quel giorno: la sua dedizione era una sentenza di morte. Sarebbe ella andata altrimenti a quell’appuntamento? Mai più. Abituata dalle contrarietà a diffidare, a dubitare, educata dall’avvocato Pagliardi a scrutare il fondo delle cose con inesorabile pessimismo, ella non poteva illudersi su quel passo arrischiato, nè accogliere nel suo cuore fantastiche speranze. Una signorina come lei, cresciuta nel più profondo rispetto delle convenienze, andare ad un appuntamento, così, con un uomo del quale pensava che non l’avrebbe sposata mai?... No. Ella non era capace di una ribellione così formidabile: sapeva troppo bene che una signorina povera non può ribellarsi alle convenzionalità che la imprigionano, sotto pena di perdere l’amore dell’uomo stesso al quale si abbandona, e di uscire dal seno della famiglia per cadere nell’obbrobrio. Giunta al punto estremo della sua resistenza, non potendo più sopportare i rimproveri dell’amato, nè respingere le sue preghiere nell’ora fatale in cui egli era chiamato ad affrontar la morte, ella aveva risoluto di cedere, di abbandonarsi a lui e di morire. Chi poteva rimproverarla dacchè pagava il suo fallo con la vita?... Chi aveva bisogno ch’ella vivesse? I suoi, no: era sufficiente il numero dei loro figliuoli anche senza di lei; i Pagliardi neppure; troppo ragionevoli per affliggersi lungamente della scomparsa di una scioccherella. D’altra parte la vita ch’essi le facevano nella loro casa era troppo pesante e fredda. Vivere a quel modo altri dieci anni, forse venti... oh, no! Meglio godere un giorno di felicità, un giorno senza domani! Ma Isidoro non doveva sapere. Fino all’ultimo egli doveva crederla illusa, fidente o rassegnata al destino, fosse pure il più triste, che egli le preparava. Non aveva bisogno di molta astuzia per ingannarlo, no. Era ben lungi il bel capitano dal supporre ch’ella volesse finire quella bella giornata con una tragedia. Ella gli leggeva in cuore la gioia, il tripudio di averla vinta, di farla sua: e nessun pensiero oltre quello della prossima felicità, nessuna preoccupazione dell’avvenire. Eppure a lei sembrava che se fosse stata nel caso di lui avrebbe penetrata la verità. L’amava egli? In quel momento sì, l’adorava: di più non poteva amarla, nè ella poteva essere mai più così intensamente felice. Dunque non perdeva nulla a morire. Nulla. Dopo sarebbero venuti gli imbarazzi, le contrarietà di famiglia, tutti i fastidi di una falsa posizione. Pure amandola, Isidoro non avrebbe potuto a meno di scorgere in lei la causa dei suoi tormenti, e la felicità sarebbe miseramente sfumata. Con questi pensieri ella si confermava nel suo fatale proposito e un’esaltazione intensa e dolcissima acuiva la delicata sensibilità della sua psiche.
A poco a poco, in quella soave ebbrezza ella dimenticò la parte tetra, spaventosa della sua determinazione: la fine della sua giornata di amore le apparve avvolta in una nebbia dorata, voluttuosa, come l’amore: e potè sorridere, scherzare, abbandonarsi completamente alla gioia che traboccava dal cuore del suo amante.
Arrivarono a Pasturo, dove quattro anni addietro, essendo in villeggiatura con sua madre e la famiglia Pagliardi, Isidoro aveva cominciato a desiderare l’amore di Antonietta.
— Fermiamoci qui a colazione. Saremo soli probabilmente, perchè alia fine di settembre i villeggianti partono da queste valli.
Trovarono il piccolo albergo lindo, tranquillo e vuoto. La colazione sulla terrazza, nell’immenso verde, nel silenzio quasi fantastico, in cospetto ai placidi monti, tra i quali si sarebbe detto che il sole non penetrasse più per non turbare le ombre sacre e il mistico raccoglimento, ebbe l’incanto divino di un puro idillio. Discreto, affettuoso, Isidoro aveva premure delicate, tenerezze eteree.
