Scientia - Vol. X/L'opera di J. H. van 't Hoff

Giuseppe Bruni

L’opera di J. H. van ’t Hoff ../Les progrès de la culture des fleurs et leur importance pour les théories transformistes IncludiIntestazione 7 gennaio 2023 100% Scienze

Les progrès de la culture des fleurs et leur importance pour les théories transformistes
[p. 55 modifica]

L’OPERA DI J. H. VAN ’T HOFF



Jacopo Enrico van ’t Hoff nacque il 30 agosto 1852 a Rotterdam, dove suo padre esercitava, ancora non molti anni fa, la professione di medico. I suoi antenati ricoprivano da secoli la carica di borgomastro del piccolo villaggio de Groote Lindt presso Rotterdam. Egli discendeva dunque da una delle antiche famiglie di quella austera e forte borghesia olandese, che i quadri di tanti pittori ci mostrano adunata, volta a volta, nei civici consigli, nelle dotte assemblee o nelle compagnie armate a difesa della patria. E di questa forte razza riproduceva nella fisonomia i tratti esteriori, come se ne ritrovavano nel suo carattere le migliori doti morali.

L’inizio della sua carriera scolastica fu modesto: seguì le scuole elementari in un piccolo villaggio e percorse poi gli studi secondarî nella sua città natale. Non sembra che i suoi parenti avessero una grande fiducia nel suo avvenire; certo si è che essi non aderirono subito al suo desiderio di seguire gli studî della scienza pura a cui si sentiva portato; egli dovette anzitutto iscriversi alla scuola politecnica di Delft dove dopo due anni sostenne l’esame finale ed ottenne il diploma di tecnologo.

Accontentata la famiglia coll’ottenimento di un diploma professionale, ne ottenne finalmente l’agognato permesso di dedicarsi agli studî scientifici e nel 1871 si iscrisse alla Università di Leida, la più antica e famosa sede di studî dei Paesi Bassi. Qui proseguì lo studio della matematica e della [p. 56 modifica]fisica, ma più specialmente si dedicò alla chimica. Nel 1873 si recò a Bonn e lavorò per alcuni mesi nel laboratorio di Kekulé, dove eseguì anche il suo primo lavoro sperimentale. Vedremo poi quale influenza doveva avere il suo soggiorno a Bonn sull’orientamento delle sue idee. Più breve tempo rimase a Parigi, dove frequentò il laboratorio di Wurtz: vedremo ben tosto come più delle idee di quest’ultimo debbono aver fatto una impressione profonda su lui i lavori di Pasteur.

Ritornato in patria, riprese gli studî a Leida e nel settembre 1874 pubblicò una breve nota in olandese in cui erano esposte in forma succinta, ma in modo già completo, tutte le parti essenziali della teoria stereochimica. Questa pubblicazione, di cui esamineremo in seguito le vicende, precedeva di due mesi quella analoga del Le Bel. Il giovane ventiduenne non si arrischiò a presentare questo suo lavoro come tesi di laurea, ma preferì affidarsi ad una modesta dissertazione sugli acidi cianacetico e malonico. Con questa conseguì la laurea il 22 dicembre 1874.

L’anno successivo ci mostra il neo-dottore in cerca di una occupazione conforme ai suoi gusti e che gli permettesse sopratutto di continuare i suoi studi prediletti. Un primo tentativo di ottenere un modesto posto di insegnante in una scuola tecnica a Breda non ebbe successo. È divertente e commovente insieme il leggere una lettera del direttore della scuola al ministero della istruzione, nella quale egli descrive il giovanetto dall’aria stravolta, dall’aspetto di inventore, distratto, tutto assorto nel suo gran sogno, e che non vedeva che i suoi atomi e le loro valenze dirette nello spazio; egli conclude dicendo che il giudizio unanime suo e dei colleghi della scuola era che il van ’t Hoff non era l’uomo adatto per un simile posto. Giudizio che quel rispettabile funzionario non immaginava certo quanto ed in che senso fosse esatto.

Finalmente nel 1876 fu nominato docente nella scuola veterinaria di Utrecht, dove rimase però poco più di un anno, perchè già alla fine dell’anno successivo fu chiamato come lettore alla nuova Università che la città di Amsterdam aveva allora fondato. Egli si guadagnò ben presto la stima e la considerazione dei superiori, poichè nel 1878 fu nominato professore di chimica, mineralogia e geologia. In questo posto rimase per ben 17 anni, fino cioè al 1895. Riempiono questo periodo, il più importante della sua vita scientifica, i grandi lavori [p. 57 modifica]sugli equilibri chimici e sulla teoria delle soluzioni. Fu quello il periodo della straordinaria fioritura della chimica fisica; della nuova scuola, che ebbe quale propagandista insuperabile Guglielmo Ostwald, il van ’t Hoff fu tosto riconosciuto universalmente come il rappresentante più geniale e più autorevole.

La sua fama ingigantì rapidamente: nel 1887 la Università di Lipsia lo invitò ad assumere una cattedra, ma egli rifiutò: nel 1889 ad appena 37 anni, fu nominato socio onorario della Società chimica tedesca, onore agognato dagli scienziati più grandi. Finalmente nel 1896 la Università di Berlino lo chiamò a sè in una forma altrettanto speciale, quanto onorifica; egli fu nominato professore ordinario onorario, senza obbligo di insegnamento: l’Accademia delle Scienze lo nominò suo membro effettivo e gli fornì i mezzi per l’impianto di un laboratorio di ricerche. Qui per 10 anni egli si dedicò alla ricerca delle condizioni di formazione dei depositi salini di Stassfurt, primo e grandioso tentativo di applicazione delle teorie fisico-chimiche allo studio dei fenomeni geologici. Frattanto nel 1901 l’Accademia delle Scienze di Stoccolma diede forma concreta al plebiscito universale dei chimici, conferendogli il primo premio Nöbel per la chimica.

Nell’autunno del 1906 si manifestarono in lui i primi sintomi del male terribile che doveva poi ucciderlo; dopo un soggiorno in un sanatorio parve guarito e chi scrive, trovandosi con lui nell’autunno del 1907 potè avere l’illusione di rivedere il maestro nelle floride condizioni di un tempo. Ma la ricaduta non si fece aspettare e finalmente il primo marzo di quest’anno egli chiuse in Steglitz presso Berlino la sua vita, troppo breve se si considera il numero degli anni trascorsi, semplice se si guarda alla tranquillità degli avvenimenti esteriori, grande come pochissime altre se si riflette alla enorme somma di lavoro intellettuale che essa rappresenta.

Tracciato così nelle sue grandi linee uno schizzo dello andamento esteriore della vita del grande scienziato, dobbiamo addentrarci nell’esame della sua opera. Essa, prescindendo dalle primissime ricerche di chimica organica, da pochi [p. 58 modifica]lavori di carattere frammentario, e dalle pubblicazioni riassuntive e di occasione, si può dividere in quattro grandi capitoli: la stereochimica, gli studî sugli equilibri chimici, la teoria delle soluzioni diluite e le ricerche sui depositi salini di Stassfurt. Il secondo e il terzo di questi argomenti si compenetrano nel loro svolgimento cronologico ed hanno tra loro molteplici relazioni logiche.

Il periodo creativo della teoria stereochimica è oltremodo breve: non dura più di tre anni: dal 1874 al 1877.

La memoria olandese del 1874 contiene già nelle sue 14 pagine tutto ciò che è sostanziale. Egli osserva anzitutto che tutte le sostanze allora note, che allo stato liquido e disciolto deviano il piano della luce polarizzata, contengono nella loro formola almeno un atomo di carbonio asimmetrico, ossia legato a quattro atomi o gruppi tutti diversi fra loro. Egli, ricercando la causa di questa relazione, osserva che se si immaginano le quattro valenze dell’atomo di carbonio dirette verso i vertici di un tetraedro di cui l’atomo stesso formi il centro, la presenza di un tale atomo asimmetrico è causa necessaria e sufficiente della esistenza di due figure spaziali che sono una l’immagine speculare dell’altra; da ciò la presenza di due isomeri, l’uno destrogiro, l’altro levogiro e di un composto inattivo risultante dalla unione dei due e scindibile in essi. L’esistenza di tali isomeri e la possibilità di separarli erano state dimostrate quattordici anni prima, a proposito degli acidi tartarici e racemico, dai primi lavori in cui si mostrò il genio di Luigi Pasteur.

