Sermoni giovanili inediti/Sermone X
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SERMONE DECIMO.
IL SALARIO.
Come al lavoro la mercè s’adequi
Or ne giovi saper; ma in pria rammenta,
Che da sorgente duplice la nostra
Dovizia nasce e propagata cresce,
5Per natura e per arte. Invan presumi,
Che la natura vergine ti schiuda
Il sen ritroso e alle tue voglie arrida,
Se all’opra dell’ingegno e della mano
Volger non degni l’amorosa cura.
10È stimolo il bisogno, è la fatica
Prima condizïon, che al fine adduce
Dei bramati compensi. Alla potenza
Della mente e del polso altra ne aggiunge
Il provvido consiglio, onde una parte
15Del frutto, ch’oggi raccogliesti in premio
Degli sparsi sudori, accortamente
All’indoman riserbi. Un sudor novo
Con validi strumenti indi risparmi;
E di novelli studi a te prepari
20Ozi felici, ed all’età lontana
Fonte perenne di più ricca vena.
De’ varïati obbietti intorno sparsi,
All’uopo nostro, formasi il tesoro,
Che ricchezza si appella; e tu di saggio
25Il vanto merti allor, che l’importune
Voglie frenando, a più leggiadre imprese
Con fortunati auspicii il nerbo accresci.
Il volgo sciocco (nè il togato volgo
Forse al volgo minor nemmeno in questo
30Il passo cede) le sue lodi serba
Solo a chi gli occhi sfolgorando abbaglia
Con vane pompe alle presenti turbe;
D’ogni soccorso povere e deserte
Indi lasciando la future genti.
35Oh! la malnata usanza agli avi cara
Stata pur fosse; e noi tardi nipoti
Ancora andremmo dell’antica notte,
Senza guida e conforto e senza speme,
Fra le tenebre errando egri e confusi.
40Degli organi la tempra e dell’ingegno
Diversamente il ciel largo comparte
Nel vario clima alle diverse schiere
Liete di novi e varïati doni.
Delle alternate prove e degli alterni
45Cambi in ciò vedi la ragion riposta,
Onde l’opra di mille a un tempo e mille
Con intreccio mirabile soccorre
All’opera di un sol, che tanti ottiene
Certi servigi, e vani sforzi evita.
50E son del cambio validi ministri
Gl’improntati metalli, e i saldi pegni
Sotto l’usbergo di non compre leggi,
Ed il libero voi che al chieder pronto
Pronto risponde coll’eletta merce.
55Dell’officina fervida la gara
Ecco s’inizia. I mantici e le incudi
E i martelli, non men che l’edificio,
E le vigili cure appresto e reco.
All’alternar de’ risonanti colpi
60Il fabbro invito nerboruto; e pronti
In poco d’ora son vomeri e scuri
E falci e seghe, e d’altrettali arnesi
Moltiforme famiglia. Il fabbro adusto
Attendere non può la sua mercede,
65Per l’opra che sudando e trafelando
Coi poderosi muscoli conduce,
Finchè l’incerto prezzo a me compenso
Della materia e a lui renda dell’opra.
Incerto prezzo sì, che la speranza
70Terrebbe a lungo in bilico sospesa,
E nove volte delle dieci alfine
Disperderebbe al vento. A te la vana
Speme non empie l’affamato ventre;
Ne del mercato a sopportar gl’indugi
75Apprese ancor lo stomaco digiuno.
Quindi a patti veniam: io del mercato
Alla sorte volubile m’inchino,
E a te di giorno in giorno offro tributo
Di numerata e facile pecunia,
80Che prevenendo le non degne offese
Del tempo e di fortuna, il tuo compenso
Col presente salario rassicuri.
Nè porti dell’altrui colpa la pena,
Se dai fallaci calcoli discordi
85Il vagheggiato lucro, ond’è ragione,
Ch’io dell’impresa sol maestro e duce
Soffra la pena e il guiderdon consegua.
E il guiderdone avrà titolo e nome
Nelle singole sue parti diverso,
90Sia che dell’uso il danno si rintegri,
O col profitto de’ risparmi antichi
De’ nuovi studi la mercè si accordi.
De’ sofisti la querula sentenza
Invan presume rovesciar dal fondo
95Delle cose l’eterno ordine; e novo
Ordin prescrive condannando i vieti
Dritti serbati al provvido risparmio
In macchine converso, od in fecondi
Arati campi, od in sonanti dischi
100Di moneta, che le une e gli altri agguaglia
Per l’intimo valor. A me negato
Non è ch’io sappia di godere il frutto
Di mie fatiche, e con egual vicenda
Farne ricambio di servigi alterni.