Dopo colazione andarono a passeggiare nei prati, lungo i declivi, su quell’erba così morbida, così soffice, sulla quale è tanto dolce abbandonarsi e scivolare dall’alto di un pendìo, come in un sogno. Quanti fiori tra l’alte erbe, quanti baci d’amore! Trifogli rossi ardenti di passione, bottoni d’oro fulgidi e ridenti, bianche margherite stellanti nel verde: baci teneri, fragranti, lunghi, infiniti, cocenti come lingue di fuoco, lancinanti come lame di acciaio. E le alte piante mormoravano dolcemente, dondolando le tenui vette su i bellissimi corpi degli amanti stretti in un lungo amplesso.
Nel bosco, nel bosco. Là erano più alte e maestose le piante, più folta l’erba, più vividi i fiori, più misteriose le ombre.
Vi entrarono ridendo, scherzando, rincorrendosi, come due creature semplici, primitive, fuori del mondo. Ma il bosco diveniva sempre più fitto e ombroso; poi gli alti fusti si allontanavano improvvisamente formando una magnifica sala contornata da meravigliose arcate. Da una parte le arcate s’inseguivano in una lunga galleria fra due grosse muraglie verdi. Da un altro lato invece, le quercie e i faggi formavano tre navate parallele, maestose, eccelse. Quello doveva essere uno dei grandi templi dell’umanità primitiva, sacrato al vero Iddio.
I due amanti si smarrirono nelle immense navate, nei bizzarri intercolonni. Quanto tempo rimasero nella selva? Un istante e un secolo. Vi entrarono ridendo: ne uscirono inebbriati. Antonietta però aveva pianto, ma nascondendo le sue lagrime. La morte, di cui s’era dimenticata nel gaudio supremo, si ripresentava al suo spirito.
Il sole ch’ella non doveva mai più rivedere nella raggiante aurora, volgeva al tramonto. Sono già brevi i giorni nelle valli quando il settembre muore. Ella camminava guardando dinanzi a sè gli alti steli delle erbe che si curvavano sotto ai suoi passi. Le ombre lunghe degli alberi la facevano trasalire.
— Antonietta, mia adorata, perchè sci tanto mesta? Non piangere, amor mio. L’Africa non mi ucciderà; da qui a pochi mesi mi rivedrai e ti sposerò e saremo uniti per sempre.
Rimontarono in carrozza per ritornare a Lecco. Le ombre della sera invadevano la campagna; l’aria secca e fragrante del mattino si era fatta umida e greve; densi vapori salivano dalle valli. Lungo la strada, sulle alte rupi, sull’orlo dei precipizi sorgevano croci di ferro o di pietra, le cui leggende pietose, rammentavano disgrazie mortali; là il fulmine aveva ucciso un pastore, qua un masso enorme staccatosi dalla costa aveva schiacciato tre vittime; più lontano una bella croce di pietra raccomandava alla pietà dei passanti un uomo assassinato da grassatori, e via e via.
Antonietta non ricordava di aver veduto quelle croci il mattino. Non vi aveva badato nell’emozione ardente dell’anima, od erano fantasmi che sorgevano dalla sua mente allucinata in quell’ora di spasimo?
— Non le hai viste perchè stamane pensavi a me solo. Ora sei distratta e le tristi immagini ti assalgono. Non m’ami più tanto, o Antonietta? Non m’ami più come stamattina?
— O amore, io non posso amarti di più nè di meno perchè l’assoluto non ha termini di confronto.
— Baciami, baciami ancora.,.
E le sussurrò tra le labbra alcune parole che la fecero tremare di voluttà.
Già il cavallo raddoppiava il trotto, sentendo vicina la stalla. In cielo spuntavano le stelle. Antonietta guardava le stelle e sognava ancora; ma di tratto in tratto, quasi a sua insaputa, i suoi occhi si empivano di lagrime, che Isidoro rasciugava con l’ardore dei suoi baci.
Scesero a Lecco all’„Albergo del Lago“. Anche qui c’era una terrazza con molti fiori e grandi piante in larghi vasi. Sul parapetto si stendevano le arrampicanti, le cui lunghe catene scendevano a bagnarsi nell’acqua del lago. Ma non era qui l’ombra mistica di Pasturo, bensì una insolente illuminazione a gas.