In questa parte le considerazioni svolte due mesi dopo dal Le Bel coincidono, salva la forma, con quelle del giovane olandese. Ma in un punto importante questi si spinse più innanzi: egli previde che nei composti non saturi in cui due atomi di carbonio connessi da un doppio legame, hanno le loro altre due valenze unite ad altri due atomi o gruppi diversi fra loro, possono prender origine due isomeri nello spazio, non antipodi e pertanto non otticamente attivi: isomeria i cui prototipi si hanno negli acidi fumarico e maleico.

Se si vuol ricercare la genesi della idea stereochimica in van ’t Hoff, si deve anzitutto riconoscere la influenza pre[p. 59 modifica]ponderante esercitata sul suo spirito dalle dottrine di Kekulé, influenza accresciutasi durante il suo soggiorno a Bonn. Kekulé colla sua dottrina della valenza e in particolare della tetravalenza del carbonio, collo sviluppo dato alla strutturistica che raggiunse il suo apogeo colla enunciazione della teoria della costituzione dei composti aromatici, aveva creato nella città universitaria renana il maggior centro di irradiazione delle idee nuove in chimica organica e numerosi e brillanti allievi si erano raccolti intorno a lui.

Pochi anni prima ne era partito per l’Italia un giovane chimico tedesco, Guglielmo Koerner, che in quello stesso anno doveva pubblicare le sue classiche ricerche sulla determinazione del luogo chimico nelle sostanze aromatiche, altra geniale estensione della teoria kekulejana. È interessante la coincidenza. Il modello tetraedrico di van ’t Hoff era identico a quello usato già dal Kekulé nelle sue dimostrazioni. In un caso come nell’altro Kekulé aveva dato il modello, ma gli era mancata la fiducia di poterlo legittimamente usare in tutte le deduzioni e rappresentazioni che da esso si potevano ottenere.

Naturalmente la innovazione vanthoffiana era ben più radicalmente rivoluzionaria, perchè per la prima volta le formole di struttura non indicano più solo l’ordine in cui gli atomi sono collegati fra loro per le valenze, ma vengono necessariamente a indicarci il modo con cui sono distribuiti nello spazio. Già Pasteur, dopo aver studiato a fondo la natura di questi singolari isomeri, identici in tutte le proprietà fìsiche e chimiche, salvochè nel potere rotatorio uguale in valore numerico, ma di segno contrario e nelle forme dei cristalli di cui l’uno è l’immagine speculare dell’altro, aveva con sicuro intuito additato quale causa di questa asimmetria, che non scompare come nel quarzo collo sparire della forma cristallina, ma permane allo stato liquido e disciolto, in una asimmetria molecolare e aveva preveduto che gli atomi dovevano esser disposti nelle loro molecole in modo da dar due figure che stessero fra loro come i cristalli corrispondenti, e per esempio come un elica destrorsa e una sinistrorsa.

Ma Pasteur mancando del modello adatto non poteva giunger alla soluzione completa del problema. Questo doveva riuscire a van ’t Hoff; egli applicò il modello kekulejano alla ricerca della causa della asimmetria molecolare preveduta da [p. 60 modifica]Pasteur e, dopo una attenta disamina del già abbondante materiale di fatti, essa gli apparve in un lampo nella presenza in tutti i composti otticamente attivi di un atomo di carbonio asimmetrico. Se si ricerca la origine delle differenze fra le idee di van ’t Hoff e di Le Bel e della minor completezza di queste ultime, non si tarda a riconoscerla nel fatto che le dottrine della valenza e della struttura non avevano ancora trovato in Francia l’accoglienza e la diffusione che meritavano.

Le speculazioni di van ’t Hoff e di Le Bel furono da principio accolte dal silenzio e dalla indifferenza generale. Il giovane olandese già nel 1875, mentre si trovava ancora alle prese colle difficoltà materiali per la ricerca di un’occupazione, pubblicò una traduzione francese della sua prima memoria, col titolo: La chimie dans l’espace.

La prima prova del fuoco fu sostenuta dalla nuova teoria in una seduta della Società chimica di Parigi nel 1875 in cui van ’t Hoff aveva fatto esporre in sunto le sue idee. Marcellino Berthelot, giovane ancora ma già autorevole per lavori eminenti in vari campi della chimica, sorse all’attacco. Egli dichiarò che, senza voler negare a priori alle formule nello spazio proposte da van ’t Hoff e da Le Bel qualche vantaggio di fronte alle solite formole di struttura nel piano, non si poteva attendere alcun risultato dalle nuove speculazioni, se prima non si imparavano a conoscere le vibrazioni degli atomi nell’interno della molecola. Egli mosse più tardi altre obbiezioni di indole più positiva, riferentesi per esempio alla esistenza di sostanze otticamente attive senza atomi di carbonio asimmetrico. A queste risposero van ’t Hoff, Le Bel ed altri sperimentatori, dimostrando che queste pretese contraddizioni derivavano semplicemente da errori di osservazione.

Frattanto un passo importante si era compiuto per la divulgazione delle nuove teorie. Un noto chimico organico tedesco, Wislicenus, professore a Würzburg, che alcuni anni prima aveva riconosciuto la insufficienza delle formole di struttura per spiegare certi casi di isomeria, venuto a conoscenza della memoria fondamentale di van ’t Hoff, ne fu colpito, ne comprese tutta l’importanza, ne fece fare dal suo assistente Herrmann una traduzione tedesca, che munita di una sua prefazione, fu pubblicata nel 1877 col titolo: Die Lagerung der Atome in Raume. Questa pubblicazione che diede la più [p. 61 modifica]ampia notorietà alle speculazioni del van ’t Hoff, ebbe per effetto immediato di risvegliare nuove e vivaci contraddizioni. Ermanno Kolbe, già vecchio ed illustre, uno degli uomini che più avevano contribuito allo sviluppo sperimentale della chimica organica e uno dei chimici più influenti del tempo, ben noto come critico acuto e polemista violento, che già nella teoria strutturistica vedeva un abuso di ipotesi ingiustificate e pericolose, diede tosto fiato ai suoi registri più acuti e pubblicò una nota col titolo Segni dei tempi, di cui può esser interessante riportar qualche brano.

«Io ho già additato la causa dell’odierno regresso della ricerca chimica in Germania nella mancanza di soda cultura generale. Ne è una conseguenza il rinascere della mala pianta di una filosofia naturale, apparentemente dotta e geniale, ma in realtà triviale e senza spirito, che cacciata 50 anni or sono dalla ricerca esatta, viene ora scovata nuovamente da pseudoscienziati, e simile ad una cortigiana, travestita alla moda e imbellettata di fresco, cerca di entrare di contrabbando nella buona società a cui non appartiene.

«Che se ciò sembri esagerato, si legga lo scritto di un sig. van ’t Hoff, ripieno di cattivi giuochi di fantasia, che io preferirei di ignorare, se un chimico distinto non gli avesse accordata la sua protezione. Questo dottor van ’t Hoff, impiegato ad una scuola veterinaria di Utrecht, non trova pare alcun gusto alla ricerca chimica esatta. Egli ha trovato più comodo inforcare un Pegaso da veterinaria, ed annunziarci come nel suo temerario volo attraverso al Parnasso chimico, gli siano apparsi disposti nello spazio gli atomi.

«Un tal modo di trattare le questioni scientifiche, non molto lontano dalla credenza nelle streghe e negli spiriti, è ritenuto per lecito da un chimico finora serio, come il signor Wislicenus. Egli dichiara con ciò di esser uscito dalle file degli scienziati esatti e di esser entrato nel novero di quei filosofi naturali di poca buona memoria, che solo un sottile medium separa ormai dagli spiritisti».

A questa filippica rispose il nostro nel modo più sobrio e più sereno. Ad una nota pubblicata nel 1877 egli premette poche parole dignitose, ma non prive di efficacia, e nell’ottobre del 1878 egli inizia la sua prolusione come professore ad Amsterdam, colla lettura testuale dell’attacco di Kolbe, ma ne prende occasione, non ad una polemica diretta, ma ad una [p. 62 modifica]serena rivendicazione della importanza e della legittimità dell’intervento della fantasia creatrice nelle scienze esatte.

