Signorine povere/Terza parte/III
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III.
La mattina del giorno fissato, Antonietta si alzò presto e si vestì per uscire, senza aprire le finestre per non risvegliare Maria che dormiva ancora. Ma non le resse il cuore di allontanarsi senza darle un bacio. Si accostò al lettino e posò le labbra sulla fronte bianca della sua amica.
— Chissà se ti rivedrò! — mormorò quasi inconsciamente.
Maria si risvegliò di soprassalto.
— Cos’è?... Dove vai?...
— Taci. Ho promesso a Isidoro di trovarmi sullo stradone per dirgli addio. Mi ha tanto pregata!
— O Antonietta!... Antonietta!... Come ti sei cambiata!... Non ti riconosco più.
— Neppure io mi riconosco. Cosa ci vuoi fare? Addio, Maria.
— Aspetta che mi vesto, ti accompagno.
— No, no. Gli ho promesso di esser sola. Non accorarti. Pensa: se morisse, laggiù, e che io non gli avessi concesso questa consolazione?... Sarebbe orribile...
— Capisco. Tu Pami come non credevi d’amarlo.
— Quando parla l’orgoglio, il cuore avvilito si rinserra; ma la disperazione soffoca l’orgoglio. Addio, Maria; dirai alla mamma che sono andata a Lecco per cercare di quella seta del mio corpetto. Se non venissi a colazione, non t’inquietare: verrò prima di sera...
— Giurami che prima di sera verrai.,
— Dove vuoi che vada?
— Non so. Giura.
— E inutile Lasciami cara.
La baciò ancora una volta e sparì.
Maria non osò richiamarla; rimase alcuni istanti immobile, soggiogata da una opprimente stupefazione, ascoltando il lieve rumore dei passi che si allontanavano. Sentì stridere la sabbia nel viale; sentì il cancello aprirsi e richiudersi.
Balzò dal letto c corse alla finestra. Vide Antonietta correre per la viottola che conduceva allo stradone; e giù, in fondo allo sdrucciolo, vide un uomo, un signore, fermo presso alla cappelletta. Era Isidoro Arquati in abito borghese. Egli mosse subito incontro ad Antonietta: si salutarono come due conoscenti che s’incontrano per caso e si strinsero la mano. Dopo un momento sparirono dietro il muro, e Maria sentì il rumore di un legno che si allontanava.
„Aveva la carrozza!“ pensò stupita, con un senso quasi di paura. Dove andavano?... Se quella passeggiata fosse invece una fuga?... Restò un istante come impietrita; poi si riscosse. Ma che!... Era ridicola la sua paura!... Fuggire, nelle condizioni del capitano, voleva dire disertare... disertare mentre lo mandavano incontro al nemico, incontro al pericolo? Mai più. Ella aveva torto di inquietarsi. Antonietta era forte e ragionevole anche nel dolore, e Isidoro Arquati era sempre un gentiluomo.
Questa riflessione la calmò.
Si vestì lentamente, passando da un pensiero all’altro. Nell’ultima visita alla famiglia, Leonardo aveva annunziato il prossimo arrivo di Faustino Belli, e a Maria aveva detto:
— Egli non si rassegna al tuo rifiuto; vuol vederti e spera di commoverti.
Le sarebbe dispiaciuto se fosse arrivato quella mattina, mentre Antonietta era lontana. Si sentiva forte, sicura, specialmente dopo la promessa che la impegnava verso i suoi fratelli; tuttavia le dispiaceva di trovarsi alle prese con quell’uomo tanto insistente e abile parlatore.
Quando fu vestita andò in cerca della signora Elisa e le disse che Antonietta era andata a Lecco a cercare quella tal seta che le occorreva per aggiustarsi il corpetto chiaro.
— Che bisogno aveva di cercare quella seta a Lecco se andremo presto a Milano? Avrà avuto appuntamento con Teresina Gardelli.
— O col capitano — bisbigliò Angelica malignamente.
— Questo poi non lo devi dire di tua sorella.
— Perchè? Se io avessi un amante che dovesse andare in Africa, nessuno mi terrebbe, lo seguirei fin laggiù.