Antonietta non mangiò quasi nulla, e le parve un po’ strano che Isidoro mangiasse con tanto gusto; n’ebbe quasi un principio di collera, che subito svanì alle dolci parole di lui.
Dalla terrazza passarono direttamente in una bella camera, e Isidoro disse:
— Restiamo qui a riposarci.
Stanchissima, Antonietta si abbandonò su di un divano e chiuse gli occhi. Nel dormiveglia un suono metallico la fece sussultare; aprì gli occhi e vide che in fondò alla camera era una alcova e che Isidoro aveva posato là, sul marmo di un tavolino, il piccolo revolver dal quale non si separava mai. Conosceva quell’arma elegante e terribile: l’aveva avuta in mano più di una volta; e un giorno, scherzando, l’aveva presa per tirare al bersaglio nell’orto dei suoi zii. Non chiuse più gli occhi; svanì il sonno che le gravava le palpebre e il tenue velo, che avvolgeva il suo pensiero in una vaporosità di sogno, si dileguò. Guardò intorno a sè e tutto le parve diverso, freddo, pauroso.
Il divano sul quale sedeva era addossato alla parete opposta all’alcova; e aveva a destra una scrivania, a sinistra la porta che metteva sulla terrazza. Antonietta sentì sorgere nella sua mente un pensiero che le parve concepito da un altro cervello: „Da quella porta ella poteva uscire e buttarsi nel lago prima che Isidoro giungesse a trattenerla“.
Non si mosse però. Isidoro s’avvicinava a lei, raggiante d’amore. Ella disse allora:
— E’ tardi; accompagnami a casa: mi aspetteranno, saranno inquieti.
Egli la scongiurò di rimanere con lui fino al mattino. Maria sapeva con chi era: essa avrebbe tranquillato gli altri.
— Tutti sapranno dunque!... Tu vuoi che sappiano?
— Sì, poichè ti considero già mia moglie e sono contento che il mio impegno sia formidabile. Non dubitare di me, Antonietta, ti prego, non dubitare. Appena ritornato, le nostre nozze saranno legalizzate.
Ella scrollò il capo con infinita tristezza; ma Isidoro non vide quel gesto doloroso perchè si era chinato a baciarle le mani.
Non poteva credere: il dubbio era più forte di lei. La voce interna, la voce della fredda ragione le sussurrava beffardamente: „Egli non potrà mai risolversi a offendere sua madre che tanto ama: non romperà mai la sua brillante carriera, come dovrebbe per poterti sposare senza la dote, e poi, egli ha un altro impegno anteriore, e quella donna è la nemica che non gli perdonerà il tradimento. Tu devi morire, se non vuoi essere disonorata e derisa“. Così si esprimeva spietatamente quella intima voce che non manca di dirci le più dure verità nei momenti più dolorosi; e le parole amare rimbombavano nell’anima desolata. Antonietta riafferrò allora il suo fatale sito, e disse a sè medesima con ferma risoluzione:
„Non uscirò viva da questa camera“.
Invece di leggere nel pensiero dell’amante, Isidoro si abbandonava all’ineffabile ebbrezza di stringerla, di baciarla, di coprirla di carezze.
Terribile duetto che Puomo e la donna recitano da secoli, dacchè l’amore fu diviso in „colpa“ e „dovere“; e il più puro, il più spontaneo e disinteressato amore fu per la donna causa di lagrime e di vergogna.
Le dolci carezze riaddormentarono finalmente la severa coscienza della fanciulla; ancora una volta ella ritrovò il delizioso oblìo nella divina ebbrezza. E le sue palpebre, fatte pesanti dalla voluttà, si chiusero, suggellate dai baci.
Ella potè dormire ancora in braccio all’amore, sull’orlo della fossa. Non pochi condannati a morte hanno dormito la notte precedente il supplizio.
Sorgeva il sole allorchè Isidoro si svegliò e subito si ricordò che il suo colonnello lo aspettava per le dieci.