105Ora invece d’un sol, ch’io n’offra e passi,
E ne riceva qual fugace lampo,
Io coi sudati cumuli rimando
A lontana stagione il mio diritto,
Che pel volger degli anni integro dura:
110Onde novi servigi in forme nove,
Rinnovellati coll’interna tempra,
Ottenga e renda la futura etade.
Tu i maledetti cumuli disperdi;
E gli atomi leggieri all’aure in preda
115Dilegueransi; nè la magra invidia
Nell’empia guerra avrà vittoria lieta.
Chè chiuse all’uom dell’avvenir le porte,
Nel momento che fugge i suoi pensieri
Novello bruto tutti raccogliendo,
120Schermo farà coll’insaziabil gola,
Colle usanze lascive e gli ozi turpi
Contro a nove rapine e a novi insulti.
Ma dell’austera tunica vestito
Altri, avvezzo a scambiar le carte in mano,
125Le nostre leggi a carità rubelle
Grida; chè in troppo rigida bilancia
Librano il pondo dei servigi umani.
Hanno giustizia e caritade il regno
Entro a proprio confin, chè ad arte obblia
130Chi di giustizia e caritade il nome
Spesso coi detti e più coll’opre offende.
Il principio, l’effetto, il pregio e i doni
De’ facili commerci indaga e scopre
La dottrina economica, che mostra
135Come al bene dei singoli risponda
Il ben di tutti allor che in dolce metro
Coll’utile l’onesto si accompagni.
L’arbor della scïenza in cento rami
Si parte, e ad uno ad un la corta nostra
140Vista li cerca e li contempla. Spesso
Del suo soggetto in forma s’innamora
Il borioso alunno, che disprezza
Degli altri il vanto e l’eccellenza nega.
Folle presunzïon, che de’ tranquilli
145Studi sconvolge l’ordine stupendo,
E ne muta l’armonico concento
In suon discorde di stridenti note.
Ma pur diremmo, che a se stesse fine
Son tutte cose, e che son mezzo al fine
150A noi prescritto quale ultima meta.
Chi non ha dell’error la testa cinta
Col fine il mezzo non confonde: il saggio
Esempio imita e il tuo cammin prosegui.
Dell’offerta la legge e dell’inchiesta
155Alle merci, ai profitti ed ai salari,
Volubile tiranna, i prezzi détta.
Di servigio maggior è certo segno
Delle affollate turbe il chieder alto:
Ma del contrario fa non dubbia prova
160Il poco domandar con voci basse.
Se cento artigianelli a me le braccia
Inoperose stendono, chiedendo
Lavoro e pane, ed io per dieci appena
Ho la materia ed i congegni in pronto;
165Dimmi, se il cor ti basti, a quante e quali
Prove saranno i miseri condotti;
Mentre più che una morte lenta e muta
Par che giovi il morire in guerra aperta?
Langue l’inchiesta allor che l’alimento
170Vien manco del lavoro; e l’importuna,
E dolorosa e disperata offerta
Tanto si accresce più quanto più ratto,
Oltre il confin che da ragion si ferma,
Il numeroso popolo trascorre.
175L’inesorabil fame al necessario
Prezzo dell’opra forse il varco estremo
Addita e segna? A te risponda il verno
Orrido e crudo; che alla mèsse avara
Fra le angosce, gli stenti e le paure
180Succede minacciando. Al caro prezzo
Dello stremato pan forse s’adegua
Il meschino salario, incerto e tardo?
A non sani giudizi ancor ne guida
La tenace pecunia, inutil motto
185Se le cose toccare a me dineghi.
Vano sgomento! Il pubblico decreto
Ogni misura agguagli, e al caso cieco
Colla sua luce sottentrando, adempia
Il difetto comun. Da senno parli?
190Al tocco della magica bacchetta
Forse di nove biade e novi arnesi
Fia che l’ignota altera maraviglia
vampa del Sol sorga e risplenda?
Caccia in bando le fole; e pensa come,
195Se la materia manchi ed il compenso,
Raddoppiando il salario, a questo arrivi
Terribil varco. O a consumar mi sforzi
Il poderoso nerbo; e a mezzo cade
La povera officina, onde si fugge
200La mesta schiera colle mani vote:
O quello strazio prevenir mi avviso;
E la schiera delusa in due partita
Rimane sì, che all’una parte serbo
Quello che all’altra congedando niego.
205Dal nuocer, se giovar non sa nè puote,
Almen si guardi il pubblico decreto;
E nuoce allor, che delle industri prove
Rallenti il corso colle opposte dighe,
Onde scema il lavoro e la mercede.