Ma anche la requisitoria di Kolbe non ebbe maggior efficacia delle obbiezioni di Berthelot per trattenere il cammino della stereochimica verso il successo. Hans Landolt, il miglior conoscitore e sperimentatore nel campo della ottica chimica e della polarimetria, riconobbe che le nuove vedute rispondevano ai fatti sperimentali e il nostro Piutti fu uno dei primi a portare colle sue ricerche sulle asparagine stereoisomere, nuovi fatti in appoggio alle nuove teorie. Più importanti ancora furono alcuni gruppi di ricerche eseguite in Germania dopo il 1885. Oltre a quelle del Wislicenus sulle stereoisomerie dei composti non saturi, sono da ricordarsi quelle di A. von Baeyer sulle stereoisomerie dei composti idroaromatici e sulla stereochimica dei composti ciclici in genere.

Ma il più grande trionfo della nuova dottrina si ebbe quando Emilio Fischer, basandosi su di essa, potè primo risolvere il grande problema della costituzione degli zuccheri. Questa selva selvaggia, che fino allora aveva sfidato gli sforzi dei chimici, fu subito chiarita allorchè un così valente sperimentatore ebbe nelle mani il filo d’Arianna che solo poteva guidarlo alla meta.

La storia posteriore non è che un seguito di nuove conquiste. V. Meyer e Hantzsch e Werner mostrarono che in composti azotati non saturi, come le ossime, potevano intervenire isomerie del tipo cis e trans: nacque così la stereochimica dell’azoto. Ricerche più recenti ancora fra cui primeggiano quelle del Pope, hanno dimostrato che quando un atomo di un qualunque elemento tetravalente diventa asimmetrico, interviene l’attività ottica e la esistenza di due stereoisomeri. Si ebbero così composti otticamente attivi per un atomo asimmetrico di zolfo, di selenio, di stagno, di piombo. Anche atomi pentavalenti come quelli di azoto e di fosforo, possono dar luogo a formazione di stereomeri, come mostrò per il primo Le Bel.

Oggi a 37 anni di distanza, possiamo dire che poche teorie hanno potuto celebrare simili trionfi. Non un solo fatto bene accertato esiste a tutt’oggi che non fosse già preveduto e contenuto, almeno in germe, nella prima memoria del 74.

E cade a questo punto in acconcio di aggiungere qualche parola per esaminare più da vicino il merito intrinseco e il grado di originalità dell’opera di van ’t Hoff e di Le Bel, sul [p. 63 modifica]qual punto non è raro udire o leggere affermazioni non soddisfacenti. Si dice talora che il merito dello scienziato olandese sta nell’avere ideato o introdotto il modello tetraedrico o nell’aver avuto per il primo la concezione della distribuzione spaziale degli atomi nella molecola.

Nulla di più errato, o almeno di più superficiale. Nel senso ora detto van ’t Hoff e Le Bel avevano avuto varî precursori.

Il modello tetraedrico era una conseguenza necessaria della concezione di Kekulé, ed egli stesso lo adoperava nella sua forma attuale, sia pure senza attribuirgli la portata che oggi gli diamo. E, come fu già detto, Wislicenus aveva affermata genericamente la necessità di ricorrere a configurazioni spaziali per spiegare certe isomerie. Ancora prima, nel 1869, Paterno aveva proposto di impiegare a tale scopo precisamente la disposizione tetraedrica. Non qui dunque risiede il merito di Le Bel e sopratutto di van ’t Hoff, ma bensì nell’avere avuto anzitutto l’idea geniale dell’atomo di carbonio asimmetrico, e nell’avere dopo un esame attento e rigoroso di tutti i fatti già noti, data subito alla teoria la sua forma definitiva, talchè si può dire di essa che nacque, come la classica Minerva, già armata dal cervello di Giove.

Ma nell’ulteriore sviluppo della dottrina da lui fondata, van ’t Hoff, a partire dal 1877, non prese più parte diretta e creativa. Bensì la seguì sempre con occhio attento e ne tracciò i progressi nelle successive edizioni dei suoi libri, tra i quali dobbiamo ricordare quello intitolato Dix années dans l’histoire d’une theorie, bel modello del come si possa trionfare con modestia.

Ma è tempo ormai di rifarsi al 1877, all’anno cioè in cui il nostro giovane eroe faceva il suo ingresso nella università di Amsterdam. Aveva esordito da tre anni, ne aveva 25, aveva fondato una disciplina che sarebbe bastata a mandarne il nome alla storia. Tutto l’immenso campo della chimica gli stava innanzi: il suo occhio non doveva mancare di scoprirvi nuove vie, che dovevano condurlo a trionfi anche maggiori.

Vi fu a questo punto un periodo di sosta nella sua produzione scientifica: forse dovuta alla perdita di tempo ne[p. 64 modifica]cessaria per adattarsi alle nuove condizioni di vita e di lavoro: certo per la massima parte al bisogno intellettuale di concentrarsi e di orientarsi, prima di rimettersi di nuovo in cammino. Comunque sia, certo è che egli per un periodo di sette anni, dal 1878 al 1884, non pubblicò nessuna memoria originale di qualche momento.

Pubblicò bensì nel 1881 un originalissimo libro Ansichten über die organische Chemie, oggi esaurito e quasi completamente sconosciuto, ma che ha una importanza notevole per seguire l’evoluzione del pensiero scientifico del nostro. Egli stesso ci illustra questa evoluzione in un discorso tenuto nel 1892 a Berlino, e di cui sarà più volte parola.

Egli fa notare che già i suoi primi lavori sull’atomo di carbonio asimmetrico debbono almeno per un verso, esser considerati come un tentativo di contribuire alla risoluzione di un problema, che gli parve fin da principio, ed è realmente, il problema fondamentale della chimica generale: scoprire le relazioni fra la costituzione chimica delle sostanze e le loro proprietà fisiche e chimiche.

Questo problema egli cercò di trattare in modo più generale e sistematico nel libro ora citato: senonchè gli apparve subito la grave lacuna esistente e che rendeva impossibile la prosecuzione razionale del suo vasto piano: questa lacuna è data dal carattere quasi esclusivamente qualitativo dei dati della chimica organica, per ciò che si riferisce al meccanismo delle reazioni in essa studiate.

La chimica organica, come del resto quasi tutta la inorganica, studia bensì quantitativamente i singoli composti in sè; ma quanto si riferisce ai processi per cui essi prendono origine e mutuamente si trasformano, alla influenza delle condizioni esterne ed interne, temperatura, pressione, concentrazione, stato di aggregazione, natura del mezzo, sull’andamento delle relazioni stesse, alle leggi secondo cui queste si compiono nel tempo, solo poche e vaghe indicazioni si possono avere. Basta leggere le memorie di chimica organica, e non solo di quel tempo, per convincersene: «si scalda per alcune ore, si concentra fortemente, si diluisce con alquanta acqua, si lascia in riposo per alcun tempo, la reazione è tumultuosa» queste e simili sono le espressioni che continuamente e quasi esclusivamente vi si incontrano.

Un solo capitolo si era sviluppato nel senso quantita[p. 65 modifica]tivo: quello della termochimica, ma la gran massa di dati raccolti non aveva in fondo condotto ai grandi risultati sperati e si erano in questo campo manifestati indirizzi non completamente rigorosi. Fuor di là solo poche reazioni seriali relative a certe proprietà, fonte più che altro di illusorie teorie e di conseguenti delusioni, e, germe ben più promettente, qualche sporadico caso di ricerche quantitative sulle velocità di reazione e sugli equilibri chimici.

Questo parve a van ’t Hoff il compito più immediato e più importante: colmare le grandi lacune esistenti e tentar di comporre in un corpo di dottrina le scarse e sparse nozioni finora possedute. In questo senso si pose subito al lavoro, sia teorico, sia sperimentale. I primi frutti delle sue ricerche furono esposti, non in singole memorie staccate, ma raccolti in modo armonico e comprensivo sotto forma di un libro, che col titolo Études de dynamique chimique vide la luce nel 1884. L’opera era già tutta impregnata dallo spirito che doveva d’ora innanzi informare tutta la produzione del van ’t Hoff.

L’autore tentava di applicare fin dove è possibile i metodi matematici e sopratutto i principii della termodinamica allo studio dei fenomeni chimici. L’idea in sè non era nuova; Clausius oltre 20 anni prima aveva accennato alle possibili applicazioni sopratutto del secondo principio, ma senza dare alcun esempio concreto. Esisteva già bensì l’opera di Willard Gibbs, ma giaceva ancora, colossale blocco granitico, sepolta negli atti di una oscura accademia americana ignota a tutti gli scienziati, certo a tutti i chimici. I soli tentativi di qualche importanza restavano quelli di Horstman e di Peslin e Moutier ai fenomeni di dissociazione.