Aveva appena il tempo di accompagnare Antonietta a casa e di ritornare a Lecco per saltare in treno. Doveva anche scrivere a Torino al tenente della sua compagnia. Era preoccupato e un po’ nervoso.
Pure essendo occupata a vestirsi, Antonietta non lo perdeva d’occhio, e trovandolo meno premuroso, meno tenero, pensava che il suo amore fosse già esaurito, già vicino a spegnersi. Questo pensiero le strappò le lagrime. Vedendola piangere egli andò presso a lei e la pregò di essere forte anche per lui che aveva bisogno di tutto il suo coraggio. Le rinnovò la promessa solenne. Le parole erano dolci, ma a lei parve che la voce fosse stentata, rigida e non rispondesse al senso delle parole. E il pensiero che soltanto la morte poteva salvarla dalla disperazione e dalla vergogna ingigantiva in quell’ansia angosciosa. Morire: finirla.
Erano pronti per uscire. Il revolver giaceva ancora sul marmo del tavolino.
— Se permetti, scrivo queste due righe a Torino.
Appena lo vide con le spalle voltate, curvo per iscrivere, Antonietta afferrò il revolver, se l’appuntò al cuore e sparò.
Un istante. Isidoro non aveva neppure avuto il tempo di cominciare la lettera. Si voltò spaventato con un grido d’orrore. Vide la fanciulla cadere boccheggiante al suolo nella stretta del letto e non muoversi più.
Anelante, fuori di sè, si chinò su lei, la scosse, la chiamò ripetutamente. Ella non diede alcun segno di vita. Allora egli si sentì perduto: la disperazione gli schiantò il cuore; si oscurò forse la sua intelligenza: forse pensò che potevano accusarlo d’omicidio e vide il processo, il disonore, la prigione, o forse fu il solo dolore di quella morte che lo spinse al passo fatale. Raccolse il revolver che era sfuggito alla mano inerte della suicida e un secondo colpo rimbombò nel remoto albergo.
I camerieri accorsero spaventati. Fu dato l’allarme e in pochi minuti la notizia del tragico avvenimento si sparse in tutta Lecco.
Paolo Venturi, che vi era arrivato da una mezz’ora soltanto, chiamato dal dispaccio di Maria, ma ritardato da alcuni casuali incidenti, vide un uomo che si precipitava anelante in una farmacia gridando:
— Presto, presto, un chirurgo! Oh! che disgrazia!...
Egli riconobbe in quell’uomo un cameriere d’albergo e subito io interrogò. Appena sentito il caso, cominciò a tremare e corse senz’altro all’albergo del Lago. Come mai non ci aveva pensato subito? In quella mezz’ora che girava per Lecco, avendo abilmente interrogato i principali albergatori, come mai non gli era venuto in mente di correre laggiù, dove aveva cenato poche sere prima in compagnia d’Isidoro? Come mai non si era ricordato dell’esclamazione d’Isidoro: „Che bel posto per due amanti in viaggio!...“ esclamazione che avrebbe dovuto guidarlo direttamente?... Mezz’ora perduta! Soltanto mezz’ora, se egli se ne fosse ricordato, se fosse accorso, bastava! Li avrebbe salvati. E così?... Forse già morti... forse non arrivava a vedere che due cadaveri!
Si picchiava la fronte nell’acuta angoscia, e non poteva rattenere i singhiozzi.
Appena lo videro arrivare, le persone dell’albergo gli furono incontro gridando:
— È il chirurgo?
— No. Un parente del capitano. Vivono ancora?
Oh! non sapevano. Speravano. Li avevano sollevati da terra. Uno studente di medicina, che si trovava lì, aveva fatto una fasciatura alla signora; ma pur troppo il signore gli pareva morto.
Paolo fu introdotto nella camera e la sua prima impressione fu così terribile che gli parve d’impazzire. Sul divano, vicino all’entrata, era disteso il capitano nella più assoluta immobilità.
— O Isidoro! Isidoro!
Non potè dire di più, soffocato dai singhiozzi.
Un giovane gli si accostò: era lo studente di cui gli avevano parlato.
