Sermoni giovanili inediti/Sermone XI
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SERMONE DECIMOPRIMO.
IL LUSSO.
Rida a sua posta ognun perch’io ragiono
Di salari, di prezzi e di consumi
Col novo stile, onde parrà che sogni
Sparger di fiori un arido terreno,
5Che forse ingombro di più dense spine.
Legga chi vuole e intendami chi puote
Io non dirò; chè temerario troppo
Fôra il mio detto e men di scusa degno.
Innanzi moverò, se tu m’aiuti,
10Tu che benigno e in un grave m’insegni
I saggi a venerar, come le vane
Ciance disprezzi del beffardo volgo.
La nostra a soddisfar voglia, che nasce
Dal bisogno mutabile e diverso,
15Noi siamo all’opra faticando intenti
Col nerbo dell’ingegno e della mano.
Allor la voglia e la speranza è piena,
Quando si gode il desïato frutto
Dello sparso sudor degna mercede.
20E l’atto del goder, che ci ristora
De’ lunghi sforzi, appellasi consumo,
Colla parola che dall’uso antico
Del volgo, adatta a ciò ch’ei vede e palpa,
Il dotto prese, l’ordine cercando
25Nel suo volume dei commerci umani,
Che dall’alterne prove hanno alimento,
E ricompensa dai servigi alterni.
Delle importune voci al suon discorde
La tua dottrina parve al culto sacra
30Della materia. — E pur l’opera indaga
Onde lo spirto le ribelli forze
Della natura indocile domando,
I suoi trionfi e la possanza estende.
E pur dimostra come in largo giro,
35Se all’appetito la ragion prevalga,
Di civiltade il raggio si diffonda
A gloria eterna dell’umano ingegno,
Che a più libero volo in alto s’alza
Quando nol prema dell’inopia il duro
40E grave pondo. Dell’acerba guerra,
Ove in nome del ver spesso si pugna,
Non ultima cagione è la favella,
Che da contrarie parti si martira
Con vario grido e col medesmo intento.
45Tace un bisogno, ed altro si ridesta,
Ed altro incalza. Il fervido desio
Con ali impazïenti ogni confine
In poco d’ora scapestrando varca;
Se nol rattieni sì, che il lento segua
50E tardo maturar della semenza
A tempo sparsa nei fecondi campi.
Di passo in passo alla lontana cima,
Che il cielo addita agli umili mortali,
Muovere è forza. Un pungolo severo
55Ne spinge, stimolando i pigri fianchi,
Dal bene al meglio; e i temerari sbalzi
Necessitade e provido consiglio
Affrena e danna, o per dolor le mani
Invan ti mordi, o coll’insana foga
60Precipitando giù ti fiacchi il collo.
Della divina previdenza offende
I decreti mirabili infiniti
Chi per opposte vie guidar presume
L’umano gregge, ed al ferino armento
65L’agguaglia in suo pensier quando una meta
Al mobile bisogno immota pone;
Come in eguale e ognor ferma misura
La paglia a ruminar porgesi al bue.
O quando a far che doppia si produca
70Mèsse, vorrebbe raddoppiar la fame
Dell’ingordo animal, cui tronco in parte
Indi sarebbe il necessario pasto.
La sentenza sofistica travolge
In fine il mezzo con amaro inganno,
75Eccitando l’improvido consumo
Colla promessa di futura merce;
O incautamente, a prevenire intesa
Gli errori del cammin, tronca la via,
Il pensiero, l’affetto e la speranza.
80A fido specchio il ver si raffigura,
Se in lui ti affisi e ben ti riconsigli,
Mentre la mente ancora incerta pende
Fra quel che nuoca o giovi. Arduo problema
E strano e indissolubile rinnovi,
85Se in due bilance l’utile librando,
Dall’apparenza vana delle cose
Indótto più che dall’occulta legge,
Condanni e assolvi con giudizi torti,
Ad onestà recando indegni sfregi.
90Il ventoso signor, che in poche lune
Converte il censo degl’industri padri
In fragorose danze e in laute cene,
Se di austero censore il biasmo merta,
E una cupa voragine dischiude
95A se medesmo e vi si getta in fondo;
Dimmi se merti ancor, quasi novello
Curzio devoto alla comun salvezza,
Il plauso avaro delle turbe insane?