Il lavoro di van ’t Hoff era di gran lunga più cospicuo e sistematico e poichè l’autore, da vero chimico, fa procedere di pari passo lo studio teorico e la verifica sperimentale, esso ebbe una influenza preponderante nel divulgare fra i chimici i metodi ed i principii di questo nuovo ramo della scienza.

Egli studia anzitutto le velocità di reazione studiando i più svariati tipi di processi, riconoscendo le leggi e ricercando la applicabilità dei metodi di questa cinetica chimica alla determinazione dell’ordine delle reazioni. Cerca nei modi più ingegnosi di ritrovare le leggi generali quando esse son mascherate da reazioni secondarie perturbatrici eliminando que[p. 66 modifica]ste ultime nell’esperienza o nel calcolo. Infine studia le velocità di reazione colla temperatura.

Di qui passa alla considerazione degli equilibri chimici, considerati come il risultato di due processi inversi e prima si occupa degli equilibri omogenei nei gas e nelle soluzioni. Particolare attenzione rivolge poi agli equilibri eterogenei e specialmente a quelli che egli chiama sistemi condensati, ossia sistemi in cui non intervengono sostanze di composizione variabile come gas o soluzioni. Egli riconosce che in tal caso, invece di aversi come negli altri sistemi uno spostamento continuo dell’equililibrio, si ha un punto di trasformazione, al disotto del quale è stabile l’uno e al disopra l’altro dei due sistemi. Punti di trasformazione erano già da tempo noti fra modificazioni polimorfiche di una stessa sostanza, come fra lo zolfo rombico e il monoclino, ma l’autore generalizza questo concetto e mostra che si può estenderlo alla trasformazione reciproca di isomeri, ed ai sistemi di più sostanze, come alla disidratazione dei sali idrati, alla formazione e scomposizione di sali doppi e racemati ecc.

Passando poi allo spostamento degli equilibrii col variare della temperatura, egli annuncia per la prima volta il cosidetto principio dell’equilibrio mobile, che egli formula così: «ogni equilibrio fra due stati diversi della materia, si sposta per un abbassamento di temperatura, nel senso del sistema la cui formazione sviluppa calore». Come è ben noto, questo principio fu poco dopo generalizzato da Le Chatelier, estendendolo non alle sole variazioni termiche ma a tutte le alterazioni delle condizioni esterne ed interne dell’equibrio (pressione, stato elettrico, concentrazione ecc.). Esso suona allora così: «ogni azione esteriore produce su un corpo, o su un sistema, un cambiamento il cui senso è tale che la resistenza opposta dal corpo o dal sistema alla azione esteriore aumenta». Questo principio conserva tutta la sua importanza, anche accanto al secondo principio della termodinamica, perchè quantunque esso non permetta che conclusioni qualitative, tuttavia esso si può impiegare con successo per orientarsi sul senso in cui si verificherà un certo processo, sopratutto in quei casi in cui non si può applicare l’apparato matematico della equazione di Clapeyron o di altri simili formulazioni del secondo principio. Esso poi nella sua forma semplice e generale ad un tempo rimane facilmente impresso, dandoci [p. 67 modifica]l’idea come di una facoltà di accomodazione della materia alle azioni esteriori.

Il van ’t Hoff, come fu già detto, lo enunciò solo per le variazioni termiche, e perciò ora qualche autore vorrebbe abbassare troppo il suo merito, ciò che appare del tutto ingiusto, poichè oltre al fatto della indiscutibile priorità, non si deve dimenticare che il caso da lui trattato è di gran lunga il più importante per la chimica; esso veniva poi a troncare una questione che da gran tempo occupava i chimici, poichè quello del senso in cui procede una reazione è, come si intende un problema di importanza fondamentale.

Come è ben noto, Thomsen aveva parecchi anni prima enunciata una regola a cui Berthelot aveva più tardi voluto conferire dignità di legge naturale: il cosidetto principio del massimo lavoro, secondo il quale dovrebbero avvenire spontaneamente e senza intervento di energie estranee, quelle reazioni, fra le varie possibili, che hanno luogo col maggiore sviluppo di calore. Ora questa regola, mentre si verifica praticamente per la maggior parte delle reazioni ordinarie della chimica comune, è posta in difetto da varî casi ben studiati di reazioni chimiche propriamente dette, e poi da intiere serie di processi, come quelli reversibili. Mentre Thomsen riconosceva il carattere empirico della sua regola, Berthelot cercava invece di salvare il suo principio con una serie di cavilli, basati sull’equivoco dato dall’uso di espressioni vaghe, come «avvenire spontaneamente» e «senza intervento di energie estranee». Ma invano; come osserva spietatamente il Duhem, per salvarsi esso deve porre fra le energie estranee anche il calore assorbito nei processi endotermici ed equivalere allora a questo enunciato: «ogni processo che non assorbe calore, ne sviluppa». Ossia per restar vero, esso deve «svanire in una ridicola tautologia».

Ora il principio di van ’t Hoff ci dà la chiave di queste contraddizioni: poichè un abbassamento di temperatura favorisce i processi che avvengono con svolgimento di calore, alle basse temperature debbono avvenire di preferenza le reazioni esotermiche. E siccome le condizioni ordinarie di temperatura del nostro ambiente e delle comuni operazioni chimiche rappresentano zone assai basse nella scala complessiva delle temperature possibili, è naturale che in esse si verifichi in prima approssimazione la regola di Thomsen. Il principio [p. 68 modifica]di Berthelot non diverrebbe rigorosamente vero che allo zero assoluto. Ma ad alte temperature prevalgono i processi endotermici, e chimici che vivessero abitualmente a 3000° potrebbero enunziare piuttosto un principio del minimo lavoro.

Il libro finisce con un capitolo dedicato allo studio della affinità chimica, limitatamente al caso della attrazione dell’acqua nei sali idrati e nelle soluzioni. Si trova qui un germe di cui vedremo subito sbocciare i frutti. Giudicando nell’assieme, possiamo dire che poche opere singole hanno portato simultaneamente alla luce tanti fatti nuovi e tante idee feconde di applicazioni.

Da questo momento l’opera di van ’t Hoff si biforca, per così dire: mentre egli prosegue, come proseguirà poi per tutto il resto della sua vita la ricerca sperimentale degli equilibri eterogenei e particolarmente dei sistemi condensati, dedica invece il meglio della sua attività nel campo teorico allo studio di un altro problema fondamentale: la teoria delle soluzioni diluite e la ricerca dello stato molecolare delle sostanze disciolte.

La teoria delle soluzioni è, almeno nelle sue linee generali, così nota oggi ad ogni persona anche mediocremente colta, che parrebbe superfluo il riandarla qui, sia pure per sommi capi; sibbene potrà essere interessante il considerarne la genesi, che è certo meno conosciuta. Tale genesi non sarebbe difficile rintracciare nelle opere del nostro, ma di più egli la espone chiaramente in un suo discorso tenuto alla Società Chimica di Berlino nel 1892 Wie die Theorie der Lösungen entstand.

L’origine deve ricercarsi in quegli stessi Studi di dinamica chimica di cui abbiamo discorso fin qui. Egli cerca di rendersi conto della affinità che trattiene l’acqua nelle soluzioni e negli idrati salini e, come già Mitscherlich, pensa di trovarne una misura nella diminuzione della tensione di vapore di questi sistemi in confronto dell’acqua pura; ma il valore assoluto di queste differenze gli sembra piccolo di fronte alla grandezza che egli aveva l’impressione dovessero avere anche le minime forze chimiche, e si mette allora la questione se questa attrazione dell’acqua non possa misurarsi in un modo più diretto. [p. 69 modifica]

Con questa domanda sulle labbra, racconta egli stesso, esce un giorno dal laboratorio e si incontra col suo collega De Vries; questi era proprio allora occupato in esperienze osmotiche e lo mette a giorno delle classiche ricerche di Pfeffer sulla misura diretta della pressione osmotica. Ecco così trovato l’anello che mancava. Egli confronta il processo di distillazione del vapor acqueo dall’acqua pura alla soluzione, per effetto della minor tensione di quest’ultima, col passaggio di acqua dal solvente puro alla soluzione attraverso alla parete semipermeabile, per effetto della pressione osmotica e riconosce il parallelismo dei due fenomeni.