— Sei sempre la stessa monella...
— Monella?... Sì eh! voglio essere sposa nell’annata.
— Speri che Mainetti ti sposi?
— O lui o un altro, basta che sia bello, giovane e ricco. L’ho sempre detto e sarà.
La signora Elisa e Maria risero.
La birichina fece una giravolta e si allontanò.
La sua figura sottile e svelta, non più ossuta come nell’adolescenza, era graziosissima in quelle mosse.
Verso le undici una carrozza si fermò al cancello. Ne discese un signore alto, elegante, dai capelli neri, dalla fisonomia dolce, dagli occhi luminosi e penetranti.
— Il cavalier Belli!... il cavalier Belli!...
A quest’annuncio di Giorgetto che aveva visto per il primo il visitatore, la signora Elisa accorse dal fondo dell’orto dove stava cogliendo un cestello d’uva.
Angelica occupata in casa nelle faccende domestiche e Maria che insegnava a leggere alla piccola Erminia, intesero l’annunzio del ragazzo, ma non si mossero.
— Proprio oggi? — pensò Maria aggrottando le ciglia.
Iva bambina alzò la testa dall’abbecedario.
— Ebbene? Continua.
— Non andiamo giù a vedere quel signore?
— Andremo. Ora leggi.
La piccina di malumore si rimise a guardare le lettere.
— Sono stanca. Quel signore mi avrà portato dei dolci?
— Oh, giusto! Sta attenta. Leggi qui.
Ma non ci fu verso di farla leggere. Giorgetto intanto arrivò di corsa a chiamare Maria.
— La mamma ti prega di scendere; vieni, c’è il cavalier Belli.
— Va bene; va a dire che scendiamo.
— Vado io! — gridò la bimba correndo dietro al fratellino.
Maria restò qualche tempo immobile, pensosa. Quell’ostinazione, quella sfacciataggine che ella attribuiva unicamente all’interesse materiale, la irritavano. Decise di non muoversi: era nel suo diritto.
„La zia mi chiama perchè non sa nulla; ma egli non deve stupirsi di non vedermi.“ Prese un libro e si mise a leggere. Aveva letto poche pagine che già un’altra persona veniva a cercarla. Era Angelica.
— Il cavaliere resta a colazione. Puoi venire ad aiutarmi un poco?
— Volentieri.
E subito si mosse.
— La mamma voleva che tu andassi a complimentare Faustino Belli; io le ho detto che eri occupata. Ho fatto bene?
— Benissimo.
Scesero in cucina e con l’aiuto della vecchia serva prepararono la colazione.
Giorgetto e Erminia andavano innanzi e indietro, felici, con un cartoccio di dolci.
— E Antonietta non sarà qui per mezzogiorno?
— Crederei... Me l’ha promesso.
— Andiamo sullo stradone a vedere se arriva.
Uscirono dal cancello e non vedendo nessuno, discesero lo sdrucciolo fino alla cappelletta. Da quel punto vedevano una parte dello stradone che va a Valmadrera e il principio della via Lacuale.
— Da dove deve venire?
— Ma... da Lecco naturalmente.
Allora Angelica si spinse innanzi circa una ventina di passi. Ella aveva una vista eccellente.
— Non c’ è nessuno, ti assicuro. Per colazione non viene più. Sei inquieta?
Maria cercò di dominarsi.
— No. Perchè dovrei essere inquieta? Mi dispiace che non sia qui.
Tornarono indietro. Nel viale trovarono Faustino Belli che faceva il chiasso con Giorgetto.
— Oh, signorine, finalmente ho il piacere di vederle! Come stanno? Sempre benissimo: i loro volti lo dicono.
Su questo tono le ragazze risposero. Angelica con la solita gaiezza: Maria, un po’ sostenuta. Entrarono in sala. La tavola era apparecchiata, la Caterina portava un piatto di salumi.
— Si accomodi, cavaliere.
Egli prese posto fra la padrona di casa e Maria, alla quale volgeva lente occhiate piene di dolcezza e di rimpianto. Ella però faceva in modo che i loro sguardi non s’incontrassero mai.
