Sermoni giovanili inediti/Sermone IX
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SERMONE NONO.
LE MACCHINE.
Batti e ribatti col serrato pugno
A duro tronco il chiodo, e a te la mano
Livida e pesta vien manco alla prova,
Mentre l’ottusa punta appena segna
5Di lieve solco la ruvida scorza.
Ma di saldo martello arma la destra,
E i colpi mena. L’agitato braccio
L’impeto e il nerbo suo quasi trasfonde
Nel docile strumento, che n’accoglie
10In sè la forza e sull’estremo capo
Del ripercosso chiodo la propaga
Sì, che tutta ristretta in breve cerchio
A un tempo solo la contraria parte
Spinge del chiodo a vincer la restía
15Legnosa fibra, e per segreto foro
A penetrarne l’intimo midollo
In cui resta confitto. Alla fatica
Ingrata o vana, dolorosa o lenta
Oh! qual succede facile e spedita
20E di sicuro effetto opra benigna,
Quanto più l’uom, che a dominare è nato,
Per lo spirto immortale onde s’informa,
Sulle create cose, al suo pensiero
Soggetta rende la materia inerte,
25Di cui trionfa con vittoria degna.
Un dì per monti dirupati e valli
Profonde a passo vacillante e lento
Di loco in loco la gravosa soma
Sulle spalle recava, invidia forse
30Alle belve portando ancor non dome.
Ma non sì tosto la caligin densa
Dalla torpida mente si dirada,
Che sforza a sopportar l’ignoto pondo
Le scapestrate belve, a cui pon modo,
35Legge e governo della sferza al fischio,
All’allentare o stringere del morso,
Al pungere dell’asta, al mite cenno
Od al rigido colpo della verga.
Fra le balze scoscese e gl’irti dumi,
40Un novello sentiero apre ed appiana,
In cui l’orma più libera si stampa
O si strascina men tardo e pesante
Il carco imposto alle conteste travi;
Che a più rapido corso e più leggiero
45Colle fervide rote indi sospinge
Finchè l’ali al volar quasi lor presti
Col premuto vapor che cento e cento
Poderosi cavalli indietro lascia
Dalla stanchezza affranti e dalla fame.
50Vedi quel campo, che di bionda mèsse
Ora sorride e di benigne piante
Tutto s’allegra? Fu d’ispide spine,
Di stagnanti acque e d’orride boscaglie
Ingombro tutto, e per malvagi effluvi
55E velenose serpi infame e tristo.
Colla potenza delle cinque dita
Mai non avreste, o deboli mortali,
Diboscato il terren, rotte le glebe,
E le fetide e morte onde converse
60In limpido corrente e chiaro rivo.
Ma caddero i vetusti arbori a terra
Ai colpi della scure, e il seno avaro
Schiuse la terra ed i fecondi semi
Accolse e propagò, quando la marra
65Appresero a trattare i padri nostri,
Ed a condurre pel diritto solco,
Coll’aggiogato tardo e lento bue,
L’aratro che del vomere guernito
Fende e rovescia le indurate zolle,
70Che l’erpice corregge, appiana e trita.
Dal vento mosse ondeggiano le spiche,
Che ad una ad una cogliere, e dal guscio
Trarne le occulte biade e dalle ree
Le buone sceverare invan presumi,
75Se al mietere, al trebbiare, al cerner manchi
L’adunca falce e la coreggia mobile,
Che delle opposte vette il capo lega,
E l’accerchiato vaglio a cui la pelle
Da cento punte è traforata intorno.
80Le raccolte, sbattute e monde biade
Alla fremente macina confidi,
Che in parti minutissime le versa
Nell’agitato e querulo buratto,
Onde cernito dalla rozza crusca
85Esce l’eletto fior che in bianco pane,
Già dell’acqua del lievito e del foco
Le varïate prove al fine addotte,
Si volge a ristorare il vital succo
Che per le vene rosseggiando scorre.
90La macina scabrosa attorno gira
Quasi trastullo al ventilar dell’aura,
O all’urto di cadente onda sonora.
Forse rimpiangerai la prisca etade
E degli schiavi l’improba fatica,
95Novelli bruti a volgere dannati
Col braccio scarno la mola petrosa
Stritolando le biade inaridite,
Onde una scarsa e livida focaccia,
Che di lungo sudore ebbero molti
100E di crudeli lagrime bagnata,
Alla mensa di pochi era mal presta?
Ora, cessato il doloroso strazio
Delle turbe infelici, all’aure e all’onde
Quelle incalzando le gonfiate vele,
105Queste spingendo le rotanti pinne,
Con volubile gioco in poco d’ora
A servigio comun di compier dato
È l’opra, a cui di mille e mille schiavi
Vano sarebbe il travagliare eterno.