— Scusi, non faccia così: la signora non è morta; può rinvenire da un momento all’altro. Sarebbe male che la sua prima impressione fosse di spavento.
Allora Paolo si avvicinò all’alcova e vide Antonietta bianca come i lenzuoli che le circondavano il volto delicato. La contemplò lungamente. I pensieri più disparati si agitavano nel suo cervello.
— Crede di salvarla? — domandò allo studente.
— Salvarla?... Chi può sapere? Certo non è morta e presto ritornerà alla conoscenza. Ma poi? Nessuno può dire cosa avverrà. Aspetto ansiosamente un chirurgo: io non sono che uno studente di medicina.
Antonietta sospirò.
— Si sveglia!
— Sì. Sarebbe bene ch’ella non vedesse così subito il cadavere del suo compagno.
Paolo si rivolse all’albergatore che era rimasto sulla soglia e lo pregò di aiutarlo a trasportare il povero Isidoro in un’altra camera. L’albergatore obbiettò che prima di trasportarlo bisognava attendere la visita della questura. Mentre essi parlavano, Antonietta aprì gli occhi e vide il corpo del suo diletto disteso sul divano, così pallido, così inerte. Un debole grido le uscì dal petto. Fece uno sforzo per alzarsi, ma non potè. Ricadde sui guanciali semisvenuta.
Arrivò finalmente il chirurgo; poi un delegato, un giudice, alcune guardie. Tutti i presenti furono interrogati; fu steso un verbale. Antonietta errava tra la morte e la vita sotto la mano del chirurgo che cercava la palla omicida nelle carni martoriate.
Quando gli uomini della legge se ne andarono, il morto fu trasportato in un’altra camera; e il chirurgo disse a Paolo Venturi che la ferita di Antonietta poteva non essere mortale; aveva trovata la palla e sperava di poterla estrarre senza troppa difficoltà; ma ci sarebbe voluta una donna, una madre, una sorella... almeno un’amica per vegliare al capezzale dell’infelice signora e addolcire con affettuose parole la tremenda tensione del suo animo.
Allora Paolo andò a Malgrate a prendere Maria.
Verso la fine d’ottobre il chirurgo dichiarò l’Antonietta fuori di pericolo dal suo punto di vista di chirurgo: la ferita era chiusa e nelle migliori condizioni; ciò non ostante egli nutriva, d’accordo col dottor Monti, molte e vive inquietudini per l’avvenire della fanciulla. Esteriormente gli organi sembravano guariti, ma nell’intima compagine del suo essere doveva esistere una lesione forse irrimediabile. I nervi, il cervello, la psiche avevano ricevuto una scossa terribile: nessun occhio, per quanto abituato a scrutare i misteri della vita, poteva misurarne la profondità e giudicare delle sue conseguenze. Ciò che li impauriva sopra tutto era il silenzio ostinato e la continua concentrazione della convalescente. Sotto quel silenzio e quella concentrazione si celava l’idea fissa, e l’idea fissa conduce alla monomania.
— Bisogna distrarla — disse il chirurgo nel congedarsi dalla famiglia. — Non contrariarla in nulla; e se è possibile trovare il modo di interessare il suo spirito a qualche cosa che sia capace di far risorgere in lei l’amore della vita.
Tutti sentivano la poca probabilità di riescire in una impresa così difficile; e i meno teneri pensavano che la morte sarebbe stata una liberazione per quell’anima affranta.
Paolo e Maria si guardarono negli occhi e nel loro sguardo lampeggiò l’ardito pensiero: „Noi sfideremo l’impossibile: combatteremo il fato.“
In dicembre la famiglia decise di ritornare a Milano.
Durante il viaggio, il contegno di Antonietta fu sempre il medesimo; non parlò, nè pianse, nè diede alcun cenno di accorgersi che lasciava il paese testimone del suo tragico romanzo e in esso la tomba del suo povero amante. Il suo dolore non aveva scatti, nè espansioni. Assorta, concentrata, ella subiva evidentemente l’ossessione di un pensiero tormentatore.