Il discorso cadde su Antonietta e la signora Elisa si lamentò ancora che fosse uscita senza avvertirla. Maria difese l’amica, e subito Faustino si unì a lei nella difesa dell’assente.
Dopo colazione andarono a prendere il caffè nell’orto. Cammin facendo, Faustino potè trovarsi un momento vicino a Maria.
-— Siete stata troppo crudele con me, cara... Io non posso rassegnarmi al vostro rifiuto... non posso...
Maria lo guardò accigliata con un brusco movimento.
— Non capisco per quale motivo ella non voglia rispettare la mia determinazione.
Faustino impallidì e un lampo di dispetto balenò nei suoi occhi.
— Perchè prima della mia partenza, saranno ora poco più di tre mesi, mi avete fatto sperare tutt’altro.
— Non saprei davvero. Io ricordo soltanto di avere risposto con scherzosa ironia ai suoi più o meno ironici e scherzosi complimenti.
— Avete perduta la memoria, a quanto pare.
— Niente affatto. Sono sicura di non averle fatto la più piccola promessa.
— Formale no, naturalmente. Ma gli occhi, la voce tremula, i dolci sorrisi, mi davano speranza e coraggio.
— Interpretazioni di lor signori. Del resto, se le ragazze dovessero tener conto delle promesse di tal fatta, prodigate così largamente dagli uomini, starebbero fresche!
— Io ho mantenuto tutto quello che le ho promesso.
— Non dico di no. Ma io sono sempre padrona di non accettare.
— Purtroppo! Suo zio però mi autorizza a farle la corte. Io ne approfitto. Avrò pazienza, sopporterò tutto, con la speranza che la mia fermezza, la mia tenerezza, il mio amore vinceranno la sua ostinazione.
Maria scrollò il capo. Non erano più soli.
— Il caffè è servito.
Entrarono sotto la cupoletta verde; sedettero intorno alla tavola di pietra.
Parlarono, risero, giuocarono. Arrivarono le solite visite.
Per fortuna Faustino Belli doveva recarsi a Valmadrera per prendere il treno di Como, dove un amico l’attendeva a desinare. Prima delle quattro egli si accomiatò. Fino con l’ultima stretta di mano fece sentire a Maria che sarebbe ritornato, che non pensasse di essersene liberata, che egli non era uomo da lasciarsi mettere alla porta come un imbecille qualunque.
Quando se ne fu finalmente andato, ella rifiatò. Ma la prolungata assenza di Antonietta non le permise di abbandonarsi a quel momento di sollievo. Passò un’altr’ora. Sonarono le cinque alla parrocchia di Malgrate. Alcuni visitatori se ne andarono.
La signora Elisa domandò se Antonietta era ritornata.
— Le andrò incontro — disse Maria, e si incamminò senza aspettar la risposta.
Un’angoscia mortale l’aveva assalita.
Che via doveva prendere? Antonietta poteva venire dalla vicina città, o dai monti, o dal lago. Che fare?...
Andò verso Lecco. A ogni poco si fermava, guardava il lago. Ogni barca attirava la stia attenzione. Chissà!... Forse arriverebbero col battello che andava a Lecco, e li avrebbe trovati. Affrettava il passo, rianimata.
Arrivò a Lecco, entrò in città. Che fare? Dove cercarli? Le venne un’inspirazione: telegrafare a Paolo Venturi: chiamarlo in aiuto.
Andò al telegrafo. Erano le sei meno un quarto. Il telegramma fu così concepito:
„Nostra amica A. uscita stamani con I. A. non è ancora rientrata. Sapete nulla? Maria.“
Per un momento ella sperò di aver fatto qualcosa di utile. Forse Paolo sapeva dove cercarli: forse Isidoro gli aveva detto qualche cosa.
Ella fece intanto un giro per la città, muta e triste in quell’ora crepuscolare. Le pareva a ogni momento che Antonietta le venisse incontro sbucando da una via, traversando una piazza, e ogni nuova delusione l’atterriva.
Ma la notte inoltrava, ella doveva rincasare. Chissà, mentre ella la cercava a Lecco, Antonietta forse era andata a casa da un’ altra parte: l’ultima speranza questa, l’ultima illusione a cui nessuno sfugge.
