dere, di abbandonarsi a lui e di morire. Chi poteva rimproverarla dacchè pagava il suo fallo con la vita?... Chi aveva bisogno ch’ella vivesse? I suoi, no: era sufficiente il numero dei loro figliuoli anche senza di lei; i Pagliardi neppure; troppo ragionevoli per affliggersi lungamente della scomparsa di una scioccherella. D’altra parte la vita ch’essi le facevano nella loro casa era troppo pesante e fredda. Vivere a quel modo altri dieci anni, forse venti... oh, no! Meglio godere un giorno di felicità, un giorno senza domani! Ma Isidoro non doveva sapere. Fino all’ultimo egli doveva crederla illusa, fidente o rassegnata al destino, fosse pure il più triste, che egli le preparava. Non aveva bisogno di molta astuzia per ingannarlo, no. Era ben lungi il bel capitano dal supporre ch’ella volesse finire quella bella giornata con una tragedia. Ella gli leggeva in cuore la gioia, il tripudio di averla vinta, di farla sua: e nessun pensiero oltre quello della prossima felicità, nessuna preoccupazione dell’avvenire. Eppure a lei sembrava che se fosse stata nel caso di lui avrebbe penetrata la verità. L’amava egli? In quel momento sì, l’adorava: di più non poteva amarla, nè ella poteva essere mai più così intensamente felice. Dunque non perdeva nulla a morire. Nulla. Dopo sarebbero venuti gli imbarazzi, le contrarietà di famiglia, tutti i fastidi di una falsa posizione. Pure amandola, Isidoro non avrebbe