110Forse dirai, che il garrulo carretto,
Il vomere, la falce, il coreggiato,
Il vaglio irrequïeto e la focosa
Macina fûro alle smarrite genti
Quasi presagio di feral cometa?
115Ma delle nove più soavi e care,
Di frutti salutevoli feconde,
Industri cure che la nova etade
Produsse e migliorò, duolsi talora
E mormora colui, ch’entro la cerchia
120Del momento che fugge il guardo serra.
In preda getta alle voraci fiamme
I rusticali arnesi, e la deserta
Squallida gleba a sè tutte richiami
Le braccia alle fabbrili arti devote.
125Indi avara mercè rende alle voglie
Dell’affannosa turba, che allo stremo
Per lo stremato pasto si riduce.
Ma le ridona i rusticali arnesi;
E parte intende alla ritrosa zolla,
130E parte alle fabbrili arti ritorna.
Echeggia il suon della percossa incudine,
S’attizza il foco al mormorar del mantice,
Stride la sega, la tagliente forbice
Al cardo, al fuso, alle alternate calcole
135Il vello manda, e dal serrato pettine
Esce il drappo gentile onde ti vesti.
Mentre l’uno la spola agita o infila
L’attortigliato spago entro la cruna,
O i sovrapposti ciottoli rannoda
140Colla inforzata calce, o il negro feltro
In cucuzzolo volge e lo circonda
Di piccole e soggette ali, od acconcia
Alle scarpe le suola ed il tomaio;
Altri le tele e i marmi avviva, o sposa
145A morte corde armonici concenti,
O di natura l’alte meraviglie
Indaga e mostra, o la ragion riposta
Onde con vario di fortuna metro
Or la sorte dei popoli s’innalza,
150Or nel fondo precipita. L’arcano
Ordine delle cose in parte vedi
A te svelato dall’eterno giro
Delle umane vicende. A grado a grado
Erranti e ignudi la ferina usanza
155Lasciammo, e in nova securtà di stato
Addotti fummo liberi ed istrutti
Di molto vero agli avi ignoto, e ignari
Del molto, che i tardissimi nipoti
Delle scïenze ed arti nostre eredi
160Apprenderanno. Dell’umana razza
Nel processo dei secoli la vita
Si misura, si atteggia e si trasforma,
Anzi che al breve e rapido baleno
D’una gente che all’altra il passo cede.
165Alla inventrice mente de’ mortali,
Che novi ordigni a novi usi ministra
E non paga del bene al meglio tende,
Chi presume segnar l’ultima meta
Che per volger di tempo unqua non varchi?
170Prima il sole fermar potrai col dito,
Che l’intelletto immobile si arresti
Entro la riga che la tua bacchetta,
Quasi magica fosse, incider tenta.
Ma tu mi guardi disdegnoso, e in questa
175Sentenza lamentevole prorompi:
O maledetto quattro volte il nome
Di lui che primo colla ingorda voglia
Le inanimate macchine costrinse
A compier l’opra, che di cento e cento
180Artigianelli poveri e felici
Era sostegno ed unica speranza.
A lor che giova del guadagno privi
Il menomato prezzo della merce,
Ch’oltre il bisogno in cumuli crescendo
185Giace negletta, o fra le ardenti gare
Corre a tentar la mobile fortuna
Dell’infido mercato? E intanto lascia
Sotto le vôlte affumicate e luride
Per meschino salario affaticarsi
190Mesta e confusa, smemorata e bieca
Una livida turba, a cui l’usata
Ora, scoccando invan, l’ora ricorda
Del riposare intorno a picciol desco
Golia famiglia povera e deserta?
195Oh! come spesso al romoroso fremito
Dell’officina, che le inchieste avanza
Coll’improvvida offerta, un improvviso
Silenzio melanconico succede,
A cui talora il disperato grido
200Della turba famelica contrasta;
Mentre di porta in porta erra chiedendo
Lavoro e pane, a disfidar parata
In battaglie terribili la morte.
Il caldo immaginar deh! non t’inganni;
205E l’intima cagion de’ mali nostri
Non confonder col loco, il tempo e il modo,
Onde per la malefica semenza
Frutto si colga avvelenato e reo.
Agita e scuoti l’onda cristallina,
210E intatta serba la natía purezza;
Ma un sasso getta nel torpido stagno,
E dal fangoso fondo in alto sale
La melma che ne intorbida e ne oscura
Tutta la faccia tremolante e rotta.