A mezza strada trovò l’Elisa e l’Angelica nella massima inquietudine; andavano in cerca di Antonietta e di lei. Angelica l’aveva scorta in distanza, indovinandola al passo.
— Maria... Sei tu?
— Sì. E arrivata?
— No. E tu sai nulla?
— Nulla.
Anche l’apatica Elisa ebbe un fremito di spavento, un grido di desolazione*
— Chi hai visto a Lecco?
— Nessuno. Ho girato per le strade, speravo d’incontrarla.
— Ma, infine, parla una volta, cosa è andata a fare? E con chi è andata?
Maria non rispose.
— Perchè non rispondi? Non sono sua madre io? Non devo sapere?...
Intervenne Angelica.
— Non tormentarla, mamma; vedi bene che non può parlare: ha promesso a Antonietta di serbarle il segreto. Ma io che non ho promesso niente, e l’ho vista andarsene stamani, posso dirti che il capitano Arquati l’aspettava.
— Oh!... Allora l’ha rapita!... Sarebbe poco male: dovrebbe sposarla... E la sposerà senza dubbio.
Così, subito, quell’anima superficiale, incapace di perdurare in un pensiero grave o in un sentimento doloroso, si lasciò trasportare dal sogno dorato, e dimenticò l’angoscia presente, in attesa delle feste nuziali che già le apparivano sicure.
— Io non credo ad una fuga — disse Maria. — Il capitano è destinato a partire per l’Africa, in previsione di una guerra. Non può condurla con se: nè fuggire con lei, perchè ciò vorrebbe dire disertare.
— E allora?
— Io non so. Pavento il peggio.
Angelica propose di andare a vedere se era tornata a casa dalla parte di Valmadrera.
Fecero quel pezzo di strada in pochi minuti. La Caterina, seduta nel viale, aspettava ansiosa. Erminia dormiva sulle sue ginocchia; Giorgetto pure dormiva, disteso a terra.
— L’hanno trovata?
— No. E qui nessuna notizia?...
— Niente.
Maria ebbe uno scoppio di pianto irresistibile. Angelica le disse sottovoce:
— Perchè piangi? Qualunque cosa sia avvenuta, è lei stessa che ha voluto così.
— Taci! Taci!
Più desolate le lagrime sgorgarono dai suoi occhi; più strazianti i singhiozzi le gonfiavano il petto.
La signora Elisa, non vedendo alcuna uscita da quello stato insoffribile, si buttò su un sedile e cominciò a gemere.
Ma sempre rinasceva la indistruttibile speranza.
Ogni avvicinarsi di passi, ogni rumore di ruote le facevano accorrere sulla via lacuale, o risalire lo stradone, o rimanere lì ritte, immobili, senza parole.
Verso le dieci, Angelica si sentì morire dalla fame e si ricordò che non avevano mangiato altro che a colazione.
Pregò la Caterina di preparare qualche cosa.
— C’è la cena pronta, la tavola apparecchiata, se non mangiano, si ammaleranno tutte.
Angelica continuava a insinuare che non poteva essere successo nulla di grave: che Antonietta sarebbe indubbiamente ritornata: che intanto non conveniva parlare con gente di fuori per non comprometterla e anche perchè la cosa non arrivasse poi agli orecchi di suo padre e di Riccardo.
Insomma la monella parlava da persona pratica e piena di esperienza.
Invitata a mangiare qualche cosa, Maria prese una tazza di caffè per sostenersi lungo la notte. Si sentiva il cuore oppresso da tristi presagi, ma non voleva parlare per non turbare l’Elisa che si lasciava cullare dall’ ottimismo superficiale di Angelica.
Scoccarono le undici. La Caterina si decise a spogliare i ragazzi e a metterli a letto. Angelica sonnecchiava su un divano.
— Va a letto, tu zia; io resto alzata. Col caffè che ho preso non potrei dormire. Se arriva qualche notizia ti chiamerò.