210O il verace salario, a poco vento
Che insulta e passa quasi riducendo
Cogli avidi tributi, il viver gramo
Renda. Perchè delle straniere merci,
O delle biade ad altro Sol cresciute
215Rifiuti il dono, ed i codardi sonni
Del nativo cultor proteggi e bei?
So che un profitto a lui si rassicura
Sotto color, che le augurate imprese
Più largamente fecondando, inviti
220A conati maggiori e a degno premio
Di più larga mercede. Al campo infesta
E al popolo non meno è l’ombra tetra,
Che su vi stenda la maligna pianta
Del monopolio, onde lo stolto ride.
225E l’officina, mendicando i certi
Soccorsi smunti delle borse magre,
Vuote le rende appien, quando l’usura
Del prezzo aggiunge alla men ricca merce.
Il soverchiante prezzo esclude mille
230Dall’angusto mercato, e ai mille esclusi
Dalla speranza del bramato frutto
Cento e cento si attergano mostrando
Le destre invano a fecondarlo intese. —
Ma dall’estranio lido, a più felice
235Tempra foggiate, a noi vengon le merci,
Se doppio baluardo nol contenda.
A noi vengon, che sotto il grave carco
Dei balzelli curvando l’omer lasso,
Mai non potremmo ragguagliare al corso
240Chi sciolto vola e libero alla meta. —
Dunque, io soggiungo, a noi venga gradita,
E tanto cara più l’esterna merce,
Quanto di sacrifizio e di fatica
Più a noi risparmi, ed il risparmio accresca
245La debil lena a più felici intenti.
Il pondo allevia delle tue gabelle,
Se la ragione e il benefizio ecceda.
Alleviarlo non puoi? Strano compenso
Del monopolio a noi recano i danni,
250I tirannici prezzi, i lucri estorti,
E gl’insolenti sgherri a guardia posti
Delle compre per noi doppie barriere.
Da legge stolta, baldanzosa e vana
La promessa di facili salari
255E larghi e certi con amaro inganno
Non chieder no, finchè t’aiuti Iddio.
O in ogni tempo e tutti uomini abbraccia
Per ogni loco con equabil norma
Dalle scherzose nuvole scendendo;
260O gli uni a caso, a forza, a stento copre
Delle involate altrui lacere spoglie.
Benefica l’applaudo, ingiusta l’odio,
E bugiarda la sprezzo; e di bugiarda
Il nome merta e il vituperio, quando
265Le menti illude con blandizie false;
E scrive all’opra e alla mercede un dritto,
Che ogni potenza eccede, anzi follia.
Quale e donde l’effetto? A ognun si tolga,
E rendasi ad ognun meno del tolto;
270Mirabile portento, onde le chiavi
L’impeccabile fisco in mano tiene.
Stolta dicemmo, baldanzosa e vana
La legge, che da fonte inaridita
Promette lo sgorgar di perenni acque.
275Ma più che vana, baldanzosa e stolta,
Iniqua fôra, se i beati lucri
Dell’officina al reggitor sovrano
Certi rendendo, un obolo poi niega
Al tapinello, che dall’alba a sera
280Indarno suda a sazïar la fame
Dei figlioletti pallidi e digiuni.
Di riposato vivere civile
A noi doni godere, al santo regno
Di giustizia e di pace, il tuo decreto.
285E gl’importuni vincoli disciolti,
Che fûro intoppo lungamente al piede,
Ognuno intenda libero e sicuro
Alla meta, che varia il Ciel prescrive.
Ma di giustizia e libertà non basta
290Il benefico raggio a far che giorni
Sorgan più belli alle dolenti turbe.
D’ozio, di colpe e di miseria madre
È l’ignoranza; e una fatal catena
Di sciagure, di vizi e di delitti
295S’intreccia sì, che guardi e cerchi e spesso
Dal primo anello l’ultimo non scerni.
L’uomo sovente del suo male è fabbro
A se medesmo, il so; ma pur ripenso,
Ch’unica scola ed unico rifugio
300S’apre alla turba nell’immondo speco,
In cui beve de’ mali e di se stessa
Un disperato obblio. L’incauto padre,
Che nel futuro col pensier non legge,
Alla cieca fidanza abbandonato
305Crede, se creder può, ch’alla infelice
Crescente prole alla ventura nata
Basti un giorno gridar: ecco due braccia;
Perchè il lavoro e la mercè non manchi.
Tocco un’ingrata corda, e pur sostengo,
310Che l’addensato popolo novello
Non è di gloria e di potenza indizio,
Finchè prostrato, livido e sparuto,
Ignaro e fiacco e delle oneste e belle
Usanze confortevoli diviso,
315Miseramente vegetando viva.