215Alle innocenti macchine perdoni
L’irato dardo, che a più giusto segno
S’indrizza allora che scoccando vola
A rovesciar gl’improvidi ritegni
Opposti al raggio che le cieche menti
220Illumina, rischiara e del lor meglio
Accorte rende; alle diverse prove,
Che seco porta l’instancabil ala
Del tempo, preparandole con vario
Di studi, di presidii e di compensi
225Ordine sì, che di consiglio prive
E incerte del cammin più non sien colte
Dall’ala inesorabile del tempo.
Colle fata cozzare invano speri;
E delle fata è provvido decreto,
230Che abbandonato l’uomo alla balía
Degli elementi, onde la terra e il mare
Ed il cielo s’impregna, a poco a poco
La possanza mirabile ne scopra,
Ed all’imperio suo la sottometta;
235Apprendendole a far ciò che per esso
Impossibile fôra, o grave troppo
E modesto ed acerbo; e per lung’ora
Lo toglierebbe a più gentili cure,
Ed a più belle ed onorate imprese.
240Dai più semplici arnesi e più negletti
Ai più stupendi e nobili congegni
Tutti fanno quel vero manifesto,
Onde tu movi querimonie eterne,
E altri più saggio ne ringrazia Iddio.
245Vedi quel masso enorme a cui di dieci
E dieci il braccio a smuovere non valse?
Tu premi il capo di frapposta stanga,
E solo basti a sollevarlo, e basti
Coll’aiuto di canapo possente,
250Avvolto intorno all’aggirato fuso,
A trarlo in alto e incoronar la cima
Delle torri superbe. Il minaccioso
Maglio, che piomba a conficcar le antenne
Sotto i profondi vortici del fiume,
255Quai ci risparmia inutili conati,
Ed arreca servigio ed opra compie!
L’acqua, che per nativa indole tende
Sempre alla china, con opposto verso
Ascende là dove l’accorta tromba
260Colla dischiusa valvula l’appella.
Ma tu riprendi: — No, queste non sono,
Queste non son le macchine proterve
Ch’io pavento e condanno. Al mio dilemma
Bada e risolvi. O mal l’opra risponde
265All’uopo, e giova il migliorato ordigno
Che alla forza de’ muscoli supplisca;
Od al bisogno l’opra si ragguaglia,
E l’artificio tuo rende soverchia
L’arte che l’uom con lungo studio apprese,
270E ne rimane attonito e digiuno,
Le inerti braccia al petto incrocicchiando. —
Al tuo dilemma si spezzâr le corna
Più d’una volta. Dei bisogni umani
La natura ed il grado si trasmuta
275Di tempo in tempo, e in cerchio ampio si estende;
Indi pur varia degli umani ingegni
Lo sforzo, e la faccenda si dilata.
Di novelle propaggini la nostra
Schiatta d’intorno fecondata cresce;
280E maggiore di numero la odierna
Plebe, di cibo, vestimenta e stanza
Meglio si acconcia della plebe antica,
Di numero minor. Ma non siam tutti
Lieti di stanza, vestimenta e cibo;
285E il cor ne piange in rimirar l’osceno
Spettacolo dell’orda vagabonda,
Che mal si pasce e peggio si ricopre,
Ed ha per letto un umido giaciglio
In tenebrosa tana. All’uopo manca
290L’opra; ed il frutto, che da un lato avanza,
Non lamentare, ma dell’altro adempi
Lato il difetto sì che fra lor nasca
Il desïato cambio, a cui materia
Gli accelerati metodi daranno,
295Moltiplicando le prodotte cose
E nove suscitando arti e fatiche.
Che non avvenne allor, se le passate
Memorie rïandar lecito fia,
Quando del pigro e tardo amanuense
300L’arte cedette alla novella forma,
Che per le punte del metallo infuso
Con ordine disposte e dal cilindro
Negro percorse in piccolo telaio,
Della pagina opposta indi la faccia
305Fra gl’iterati e stretti abbracciamenti
Tutta lasciando del lor bacio impressa,
Velocissimamente in mille parti
Del pensiero l’imagine propaga?
Forse (o m’inganno) un flebile lamento
310Attorno si levò quale si ascolta
Oggi dal labbro tuo. Misere genti,
Che al lume della pallida lucerna
Fin qui vegliaste nelle lunghe notti,
A verbo a verbo trascrivendo i segni
315Nei polverosi codici vergati,
Ecco sbucata dal profondo abisso
Una larva terribile che fura
A voi l’usato e certo pane, i vostri
Mal impugnati calami spezzando.