Ma questo non basta. Egli aveva applicato agli equilibri nei gas una sua equazione, che risulta in fondo dalla combinazione di quella di Clapeyron colla legge di stato dei gas, e voleva ricercare se essa fosse applicabile anche alle soluzioni. Ora osserva che per mezzo di pareti semipermeabili e sostituendo la pressione osmotica alla gassosa, gli è possibile ripetere per le soluzioni i cicli e le modificazioni reversibili che lo avevano condotto a ricavare l’equazione per i gas.

Da ciò deriva la conseguenza necessaria che debbono valere per la pressione osmotica le leggi dei gas. Egli verifica i dati esistenti e trova che realmente, dalle misure di Pfeffer risultano verificate le leggi di Boyle e di Gay Lussac, e di conseguenza deve essere applicabile il principio di Avogadro. Soluzioni isotoniche debbono essere equimolecolari. Poichè dunque è applicabile alle soluzioni la legge di stato dei gas, egli calcola poi dalle misure di Pfeffer il valore della costante R e con grande sorpresa trova per questa un valore numerico sensibilmente uguale a quello che si ottiene per i gas: la pressione gassosa e la pressione osmotica esercitate da una data quantità di sostanza diluita in un determinato volume sono uguali.

A questo punto la luce è completa, l’analogia fra lo stato gassoso e quello di soluzione diluita è stabilita. Van ’t Hoff non tarda a chiarire le relazioni che legano la pressione osmotica colla diminuzione della tensione di vapore, coll’innalzamento del punto di ebollizione e coll’abbassamento del punto di congelamento delle soluzioni, e fa quindi rientrare quali casi speciali delle leggi sopra esposte le regole empiriche già trovate da Raoult. Sia le misure dirette della pressione osmotica, come le determinazioni tensimetriche, ebullioscopiche e [p. 70 modifica]crioscopiche, assai più esatte e comode ad eseguirsi, conducono quindi ad una determinazione delle grandezze molecolari delle sostanze disciolte. Le nostre cognizioni sullo stato molecolare dei corpi, limitate prima alle sostanze gassificabili, vengono ora estese a tutte le sostanze solubili. Quale rivoluzione abbia portato questa estensione in tutti i campi della chimica e delle scienze affini è troppo noto perchè sia d’uopo insistere su questo punto.

Questa teoria fu esposta la prima volta, già nella sua interezza, in tre memorie presentate contemporaneamente il 14 ottobre 1885 alla R. Accademia delle Scienze di Stoccolma e pubblicate sugli atti di questa nel successivo anno 1886.

In queste memorie esiste ancora una limitazione assai notevole: tutte le soluzioni acquose dei sali, degli acidi e delle basi forti fanno eccezione nel senso che esse danno delle pressioni osmotiche troppo alte, e nelle relative equazioni van ’t Hoff deve quindi introdurre un coefficiente i maggiore di 1.

L’apparente eccezione fu subito spiegata da un giovane fisico svedese, Svante Arrhenius, che tre anni prima aveva studiato con grande successo la conduttività elettrica delle soluzioni; poichè l’anomalia di cui fu detto è presentata da quelle soluzioni che posseggono conduttività elettrolitica e, coeteris paribus, è tanto maggiore quanto più grande è questa conduttività, egli suppone che gli elettroliti all’atto della soluzione, siano già scissi largamente nei loro ioni.

Nacque così la teoria della dissociazione elettrolitica che fu fin dall’inizio legata indissolubilmente a quella delle soluzioni e con essa divise le lotte ed i trionfi.

E le opposizioni non potevano tardare. Invero la tempesta di stupefatta indignazione che ben tosto scoppiò in quasi tutto il mondo chimico più che la teoria di van ’t Hoff riguardava quella di Arrhenius, che ogni più radicata idea sembrava venisse a sconvolgere; ma anche contro la prima non mancarono le obbiezioni, specialmente in Inghilterra. Mentre il grosso degli scienziati francesi si chiudeva in una opposizione a base di indifferenza quasi sdegnosa, un gruppo di chimici e fisici inglesi, con a capo Pickering, Armstrong e Fitzgerald, sostenitori della teoria degli idrati, aperse una vera campagna contro le nuove vedute, ma con migliore criterio non fuggì la discussione, anzi provocò un vero e proprio contraddittorio orale. [p. 71 modifica]

Poche discussioni pubbliche resteranno così interessanti nella storia della Scienza come quella della British Association a Leeds nel 1890 a cui intervennero, espressamente invitati, i tre maggiori rappresentanti del nuovo indirizzo, van ’t Hoff, Arrhenius e Guglielmo Ostwald.

Ecco come lo stesso Ostwald parla di questo torneo: «Io non credo di far torto ai nostri ospiti ammettendo che l’invito era stato fatto dapprima nel benevolo intento di persuaderci che noi eravamo in errore e di rimandarci a casa dopo una buona lezione. E nei primi giorni solo i nostri avversari ebbero la parola e a un certo punto sembrava che noi fossimo già scientificamente morti. Ma allorchè, dopo lunghe e vivaci discussioni personali, i rappresentanti delle vedute moderne ebbero la parola anche alle sedute pubbliche, l’aspetto delle cose mutò ben tosto e noi potemmo lasciare i nostri ospiti in pace e non senza trionfo».

Più obbiettiva considerazione che dal gruppo succitato trovarono le idee dei nostri campioni in Sir Oliver Lodge, ed essi ebbero nello stesso campo inglese un efficace alleato nel loro coetaneo William Ramsay, già noto per studi pregevoli, ma che non aveva ancora dato di sè le grandi prove che fanno oggi universalmente noto il suo nome.

Dopo di allora il successo della nuova scuola fu rapidissimo e trionfale; le opposizioni che da ogni parte si erano levate tacquero ben tosto quasi completamente, non scomparse tutte certo, ma più brontolate a bassa voce che espresse chiaramente e sostenute con argomenti obbiettivi. Le nuove teorie furono quasi subito introdotte anche nei libri di testo elementari e oggi hanno pervaso e trasformato tutti i rami della chimica.

Come italiani possiamo compiacerci che il nostro paese sia stato dei primi ad accogliere le nuove idee e che fino dai primissimi tempi si siano compiuti in questo campo importanti lavori, per opera specialmente di Paternò e di Nasini.

Le discussioni su questo argomento hanno però ripreso negli ultimi anni, sia dal punto di vista teorico che sperimentale. Un chimico fisico americano, il Kahlemberg, in base ad alcune misure di pressione osmotica, sarebbe giunto alla conclusione che la teoria di van ’t Hoff è insostenibile. Ma conclusioni così radicali non è certo possibile trarre da un così modesto materiale sperimentale ed i suoi stessi dati sono [p. 72 modifica]stati confutati da altri autori, fra cui il Cohen, il primo degli allievi di van ’t Hoff.

Un altro americano, il Morse, con una serie di lavori sperimentali ben altrimenti poderosi ed esatti ha dimostrato che la pressione osmotica segue le leggi di van ’t Hoff fino a concentrazioni abbastanza elevate. Lo Scarpa ha confermato che le variazioni di essa colla temperatura seguono la legge di Gay-Lussac.

Altri chimici e fisici che non hanno sufficientemente studiato l’opera del maestro, o la conoscono solo da esposizioni di seconda mano, hanno voluto criticare le idee di van ’t Hoff intorno al meccanismo della pressione osmotica. Ma questo si chiama combattere contro mulini a vento: van ’t Hoff ha bensì talvolta accennato alla concezione cinetica delle soluzioni, dato il parallelismo coi gas, e se ne è giovato nell’esposizione scolastica, ma non se ne è mai servito per dedurre le sue leggi. Egli ha anzi sempre posto in rilievo che il meccanismo della pressione osmotica ed il modo di agire della parete semipermeabile non hanno nessuna influenza sulla deduzione e lo sviluppo della teoria.

Vero è che la teoria delle soluzioni diluite (molti dimenticano questa parola su cui van ’t Hoff ha sempre insistito) rappresenta una legge limite, come tante altre grandi leggi naturali di cui nessuno ha mai negato per questo il valore. Vero è che la membrana perfettamente semipermeabile è un oggetto ideale, che è pressochè impossibile di realizzare ed a cui è già estremamente difficile l’accostarsi.