Ma l’uomo del suo mal fabbro è a se stesso,
Ancora io dissi; e dall’abbietta razza,
Là travolta nel fango, a più gentile
Schiera si volge l’umile sermone.
320Voi, che trattate con perita mano
I fabbrili strumenti, e degno avete
Premio dell’arte e dell’ingegno, ai tardi
Giorni pensate della vecchia etade
Or che la bella gioventù vi arride.
325Gli accumulati avanzi a voi tien pegno,
E a’ figli vostri, di speranze care,
Onde s’allegri la vita serena.
Come l’acqua che a goccia a goccia cade,
Tacita e lenta fende il duro sasso;
330Così i minuti e spessi oboli, ad ora
Ad ora in vane e frivole e soverchie
Spese gittati, fanno a poco a poco
Ciò che improvvisa grandine con furia
Giù cadendo, non fa pei lieti campi
335Inghirlandati delle bionde spiche.
I tributi vi pesano? Ma quale
È più grave tributo e più frequente
Di quello che la crapola v’impone,
II lubrico ridotto e l’ozio e il gioco,
340E il chiedere a fidanza, e il render tardo?
Se l’infecondo e prodigo consumo
Nuoca o giovi al salario, in parte dissi,
E in parte ridirò con altro verso.
Oh! quanto giova che gli alterni uffici
345Si partano fra lor sì che al bisogno
L’un non difetti e l’altro non soverchi.
Troppo l’opinïon falsa c’inganna
Nella scelta, da cui pende la sorte
Avversa o lieta della vita nostra!
350Il giovin baldo slanciasi securo
Al corso, immaginando innanzi a lui
Veder con soavissimo pendio
Seminato di rose il suo cammino.
Ma quando vuol della smarrita via
355Indietro ritornar, l’impeto primo
In cor gli manca, e il piè stanco vacilla.
Alla baldanza giovanil si allenta
Talora il freno dal paterno orgoglio,
Quasi che dal venal lauro recinta
360Più libera la fronte al cielo innalzi
L’imberbe figlio nel sembiante grave,
Ma lieve lieve al muovere dell’anca.
So che fra cento porte al genio aperte
Una appena rimane, in cui penètri,
365Il suol radendo con tarpate penne;
Ove una ingorda razza e bieca regni
Col piè calcando i popoli soggetti.
So che a maturo e provvido consiglio
La buona elezïon nostra risponde,
370Di lunga esperïenza e tardo senno
Frutto raro e felice, onde contendi
I primi germi alla negletta plebe:
So che agli ameni studi e alle severe
Dottrine un tempio venerando è sacro,
375A pochi eletti spiriti serbato;
Ma qui non vedo sacra all’arti un’ara,
A cui movendo in folla e gareggiando
S’inchini all’arti il popolo devoto.
Del salario cercando e del profitto
380La ragione, la legge e la ventura,
La mente curïosa ancor ne cerca
La discrepanza, che nel tempo e loco
Stesso divider par gli ordini vari
Del socïal convitto insiem congiunti
385Da reconditi nodi, eterni e stretti.
La fatica, lo studio ed il periglio
Egual non è nelle diverse imprese;
E l’inegual compenso i gradi adegua
Del sacrificio sì, ch’altri nol fugga
390Sdegnato e stanco dell’ingiusta pena.
È facile il lavoro, ingrato o duro;
DI scherno obbietto o d’onoranza segno?
Lungo è lo studio, e per molt’anni macro
Fa il suo cultore, che l’incerta palma
395Da sè lontana sospirando vede?
La stagione volubile o la moda
Fa di mano cader di tempo in tempo
Il martello, la spola e l’ago industre?
Integra fe, tanto nel mondo rara,
400A te sì chiede, o l’eccellenza basta
Del magisterio al compartito ufficio?
Quale il rischio e l’evento? In procelloso
Mare dall’onde lacerata i fianchi,
Di ricche merci già gravidi e carchi,
405La nave affonda; e tu godi securo,
Vagando per la placida laguna,
I pesciolini richiamar coll’amo.
Di cinque legni, all’impeto de’ venti
In preda, un solo al desiato porto
410Toccando, avrà de’ cinque intero il premio.
Tu guardi all’uno con invidia, e i quattro
Sprofondati nel mar più non rammenti.
Così l’incauto giocator le ciglia
Alle vittorie inarca, e i vinti obblia.
415Per pochi che toccarono la cima
Dell’arte, mille giacciono nel fondo.
Ma i glorïosi e fulgidi trofei
De’ pochi abbaglian sì, che un novo gregge
Corre, e cadendo nella polve resta.