320Ma delle genti misere, che fanno
Come l’onda che fugge e più non torna,
È bella la pietà che ti scolora
E bagna il volto di soavi stille.
Se ad esse per salir porgi la mano
325Degna lode ne avrai; ma quando incontro
Al carro trionfal, che non si arresta
E stritola per via le opposte turbe,
Della crescente civiltà la stendi,
Tronca o pesta rimane, e nullo arrechi
330Scudo e conforto alle commosse schiere.
Ai pochi, che piegaro il dorso in arco
Ricopiando le pagine vetuste
A servigio di pochi e a prezzo avaro,
I molti subentrâr, che a larghi rivi
335Spargono intorno il prezïoso fiume,
Che a tutti ristorar l’aride labbra
Puote di salutifera bevanda.
Più che in altra stagion fossero svolte
Rancide pergamene, ora costretti
340Gemono torchi, e al torcolier fann’ala
Di scrittori, di proti e di ministri
Schiere diverse. Chi pesta e ripesta
Entro la pila il lurido cenciame,
E in foglie sottilissime converso
345Gli offre la carta come neve bianca.
Altri il legno trasforma, il ferro, il piombo
Nei vari tipi, che raccolti in vario
Scompartimento attendono la prova
Dello strettoio. L’un piega, e trapassa
350Colla punta dell’ago, e insiem congiunge
I disciolti quaderni. Altri i volumi
Serrati e snelli del forbito cuoio
Veste, e filetta con leggiadri fregi.
Di chi merca non parlo, e delle cure
355Onde più che la zazzera del libro
Il concetto si taglia; e a voi rivolgo
Un solo detto, a voi, che gli scaffali
Mal sofferenti dell’intatto ingombro
Vantar godete con cervella vuote.
360A voi, che il leggicchiare ite alternando
Collo sbadiglio, infin che il noto sonno
Vi chiuda gli occhi dell’aprirsi indegni.
A voi, che osate di sedere a scranna,
Agli allocchi le lucciole vendendo
365Poichè spremeste la vitale essenza
Di effimeri foglietti e di libercoli,
Di cataloghi, d’indici e di tali
Altre delizie, che del vostro nulla
Eterno sono la delizia eterna.
370Ma il dir che giova? Un facile cammino
È dischiuso per voi, che alla dottrina
Ardua dei padri con viltà superba
Rivolgete le spalle, e di voi stessi
Orme lasciate di vergogna inscritte.
375Ma delle sparse fila un solo intreccio
Ormai si formi. All’apparir de’ novi
Strumenti novo alla civil famiglia
Dono si porge, che a minor fatica,
Dall’alte parti all’infime cosparso,
380Il diletto ne accresce e la possanza.
Le risparmiate forze in nova pugna,
Che nove genti a trionfare invita,
Emulando si volgono; e compiuta
L’industre gara con vittoria certa,
385Dalla presente etade alla futura
Integro passa il liberal conquisto.
La schiera intanto a maneggiare avvezza
Arnesi fatti dall’usanza vieti,
Se improvvida sprezzò l’annunzio amico
390Dello scoppio vicin, quasi rimane
D’un improvviso fulmine percossa.
Finchè dallo stupor vinta balena,
Tu la sorreggi, ed a toccar l’aiuta
Per l’ignoto sentier la dubbia meta.
395Colla barchetta povera e sdruscita
I passeggieri col batter del remo
Lentamente conduci ad uno ad uno
Ad afferrar la desïata sponda.
Oh! quanto tarda all’un stringere al seno
400Il fido amico e il suo dolce parente;
E quanto all’altro di lontane terre
Le dovizie cercar, l’arti, i costumi.
Ma sulle corna del superbo fiume
Un ponte inarca spazïando il dorso;
405Ed allor tutti accorrono ad un tempo,
Ed han già il piede sulla opposta riva.
O battelliere, se la vecchia barca
Non pieghi altrove, ti morrai di fame.
Forse t’incresce abbandonare il lido
410Che ti ricorda i fanciulleschi giochi
E le adulte speranze, ahi! troppo presto
Dileguate coll’onde, in cui solevi
Or le reti calare ed or le membra
Vigorose lanciare ad agil nuoto.
415Io ti compiango. Fra perpetue lotte
Si consuma quaggiù la vita grama,
E il sagrifizio al ben si atterga, come
Per lo peccato della madre antica
Il parto dalle doglie si accompagna.
420A te sia pace. Chi saltare in aria
Veder vorrebbe l’odïato ponte,
D’una mentita carità si pasce
Pel battelliere, ed a verace offesa
I passeggieri e i posteri condanna.