Ma anche se essa fosse una pura astrazione la teoria reggerebbe ugualmente, poichè tutte le leggi sulla ebullizione e sul congelamento delle soluzioni che ne sono la conseguenza necessaria, sono state, quelle, verificate colla necessaria esattezza e lo sono ogni giorno. Tutte le migliaia e migliaia di determinazioni ebullioscopiche e sopratutto crioscopiche, che sono state e sono ogni giorno eseguite nei laboratorii, rappresentano altrettante conferme e pongono la teoria su una base granitica che nessun criticismo, per acuto che sia, varrà a scuotere.

Che le nostre idee sulla natura delle soluzioni, sopratutto concentrate, e sullo stato delle sostanze disciolte, abbiano negli ultimi anni preso un nuovo indirizzo, che si tenda ora a ritornare ad una teoria degli idrati o dei solvati in genere, [p. 73 modifica]ad ammettere cioè l’esistenza di complessi fra le molecole del solvente e le molecole o gli ioni disciolti, è innegabile. Ma ciò non costituisce affatto una contraddizione colla teoria di van ’t Hoff, sono anzi sostenitori convinti di questa che hanno iniziato il nuovo indirizzo.

La teoria di van ’t Hoff è una teoria limite anche in questo senso: essa corrisponde alla concezione puramente fisica della soluzione, in cui il solvente non ha alcuna funzione, all’infuori di quella di diluire, di allontanare fra loro le molecole della sostanza disciolta; la realtà si scosta più o meno da questo schema. Le deviazioni non hanno che un effetto insignificante fin che si tratta di soluzioni assai diluite e di solventi particolarmente indifferenti; quando queste circostanze cessano, essi non sono più trascurabili.

Accade spesso così nella storia della Scienza: a un certo punto sembra che due dottrine siano assolutamente opposte l’una all’altra; dalla lotta una esce vincitrice. Ma il tempo mostra poi che la contraddizione non era in tutto necessaria come era apparso sul primo fervore; che ognuna delle due rappresentava una soluzione troppo estremista e semplicista del problema e che anche la teoria soccombente conteneva germi di verità suscettibili di sviluppo e di adattamento.

Come osserva il Walden, venti anni fa a Leeds sembrava che ad una teoria chimica degli idrati si contrapponesse in modo inconciliabile una teoria fisica delle soluzioni: oggi Pickering può avere la soddisfazione di vedere il risorgere della sua idea dei complessi col solvente, ma questa non si presenta più come la negazione, ma come un utile integrazione delle vedute vanthoffiane. Spetta a Ciamician il merito di avere pel primo preconizzato questo nuovo indirizzo, proponendo fino dal 1891 di ammettere la formazione di questi solvati per spiegare la dissociazione elettrolitica.

Permettetemi infine di richiamare la vostra attenzione sull’influenza che sulle questioni ora trattate esercitano necessariamente i più recenti studii sul moto browniano e sulla natura dei colloidi. Queste brillanti ricerche hanno stabilito il passaggio continuo dalle dispersioni grossolane alle soluzioni vere e proprie ed hanno data per la prima volta una dimostrazione plausibile dell’esistenza reale delle molecole e pertanto della natura cinetica delle pressioni gassosa ed osmotica. Esse vengono cioè a confermare anche quella veste [p. 74 modifica]esteriore della teoria delle soluzioni, che pur non era logicamente necessaria pel verificarsi della parte sostanziale di essa; risultato di cui pochi anni or sono pareva audace l’ammettere perfino la possibilità teorica.

Ma ritorniamo a noi. Nel 1890 van ’t Hoff espose una estensione assai interessante della sua dottrina. Egli mostrò che essa può essere applicata anche alle miscele solide omogenee del genere delle miscele isomorfe, e fondò così la teoria delle soluzioni solide, al cui sviluppo mi sia lecito compiacermi di avere modestamente contribuito. Ma poichè di questa teoria ho già intrattenuto in una mia antecedente pubblicazione i lettori della «Rivista», così mi sarà questa volta permesso di passarla sotto silenzio.

Allo sviluppo ulteriore della teoria delle soluzioni il van ’t Hofi non contribuì con studî sperimentali, limitandosi a divulgarla con articoli riassuntivi ed esplicativi e con conferenze; non per questo egli abbandonò il lavoro sperimentale che anzi continuò assiduo ed instancabile dedicando però questo lato della sua attività all’altro gruppo della questione trattata nei suoi Études de Dynamique chimique: agli equilibri eterogenei e ai sistemi condensati.

Questo campo era già stato trattato, sopratutto per quanto riguarda i fenomeni di dissociazione, da una brillante scuola francese che comincia con Sainte-Claire Deville e termina con Le Chatelier e nello stesso senso cominciava a lavorare partendo da idee un po’ diverse un’altra scuola olandese, quella che ebbe per suo capo Bakhuis Roozeboom.

Van ’t Hoff e i suoi scolari si occuparono sopratutto delle condizioni di formazione e scomposizione dei sali doppi in seno a soluzioni acquose, rivolgendo la loro attenzione da un lato a composti come l’Astrakanite e la Carnallite che si ritrovano in natura come minerali, dall’altro ai racemati, riattaccandosi così a questioni stereochimiche. I risultati si trovano raccolti in un libretto intitolato: Vorlesung über Bildung u. Spaltung der Doppelsalze, pubblicato nel 1887, certo uno dei lavori meno noti del nostro, data la natura del soggetto, che per quanto importantissimo, non è molto facilmente accessibile e conduce necessariamente a trattazioni un po’ aride. [p. 75 modifica]

Questo gruppo di lavori riempie tutto il periodo di dieci anni, dal 1886 al 1895, ossia il secondo periodo della permanenza di van ’t Hoff ad Amsterdam.

Si giunge così all’epoca berlinese della sua attività, dedicata completamente alla applicazione dei principii e dei metodi prima trovati, alla ricerca delle condizioni di formazione dei depositi oceanici, e particolarmente dei celebri giacimenti di Stassfurt. In questo lavoro che fu il primo e resta il più grandioso tentativo di applicazione della chimica fisica, a problemi della geologia per trasformare questa, fin dove è possibile, in una scienza sperimentale, egli ebbe a costante collaboratore per un decennio, fino al giorno in cui nel 1906 una morte prematura lo rapì a 42 anni, Guglielmo Meyerhoffer.

Non era questi un collaboratore ordinario. Quando nel 1896 egli si associò al Maestro per fondare il piccolo laboratorio privato della Hollandstrasse, aveva fra l’altro già scritto un libretto sulla regola delle fasi, che è ancora uno dei migliori su questo argomento, ed aveva già eseguito lavori sperimentali assai pregevoli sulle coppie di sali reciproci, argomento che pel problema da trattare aveva la più grande importanza; egli era nelle questione teoriche un pensatore del tutto indipendente ed originale, e non sempre in accordo in tutto col Maestro. Credo che vi siano pochi casi nella storia della scienza di collaborazioni così intime fra uomini di questo valore, e pochi casi altresì di collaboratori che vivendo a lungo nella più stretta e quotidiana intimità scientifica e personale con un così grande Maestro, abbiano conservato tanto intatta la propria personalità intellettuale, senza che ciò d’altra parte turbasse mai i rapporti fra i due, circostanza che torna ad onore ad entrambi.

Ma vi è di più. L’idea madre del lavoro comune, appartiene in gran parte al Meyerhoffer, come van ’t Hoff ha sempre apertamente riconosciuto. Meyerhoffer aveva infatti, nel succitato lavoro sui sali reciproci, nel 1895, espressa l’opinione che «la formazione dei depositi salini di Stassfurt, Wielicza ed altri luoghi, in quanto essi sono di origine marina, non potrà essere esaurientemente spiegata, finchè le solubilità e i rapporti di equilibrio, che intervengono fra i sali che si trovano nell’acqua di mare non siano sottoposti ad una ricerca sistematica».

Già nel 1889 del resto van Bemmelen, nel suo discorso [p. 76 modifica]rettorale di Leida, aveva accennato alla opportunità di applicare i metodi in questione alla soluzione di problemi geologici. Dobbiamo dire con questo che a van ’t Hoff non spetti nessuna parte originale? Nulla sarebbe più assurdo. Già nel 1887, prima del lavoro di Meyerhoffer e dell’accenno di van Bemmelen egli aveva stabilito le condizioni di formazione di varii sali esistenti nei giacimenti di origine oceanica, come la Astrakanite, la Leonite e la Schönite, e il metodo di ricerca usato in tutta l’opera, è quello stesso allora introdotto da lui, e da questi suoi lavori antecedenti era ispirato lo stesso Meyerhoffer che aveva eseguito presso di lui il suo lavoгo di laurea.