A Milano, rientrando nella casa che le ricordava giorni meno tristi, ella sembrò riscuotersi e i suoi occhi versarono alcune lagrime. Ma era tanto stanca che bisognò coricarla subito; e il dì appresso ella riapparve ancora cupa, muta, quasi impassibile.
Passarono così molti giorni di una tristezza opprimente.
Antonietta pareva un’ombra, un fantasma. La mattina si alzava, si vestiva, sedeva vicino al caminetto nella sala da pranzo, o presso alla stufa nella camera di Maria; e stava così ore ed ore, immobile, muta, indifferente a tutto ciò che accadeva intorno a lei. Aveva sempre freddo; e se il fuoco si spegneva veniva assalita da un convulso che la faceva tremare e battere i denti. Maria peraltro non trascurava nulla per cercare di distrarla, o almeno per occuparla.
Una domenica, in gennaio, poichè il tempo era bello e l’inverno mite, la invitò a fare una passeggiata ai giardini pubblici. Con la solita apatia Antonietta entrò nel brougham che aspettava alla porta e si lasciò condurre.
Il cielo era sereno, limpido come in primavera e il bel sole invernale spandeva con sovrana larghezza i suoi raggi dorati.
Le due fanciulle lasciarono la vettura ai cancelli e entrarono nel giardino sotto le alte piante non ancora interamente spoglie dei loro magnifici manti screziati di porpora e d’oro, o eternamente verdi. La gente arrivava da tutte le parti e c’era folla nei viali; pareva che tutti volessero godere quel sole, quel tepore, quella bella giornata, forse l’ultima di quella stagione eccezionale.
Antonietta aspirava la buon’aria fresca, vivificante, con un senso inavvertito di piacere.
Camminarono un poco, cercando i viali meno battuti, scambiando brevi, rare parole.
Sedettero poi, quando Antonietta si dichiarò stanca, su una panchetta poco lontana dal grande viale che i frequentatori dei concerti chiamano il „viale delle signorine.“
— Tu taci sempre, Antonietta!... Perchè? Perchè non mi comunichi i tuoi pensieri e non sfoghi con me il tuo dolore?
La infelice fanciulla fece un leggero movimento del capo, poi mormorò:
— È inutile.
— No, non sarebbe inutile, credi. Ti solleveresti parlando di ciò che pensi continuamente.
— Sollevarmi? Vale a dire soffrire meno, e a poco a poco... forse, dimenticare?... Ricominciare la vita, e amarla... mentre egli è sottoterra... morto per me... per mia colpa? Oh!... Dovrei essere senza cuore!... Io — lo dico a te solamente — io devo seguirlo... e presto.
Maria rabbrividì. Era quella l’idea fissa: seguirlo, morire. Intuendo l’impressione penosa prodotta dalle sue parole, Antonietta si affrettò a soggiungere:
— Non accusarmi, Maria; non credere neppure che abbia smarrita la ragione. Tu penseresti come me, se tu fossi nel mio caso.
— Non so. Dimmi come stanno le cose, poi giudicherò.
Antonietta chinò la fronte e tacque.
Si avvicinava l’ora della banda. Il grande viale si affollava; ecco, arrivavano a frotte le signorine, accompagnate dalle madri, da qualche sorella maritata, raramente dai padri: arrivavano gaie, chiacchierine: altre, serie, maestose: altre ancora, con le labbra atteggiate a un risolino sprezzante, e qualcuna visibilmente triste, annoiata, compresa forse dell’inutilità e della malinconia di quella periodica esposizione.
Maria Clementi e Antonietta Valmeroni videro in quei gruppi non poche conoscenti e scambiarono saluti. Molti sguardi curiosi si fermarono sull’Antonietta.
Ella n’ebbe disgusto e s’alzò per andarsene.
— Sono stanca, andiamo a casa.
— Non vuoi ascoltare la musica?
Oh! no!... C’è troppa gente. E poi la musica mi fa male.
Uscirono dal giardino e Antonietta andò verso il tram.
— No, no — disse Maria, che aveva già fatto cenno ad un brougham. — Vieni qui.
— Io non ho denari... da prendere sempre la carrozza.