Dunque, se credi alle festose turbe,
100Quello che nuoce all’uno a tutti giova,
Purchè il senno dileguisi col vento?
Oh gentile miracolo, che novo
Non è, quantunque a meraviglia inviti
Col fugace bagliore! In pioggia d’oro
105Vedi a terra cader dall’aure assorto
Il fulgido tesor non più d’invidia
Obbietto no, ma di speranze allegre.
E la pioggia benefica diffonde
In cento parti il suo dolce ristoro,
110Sì che un batter di mani e un gridar alto
Gli orecchi introna, ed intronando passa.
Passa col fumo delle mense opime,
Col fiato degli armonici strumenti,
Col vortice de’ balli illanguiditi.
115Vedesti il lampo e le scherzose larve;
Ed or non vedi nella notte buia,
Che a quel lampo succede, i volti scarni
Dell’affamato popolo, che pane
Chiede vagando pei deserti campi,
120Che il tuo tesoro fecondar potea.
Ma se nego versare a piene mani
Le mie dovizie e il molt’oro (rispondi),
Il poverello non morrà di fame? —
Morrà di fame sì, poichè non degni
125Il superbo chinar guardo dall’alto
All’officina languida, ai negletti
Solchi e alla plebe livida e sparuta
D’ogni suo bene ignara. Alla derisa
Plebe spezzate il pan dell’intelletto;
130Ed il ferace solco s’incoroni
Di nove spiche; e di materie nove
L’officina s’allegri, e nove chieda
Industri gare. Il molto oro sepolto
Così non giace, nè disperso vola
135Dalle stolte libidini travolto.
Ma perchè l’oro vanti e lo confondi
Colla ricchezza e colla sua sorgente?
Ciò che giova e diletta all’una porge
Il nome, e forza acquista e si propaga
140Pel vigile risparmio agli usi vôlto
Moltiplici dell’arte. È questo, è questo,
Se non ti offendo i timpani gentili,
Il Capitale dal severo ciglio,
E dalle grazie, che largo dispensa
145A premio di virtude. Ai cambi alterni
Servono i dischi del metallo avaro,
Come la ruota fervida del carro
Per l’aperto sentier. Sono que’ dischi
Del bramato valor pegno e misura;
150Ma per fame cessar non li manduchi.
Ricchezza sono il solido adamante
Ed il fragile vetro; i colmi nappi,
E le disposte dapi; i sinüosi
Drappi e i fidati alberghi; e mille e mille
155Obbietti a mille costumanze sacri
Della vita civil. Forse l’antica
Rusticitade povera e selvaggia
Andrò cantando a rampognar de’ vivi
L’ozio codardo e le lascivie stanche?
160Forse m’illude il querulo lamento
Di chi grida alle turbe: eh! via, gettate
I prezïosi e nobili trofei
Della novella etade; e poi vi caccia
Sopra gli artigli colla ingorda brama?
165Forse rinnego del sereno giorno
Il benefico raggio, e maledico
Alla vampa del Sol perchè di lievi
Macchie s’adombra; o delirando penso,
Che la foga de’ secoli s’arresti
170Alla verga di magico profeta?
Io so, che ad ogni etade il ciel cortese
I suoi doni concede, e so che all’una
Lice appena sperar ciò che dell’altra
I voti adempie, e noi cercando invano
175Un bene andiamo, onde i nepoti tardi
Lieti saranno. Ognun rechi una pietra
All’edificio, che di grado in grado
S’innalza, e scritto nella fronte porta
Con note incancellabili la nostra
180Veridica sentenza. All’opra, all’opra.
Ma tu le pietre scássini, ed in polve
Con baccante tripudio le converti;
Poscia al vento la polvere disperdi,
Novo di civiltà mastro alle genti.
185Tu dell’avaro stupido, che cela
L’infecondo tesoro, a cui l’erede
Impazïente nel suo cor sorride,
L’insania vinci; e alla sua breve offesa
Eterni danni aggiungi, e col malnato
190Istinto distruttore eguagli il bruto.