La signora scrollò il capo. Il suo ottimismo era sfumato, dacchè le parole di Angelica l’avevano fatta pensare a suo marito e a suo figlio: l’eventuale collera dei due uomini le faceva paura.
— Se lo vengono a sapere daranno la colpa a me; specialmente Riccardo mi accuserà. Cosa potevo fare io? È andata via senza dirmi nulla!...
— No, zia, tu non sei responsabile, non ti affannare. Va a letto. Speriamo che arrivi sul far del giorno.
Quando la madre e la figlia si furono coricate, Maria ordinò alla Caterina di buttarsi sul letto vestita per tenersi pronta ad una eventuale chiamata. Ella si ritirò nella sua camera che era al primo piano con la finestra di fronte al cancello, di là dal quale si vedeva la strada. Accese la sua lampada a petrolio, a globo smerigliato, e la collocò sulla scrivania presso alla finestra. Così, se ritornava durante la notte, Antonietta avrebbe capito subito che tutti erano a letto e che lei sola l’aspettava.
„Se ritornasse!“
La speranza giungeva ancora al suo cuore, ma debole e appena distinta, come una voce languida che si perde nella notte. Cosa poteva essere avvenuto perchè Antonietta tardasse così? Quale risoluzione potevano avere preso i due amanti insieme? Che si fossero lasciati trascinare dalla dolce ebbrezza di essere soli e liberi, fino a dimenticare le ore? Che non trovassero la forza di separarsi e allontanassero fino all’estremo il doloroso momento?
Tutto ciò era possibile e costituiva la speranza, la vacillante speranza che Antonietta ritornasse.
Il dubbio atroce che ella non ritornasse più assaliva l’anima di Maria, in quella crudele ora d’attesa, con argomenti assai più validi e terrificanti. Fin dalla sera che avevano ballato sotto gli alberi dell’orto, ella aveva notato nelle parole, negli atteggiamenti, nello sguardo di Antonietta un cambiamento significantissimo. Quelle parole gittate lì, quasi incoerenti, quegli sguardi, quegli atti, non esprimevano più il dolore amaro, misto a disdegno, e neppure esprimevano la tenera commozione di chi ha perdonato e confida nell’avvenire. Quanto più ci pensava, tanto più pareva a Maria che l’attitudine di Antonietta, in quegli ultimi giorni, rivelasse un profondo distacco dalle cose della vita, una speranza selvaggia, traversata da sprazzi di gioia quasi folle e vaneggiante.
Le pareva ancora di vederla ballare col capitano. Ella non aveva visto nessuno ballare così; non le era neppure mai passato per la mente che in una manifestazione del più semplice piacere fisico, quale è il ballo per se stesso, una creatura potesse mettere tanto abbandono disperato e tanta ineffabile ebbrezza... Ah!... forse fin da quella sera Antonietta aveva presa una inaspettata risoluzione.
Quale? Maria non poteva o non osava rispondere. Un invincibile terrore e una illusione quasi voluta le impedivano di scrutare il fondo del suo pensiero. Ma la parola fatale errava sulle sue labbra, invano respinta. Pensiero disperato: parola di morte.
La prima ora del mattino rimbombò nello spazio.
Maria rabbrividì.
La notte era calma e serena, le stelle, le belle stelle che ella tanto amava, scintillavano invano nel cupo azzurro; ella non le guardava. Immobile, la fronte chinata, ascoltava involontariamente i misteriosi rumori della notte, il movimento ritmico delle acque del lago. E quei vari suoni confusi le molcevano il cuore come una nenia lamentosa. Era il lamento diffuso delle cose che soffrono? Era il gemito dei morenti che agonizzavano in quell’ora tragica?... Dio! quanto dolore, che schianti, che lagrime! A schiere, a schiere dalle piaggie verdi, dai colli ubertosi, dalle vette superbe dei monti, dalle opime valli, ella vedeva movere i disperati, gli affamati, gl’infermi, i feriti a morte, e dalle loro labbra livide uscivano suoni inarticolati di pietà, di preghiera, gridi di collera, imprecazioni disperate.