— Non fa niente, cara. Pago io. Non aspetto forse le cinquantamila lire dei miei fratelli?
Ella rideva, così dicendo, e l’ironia trapelava dal suo accento.
— Tutto è possibile.
— Già. E se non sarà, ho sempre il mio stipendio; e fin che lavoro qualche piccolo lusso me lo posso concedere. Anche tu potresti avere uno stipendio.
— Alludi forse alla Rivista che voleva fondare Venturi?
— No. Non ci pensa più. Sa che non vuoi... Ci sarebbe un buon posto presso una assicurazione... centoventi lire il mese... Ti servirebbe di distrazione e avresti quella indipendenza che hai sempre desiderata.
— Troppo tardi... Non so che farmene dell’indipendenza.
Due lagrime spuntarono tra i lunghi cigli scuri di Maria. Tutti inutili i suoi tentativi, tutti senza risultato!
Un altro giorno, dopo scuola, ella invitava l’amica a prendere il thè con lei nella sua camera. Sedute presso alla tavola di lavoro, coperta di un bel tappeto, davanti al thè fumante che Maria preparava con le sue mani, le due fanciulle scambiavano appena qualche frase. Maria narrava della scuola, di certe sue allieve tanto povere eppure tanto carine, che ella si struggeva di non poter soccorrere come avrebbe voluto.
Il sole entrava dalla finestra, la stanza prendeva un aspetto più gaio: le cose sorridevano, il fuoco crepitava nella bella stufa di maiolica; e le eleganti figure delle due fanciulle e la giovinezza che illuminava i loro volti, tutto invitava alla gioia; ma i loro cuori addolorati non rispondevano a quell’appello.
Un punto, intorno al quale Antonietta non si era mai spiegata chiaramente, preoccupava il pensiero di Maria. Com’era avvenuto il doppio ferimento? Ov’era l’arma? Chi era stato il primo a impugnarla? Era vero ciò che pensava Venturi, che Isidoro non volesse morire? O non avevano piuttosto fissato tra loro di morire insieme?
Ella non osava interrogare Antonietta direttamente, ma non poteva nascondere il suo desiderio di conoscere la verità.
Quel giorno Antonietta le lesse in cuore più chiaramente del solito e dopo alcune divagazioni le disse:
— Tu vuoi sapere, sapere com’è stato. Speri ancora che una confessione completa sollevi il mio cuore o la mia coscienza: o che la verità ti aiuti a combattere il mio desiderio di sparire dal mondo. Ebbene, t’inganni: la verità sta con me, perchè dalla verità scaturisce il mio rimorso ed è il rimorso che mi condanna.
— Il rimorso?
— Sì. Isidoro non voleva morire. La sua morte fu opera mia.
— No! Tu non puoi... Ciò non è possibile!
Un sorriso amaro sfiorò le labbra di Antonietta.
No, difatti ella non l’aveva ucciso: l’aveva bensì spinto ad uccidersi. Non era la stessa cosa? Sofismi! La coscienza non si lascia ingannare da sofismi. Isidoro voleva vivere; pieno di speranza e di gioia era il suo cuore; lei disperata, lo aveva trascinato alla disperazione.
In brevi parole ella fece all’amica il racconto doloroso.
E poscia soggiunse:
— Ecco perchè ti ripeto che la morte di Isidoro è opera mia, e il rimorso mi rode il cuore. Tu dirai che io non ho tentato il suicidio perchè egli pure si uccidesse: dirai che non potevo in nessun modo prevedere la sua improvvisa, disperata risoluzione. Ma io non ne sono sicura. Chi può rintracciare il movimento oscuro dell’animo? Chi scende nelle tenebre di una coscienza offuscata dalla passione? Io non riesco a giustificarmi completamente. Lo amavo tanto, soffrivo tanto di perderlo, e nel mio spirito era entrata la convinzione che soltanto la morte potesse salvarmi dall’abbandono: non è verosimile che nel parossismo della mia angoscia io volessi trascinarlo nella morte con me?
Sopraffatta da tanto dolore, ella si concentrò e non parlò più.
Maria piangeva in silenzio.