Mentre l’accorto e vigile massaio
Non solo, all’avvenir pensando, imita
L’esempio della provvida formica;
Ma i cumulati semi alle domate
195Glebe confida, e cinque volte e cinque
Moltiplicando il frutto ne raccoglie,
E ne dispensa con perpetua vece.
Di ricchezze, di lucri, e di salari
Per lui dischiusa è una perenne vena
200A conforto comune; e per te sbocca
A larghi sprazzi un’onda romorosa,
Che poche zolle bagna e si dilegua.
Col lungo argomentar motto non feci
Del multiforme lusso, e pur disciolto
205D’ogni contesa omai sembrami il nodo.
Il rabido censor, che ringhia e latra,
Gli usi condanna alla stagione antica
Ignoti. Lascio i delicati arnesi,
Le poderosa macchine, i sublimi
210Miracoli dell’arte; e il passo io volgo,
Artigianello umíle, alla tua stanza,
Che al re de’ regi Agamennóne invidia
Certo darebbe. Il trasparente vetro
A te non fura il bel giorno sereno;
215E le notturne tenebre rischiara
La vivida lucerna. Al desco siedi,
Nè delle dita fai la tua forchetta;
Non il forbito calice ti manca,
Nè la monda stoviglia. Il fuoco attizzi
220Sotto la cappa, e il fumo apresi un varco
Nelle disposte canne. Il bianco lino,
Ed il morbido drappo alla persona
Sono vesti, ristoro ed ornamento.
Sotto a tiepide coltri il fianco posi,
225E gli opposti ripari agli occhi schermo
Gradito fanno. Un facile volume
A te si porge, se la bieca turba
Per maligno sospetto e per paura
Non tel divieti; e tardi se ne penta.
230I costumi, i compensi ed i giudizi
Mutan con gli anni, e al volger della ruota
Tu immobile ti credi e intorno giri.
Alla condizïon della fortuna
Ancor si guardi; e dagli aurati cocchi
235Tu non vorrai che il satrapo discenda,
che la rivendugliola s’ammanti
Di seriche gualdrappe. Il tempo, il loco,
Il quanto e il quale pur fan manifesto
Se intatto serbi un granellin di sale,
240O il tuo cervello a noi sappia di sciocco.
Splendon astri maligni; e tu crudele
O vano, inconsapevole od inerte,
Alla turba famelica ricusi
La mano, onde vezzeggi il cane e il mimo!
245Alla semplice Moda io non contendo,
Che scherzi svolazzando ad ora ad ora:
Ma ditemi, per Dio, voi che stranieri
Nella patria vivete (oh patria, oh nome!)
Dal volubile capo all’agil piede
250Effigïati alla straniera stampa;
Ditemi, è questo il senno e la pietade,
Onde tanto per voi vampo si leva?
Non gli esperti famigli, o gli ospitali
Prandi, o le bighe fervide condanna
255Quei, che biasmando va degli ozïosi
Servi procaci la lunghissim’ala,
O dell’italo Bacco il bando eterno,
O il vano scalpitar degli adunati
Da vario clima indomiti cavalli.
260Forse invoca le leggi? Un nume invoca
Più benigno, più saggio e più potente,
Tanto spregiato più quanto men noto,
Il semplice buon senso. A lui s’inchini
La falsa opinïon, che degli sciocchi
265È maestra, è regina, anzi tiranna.
Ed alla opinïon falsa, che nasce
Dal cieco orgoglio, onde sugli altri levi
Ambizïoso il capo, allor che meglio
Dell’essere il parer giova, si porge
270Un fomite dal plauso delle genti
Stupide ed ebbre e del lor male ignare.
Gli studi gravi e gli utili commerci,
E le imprese magnanime non curi
Ne’ molli e sfolgoranti ozi beato.
275De’ nostri danni son prima radice
L’ignoranza, l’errore e la superba
Viltade. Ad esse indícasi la guerra,
Che ne consoli di speranze care,
E a più degni pensieri, ad opre degne,
280Non meno della rozza e abbietta plebe,
Il vulgo venerabile conduca.