La ricerca durò dieci anni, ed è esposta in 51 memorie singole pubblicate tutte dal 1897 al 1906 negli atti dell’Accademia di Berlino. Il darne un’idea anche sommaria ci porterebbe troppo in lungo. Come è ben noto i depositi di Stassfurt, che si ritiene provengono dalla evaporazione di un mare interno, constano essenzialmente di cloruri, solfati e borati, di sodio, potassio, magnesio e calcio e di tutti i loro possibili sali doppi. Si trattava di determinare l’ordine in cui essi vi sono deposti, i possibili accoppiamenti di minerali (le cosidette paragenesi) i limiti di temperatura e di concentrazione entro cui le separazioni singole e le diverse paragenesi possono aver avuto luogo. Per risolvere così intricato problema si operava anzitutto con determinazioni di solubilità a varie temperature, dapprima con coppie di sali, quindi con tutti i possibili sistemi complessi; per stabilire le varie temperature di trasformazione si usavano i soliti metodi tensimetrici e dilatometrici.

Il problema può considerarsi ora come completamente risolto almeno dal lato teorico. I risultati concordano del resto quasi in tutto con ciò che è stato trovato dai mineralogisti e dai pratici; alcuni nuovi minerali, di cui uno porta il nome di Vanthoffite, prima sconosciuti e preparati sinteticamente, furono poi dietro le indicazioni fornite, ritrovati in natura. L’importanza di questi studi anche per la pratica fu riconosciuta dagli industriali e dal governo tedesco. Nel 1908, fu infatti fondato un comitato per uno studio approfondito dei depositi di Stassfurt con intento applicativo, ma basato principalmente sui lavori di van ’t Hoff.

La fine di queste ricerche segue di poco la morte di [p. 77 modifica]Meyerhoffer e l’inizio della malattia del Maestro. La sua carriera mortale volgeva alla fine. L’opera dell’eroe era chiusa. Non più il suo nobile ingegno doveva aprire nuovi campi alla conoscenza degli uomini. Ma non la volontà mancava, nè le idee; nel periodo del fittizio miglioramento, aveva iniziato nel suo nuovo laboratorio di Steglitz, una serie di ricerche sulla azione sintetica degli enzimi quali si manifestano principalmente nelle piante, cominciando dalla formazione dei glicosidi; su questo argomento aveva già presentato due note alla Accademia di Berlino. Naturalmente egli trattava il problema dal lato quantitativo e con metodi chimico-fisici. Il lavoro era troppo all’inizio per poter esprimere ora su di esso un giudizio; ma è certo lecito chiederci quali orizzonti avrebbe egli potuto aprirci, su un argomento così vitale in tutti i sensi della parola, se la sorte gli avesse concesso ancora un periodo di vita, quale alla sua età era ben lecito sperare.

Ed ora, giunti alla fine di questo sommario esame della vita del Maestro e delle singole fasi della sua opera scientifica, non sarebbe esaurito il nostro compito, se non ci rivolgessimo indietro a considerarne tutto l’insieme con uno sguardo sintetico da cui ci appaia intera la sua figura di uomo e di scienziato.

Nelle fattezze riproduceva, come già dissi, il tipo olandese; la statura era leggermente superiore alla media; nel vestire, nel trattare, nel conversare famigliare appariva, quale era, modesto; solo l’occhio dolce sì, ma vivo e penetrante avvertiva a volte dell’uomo eccezionale che si aveva dinnanzi. Come uomo non fu di coloro che fanno scontare lo splendore del genio colle asprezze e colle stravaganze del carattere; la sua bontà vera, la sua serena mitezza, la sua modestia persino un po’ ingenua gli acquistarono tanti amici affezionati, quanti la sua opera gli procurò ammiratori.

Onori accademici e scientifici, ebbe tanti e così alti, quanto uomo possa desiderare; di ambizioni di altro genere non palesò mai traccie; la sua vita trascorse tranquillamente in seno alla famiglia, composta della moglie che sposò in giovanissima età, di due figlie e di un figlio. Fu completamente alieno dallo spirito di predominio e di intrigo e non fu per[p. 78 modifica]tanto mai circondato da nessuna delle gelosie e delle invidie, così frequenti anche nel mondo accademico. Nessun primato fu mai ammesso così tacitamente e senza resistenza come il suo che egli non fece mai minimamente sentire. Neil’esprimere giudizi su cose e sopratutto su uomini, era straordinamente riservato, e solo dopo un lungo periodo d’intimità si potevano udire da lui giudizi espliciti, sopratutto se non favorevoli.

La sua cultura generale, era certo assai larga sopratutto nel campo scientifico; che apprezzasse le arti e le lettere e vi attaccasse grande importanza anche in un cultore di scienze esatte, risulta dalla sua già citata prolusione sulla fantasia nelle scienze; e dalla medesima sappiamo che una delle sue letture favorite erano le vite dei grandi scienziati, di cui doveva essere un divoratore, se ne poteva citare oltre 200.

Quanto ad idee filosofiche e religiose sappiamo che da giovinetto fu un ammiratore ed un seguace della filosofia positiva di Augusto Comte, ma di tali opinioni non fece mai, che io sappia, manifestazioni esteriori; è molto se da alcune espressioni di una necrologia di Roozeboom, in cui si parla, in modo del resto rispettoso, del fanatismo religioso di quest’ultimo e dal desiderio da lui espresso d’essere cremato, possiamo dedurre che in quel primo ordine di idee rimase fino al termine della sua vita.

Non ebbe qualità di oratore brillante e popolare; alieno da ogni sorta di dilettantismo non concedette mai nulla al desiderio di apparire attraente; però le sue conferenze di carattere generale e riassuntivo si leggono volentieri e con profitto per la chiarezza e la ricchezza delle idee, anche se esse non siano sempre di lettura facile. In talune necrologie, p. es. quelle di Meyerhoffer e di Roozeboom, dette più libero sfogo al sentimento e riuscì spesso a trovare espressioni efficaci e commoventi.

Come non fu oratore per grandi uditorii, così non era portato all’insegnamento elementare; egli stesso lo disse in un suo discorso e fu principalmente per sottrarsi a questo obbligo, che era per lui un sacrificio, che si indusse ad accettare la posizione fattagli a Berlino. Quivi egli teneva regolarmente un solo corso d’un ora settimanale su capitoli scelti di chimica fisica, dedicati ad uditori ristretti; da questo corso nacque il suo libro Lezioni di chimica teoretica e fisica, che [p. 79 modifica]ebbe largo successo pel modo originale e tutto personale con cui è svolta la materia.

Se l’ufficio di professore nel senso più largo gli riusciva spesso gravoso, caro e gradito gli fu invece quello di maestro, verso i giovani praticanti già più maturi, che lavoravano con lui alle sue ricerche. Siccome non ebbe mai grandi laboratorii, non ebbe moltissimi allievi; parecchi di essi però raggiunsero posizioni distinte nella scienza e nella cattedra. Della personalità interessante del povero Meyerhoffer dissi già sopra. Fra gli altri non posso tacere di Ernesto Cohen, già suo assistente ad Amsterdam ed ora professore ad Utrecht, il più fedele e autorizzato interprete del pensiero del maestro, dalla cui attività amorosa attendiamo l’opera che ce ne ridia intiera la figura: Enrico Goldschmidt e Giorgio Bredig oggi professori a Christiania e a Zurigo, passaroro pure parecchi anni ad Amsterdam.

Chi scrive queste linee non può fare a meno di ricorrere col pensiero al laboratorio di Wilmersdorf presso Berlino, in cui ebbe la fortuna di lavorare per un anno nel 1900-01. Era un piccolo laboratorio, posto in una casa d’affitto, arredato convenientemente per le ricerche che vi si facevano (quelle sui sali di Strassfurt) ma non per altro; oltre a van ’t Hoff, a Meyerhoffer e ad un assistente stipendiato non vi avevano posto più di 5 o 6 praticanti. Non vi fu mai, io credo, laboratorio più internazionale e poliglotta; si può dire che salvo la francese tutte le nazionalità vi siano passate. I rapporti col maestro erano frequenti e famigliarmente cordiali. Il giorno dell’annunzio della sua morte, nessuno certo di noi che siamo passati di là, avrà potuto trattenersi dal pensare con una malinconia non esente di dolcezza ai giorni trascorsi nella pace laboriosa di Wilmersdorf.