Il ronzìo inesplicabile che animava il silenzio, i rumori misteriosi erano forse l’eco di quelle voci scroscianti, di quei gemiti, di quei sospiri?... Quanto immenso dolore in mezzo a tanta calma, circondato da così spensierata, o ignara, o spietata indifferenza!
„O Antonietta! Antonietta, sorella mia, dove sei tu in questo momento?“
Il passo di un cavallo, il cigolìo di una ruota le strapparono un grido di angoscia e di gioia.
— Una carrozza!... È lei... Oh! Antonietta sei qui finalmente!
La speranza fu così viva che non dubitò neppure di potersi ingannare. Ascoltava palpitante, attendendo che la carrozza si avvicinasse per correre al cancello.
D’un tratto, ella non sentì più nulla. Le parve di morire. Invece di giungere fino a casa Valmeroni, il cavallo si era fermato probabilmente a una delle ville vicine, o aveva svoltato sulla strada di Galbiate.
Un singhiozzo disperato uscì dal petto della delusa. Ora le pareva che Antonietta non dovesse ritornar più, mai più!... Morta!... scomparsa... inghiottita dall’abisso...
I singhiozzi la scotevano, la contorcevano come una pianta delicata sotto la violenza dell’uragano. Le lagrime le inondavano il viso, impetuose, cocenti. Il tormento maggiore le veniva dal rammarico di non aver accompagnata l’Antonietta: di non aver insistito per farlo: di non essersi imposta. La ripulsa stessa doveva farle comprendere che Antonietta aveva presa una determinazione funesta... tragica. Altrimenti non avrebbe rifiutata l’offerta affettuosa, era troppo pura, troppo leale. Voleva finirla, sparire. E lei non aveva compreso e si era lasciata metter da parte ed era rimasta a casa, trattenuta da uno stupido riguardo, mentre la sua diletta amica, la sorella del suo cuore, correva a perdersi, a morire. L’immagine tragica l’assaliva con accanimento, e invano la sua ragione si dibatteva contro il tetro fantasma. Tutte le forme della morte volontaria le passavano dinanzi in lugubre schiera. Ed era sempre Antonietta che ella vedeva esangue, non mai Isidoro. Pure, non era possibile che egli la lasciasse morire essendole vicino. O entrambi o nessuno. E non era verosimile che Isidoro, così serio e ragionevole, avesse voglia di morire. Dunque nè l’uno nè l’altra. Erano fantasmi della sua mente agitata: terrori della notte. Ella non doveva abbandonarsi a quello sgomento.
Ritornava alla speranza. A quell’ora Paolo Venturi doveva essere da un pezzo in possesso del telegramma. Certo si era messo in cerca dei due amanti. Forse sapeva dove erano andati.
„E se Antonietta avesse risoluto di seguire Isidoro in Africa?“
Per un istante Maria si fermò a questa supposizione. E pensò a Riccardo e a suo padre: alla loro sorpresa, alla loro collera.
„Altro che sorpresa, altro che collera“ le suggerì oscuro presentimento. „Saranno pianti e disperazioni, poichè Antonietta muore, o è già morta. Morta!... Morta!...“
E si rimetteva a singhiozzare. Così passò l’orrenda notte.
Verso l’alba ella fu presa da un intenso freddo. Non volendo chiudere la finestra, si buttò sulle spalle un mantello. Rannicchiata nella sua poltroncina, davanti alla scrivania, con la lampada a petrolio sempre accesa, aspettò ancora. A giorno fatto voleva ritornare a Lecco e avvertire la questura; o telegrafare prima a Riccardo: insomma agire, non era più possibile l’attendere così.
Intanto la campagna cominciava ad animarsi. Stormi di uccelletti svolazzavano da una pianta all’altra, pispigliando e cinguettando, come sogliono fare al mattino prima di separarsi.
Un battello che aveva pernottato a Lecco passò fischiando. Gli rispose dall’alto il fischio di una locomotiva.
Un rumore di ruote...
Oh! questa volta non s’ingannava: sonavano al cancello. Paolo Venturi...
Ella volle accorrere; non potè. La commozione violenta abbattè le sue forze: ricadde sulla poltrona, semisvenuta.
Paolo entrò nella camera, pallido, disfatto.