Ma più di questi particolari potrà avere interesse l’esaminare quale era il suo modo di procedere nel lavoro intellettuale e quale la sua posizione rispetto a qualcuna delle maggiori questioni che agitano e dividono il mondo scientifico.

Il suo spirito era anzitutto sintetico e coordinatore; la sua opera prediletta fu sempre quella di studiare un gran numero di fatti, di riconoscerne le relazioni reciproche e di esprimerle in leggi generali. Certo, in lui come nella maggior parte delle menti inventive, ad un certo punto il risultato era [p. 80 modifica]già presente quando la dimostrazione non vi era ancora, una prova di più che i progressi basati più su un salto della fantasia che su una serie di passi pensatamente succedentisi hanno una parte essenziale nello sviluppo della Scienza; tesi questa favorita da van ’t Hoff. Ma era anche conscio che la riuscita di un simile salto non esime lo scienziato esatto dall’obbligo di rivolgersi indietro e di unire poi con passaggi ben sicuri il punto raggiunto con la riva di partenza.

Ed in realtà una delle caratteristiche che colpiscono nella sua opera, è che quando egli enunciava una teoria, la enunciava già completa. Consideriamo i suoi tre lavori principali: la stereochimica, gli studi di dinamica chimica, la teoria delle soluzioni; ognuna delle tre pubblicazioni fondamentali che ad essi si riferiscono conteneva già tutte le parti essenziali della rispettiva teoria, e non solamente in germe, ma già sufficientemente sviluppate e dimostrate.

Questo creatore di teorie, quest’uomo che ha arricchito la scienza di tante idee nuove era però alieno da ogni metafisica e da ogni esagerazione; non era di coloro che in qualunque campo entrino vogliono ad ogni costo creare un sistema generale che dia fondo all’universo, che abbracci tutto, i fatti importanti e i non importanti, i fatti esistenti e i non esistenti. Spirito generalizzatore e sintetico non fu mai schematico nè astratto. Lo vediamo anche nelle sue lezioni in cui le teorie sono quasi sempre esposte, non in modo astratto, ma servendosi di esempi concreti.

Questa tendenza del suo spirito ci spiega la sua attitudine rispetto alla teoria delle fasi, un punto questo che è uno dei più curiosi nella vita scientifica del van ’t Hoff. Come è noto la regola delle fasi è contenuta nel grande lavoro di W. Gibbs pubblicato dal 1874 al 78 negli atti della Accademia del Connecticut; ma rimase sconosciuto per un decennio finche van der Waals ne segnalò privatamente l’importanza a Bakhuis Roozeboom che aveva già cominciate le sue ricerche sugli equilibrii eterogenei nel 1887, tre anni dopo la pubblicazione degli Études de dynamique chimique. Ora questi nella parte che riguarda gli equilibrii eterogenei, i sistemi condensati, i sali doppi ecc., sono già tutti pervasi dallo spirito della teoria delle fasi, sono della teoria delle fasi in azione; manca solo lo schema, che altro non è in fondo la regola delle fasi di Gibbs. [p. 81 modifica]

È pertanto psicologicamente comprensibile come van ’t Hoff abbia concepito una certa avversione per quella teoria, avversione che non lo abbandonò mai; egli ne ciarlava mal volentieri e non la usò mai nelle sue trattazioni. Solo nel 1902 si indusse a fare alla società chimica di Berlino un discorso riassuntivo su questo argomento, in cui accanto ad una esposizione chiara e obbiettiva della teoria e delle sue applicazioni, si trovano queste frasi che ci danno il suo pensiero, o meglio il suo sentimento: «È un peccato che a poco a poco, per importante che sia la regola delle fasi, si sia andata formando una certa esagerazione nel valutarne la portata. Molto viene attribuito ad essa che non si deve alla sua applicazione. La grande importanza della regola delle fasi non sta già nel valore che essa possa avere come guida nella ricerca, ma assai più nel valore pedagogico, nella trattazione e nella classificazione dei fenomeni di equilibrio.»

Ora ciò non mi sembra del tutto esatto e debbo dire che questo è il solo punto in cui mi paia che van ’t Hoff non sia giusto, ma che ceda inconsciamente ad una debolezza. Che a proposito della teoria di Gibbs si sia da qualcuno esagerato, che si possa anche nei labirinti più complicati degli equilibri eterogenei trovare la propria via, anche senza la regola delle fasi, che tutti i singoli casi anche intricati possono esser risolti anche senza enunciare il nudo schema è innegabile e van ’t Hoff lo aveva dimostrato praticamente; ma che sia utile di avere i singoli tipi e le regole relative raccolti in un corpo, senza bisogno di ritrovarle ogni volta, che lo schema possa giovare non solo per la classificazione, ma anche come comodo filo orientatore nella ricerca, sopratutto a chi non sia van ’t Hoff, è pure indiscutibile.

Della teoria atomica e molecolare fu il van ’t Hoff, fedele e convinto seguace, nè altro poteva aspettarsi dal fondatore della stereochimica. Amico e compagno d’armi di Guglielmo Ostwald nelle lotte per le moderne teorie chimico-fisiche, non lo seguì quando quegli volle lanciarsi in nome della energetica contro l’atomistica, non solo mettendo in dubbio l’esistenza reale degli atomi e delle molecole, ma negando persino la possibilità di poterla mai dimostrare e contestando financo la utilità dell’uso della teoria atomica come modello di lavoro. Allorchè più infuriava la campagna ostwaldiana, [p. 82 modifica]destinata a una pronta sconfitta, van ’t Hoff in un discorso tenuto a Vienna nel 1906, ammonì nel suo tono pacato e sereno, ponendo in guardia contro gli errori e i pericoli di un simile indirizzo, e riaffermando la sua fiducia che l’atomistica dovesse rendere ancora grandi servizi alla scienza.

Potrebbe ora essere interessante per valutare la sua personalità, procedere a confronti e confrontarlo p. es. con gli altri maggiori cultori della chimica fisica moderna, ma ciò ci porterebbe troppo al di là dei limiti di una semplice commemorazione. Da parecchi di essi, come dall’Arrhenius e dal Nernst e da alcuni dei più giovani egli si distingue pel fatto che, chimico d’origine e cresciuto nei laboratorii di chimica organica, egli rimase sempre e in tutto veramente e profondamente chimico.

Dei due indirizzi che può seguire la chimica fisica egli seguiva, per impulso naturale e per maturo ragionamento, quello chimico. A lui, come ai chimici, interessarono sempre le sostanze in sè; le proprietà fisiche gli interessavano come caratteristiche di quelle; le stesse leggi generali e i metodi fisici e matematici come mezzi più perfezionati per investigarne la natura e per esprimerne la infinita varietà in modo quantitativo e più esatto di quello consentito dai concetti vaghi e dai metodi imprecisi della chimica tradizionale. Mentre ai chimici fisici dell’altra ala, come ai fisici, ciò che interessano in prima linea sono le proprietà in sè, e le sostanze solo come inevitabili sostegni di quelle.

Comunque certo non si fa ingiuria a nessuno dei chimici fisici anche illustri della sua generazione, dicendo che egli li sorpassava tutti dalla cintola in su. Se si volessero trovar paragoni con uomini di grandezza pari alla sua, bisognerebbe risalire più indietro, ai tempi eroici in cui la differenziazione tra fisici e chimici non era ancora progredita. Alla mente ricorrebbero nomi come quelli di Bunsen, di Faraday, di Gay-Lussac. Ma a che servirebbero simili confronti? Certo è che egli appartiene agli astri maggiori della Scienza, a quelli la cui luce non impallidisce.

Dei quattro grandi argomenti da lui trattati, ognuno basterebbe a fare la fama di un chimico grande; due (la stereochimica e la teoria delle soluzioni) sono tra i maggiori corpi [p. 83 modifica]di dottrina della Scienza universale, e uno solo di essi sarebbe capace di assicurare al suo fondatore posto fra i sommi. Nè la sua fama potrà affievolirsi, anzi non farà col tempo che ingrandire, poichè essa non è affidata ad eccezionali qualità esteriori dell’uomo, ma alla grandezza dell’opera compiuta.

Padova, Università.


Giuseppe Bruni