Saggio critico sul Petrarca/Introduzione : La critica del Petrarca

Introduzione : La critica del Petrarca

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Saggio critico sul Petrarca Nota dell'autore
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INTRODUZIONE

LA CRITICA DEL PETRARCA1


È uscito testé a Parigi un bel volume sul Petrarca, ed è uno studio d’A. Mézières, professore di letteratura straniera alla Facoltá di lettere.

È un libro scritto senza enfasi, con semplicitá e vivacitá, e che tu leggi intero d’un tratto come un romanzo.

E lo diresti quasi un romanzo psicologico, dove sono indovinati e presentiti molti misteri dell’anima, che danno la spiegazione di parecchi fatti. A questo genere di storie intime il genio francese è acconcissimo, ajutato anche dalla lingua che esprime le più delicate e fuggevoli gradazioni della vita interiore.

Un lavoro simile si può fare con molta esattezza sul Petrarca, non essendo il Canzoniere che il ritratto della sua anima, e trovandosi nelle sue opere, e specialmente nelle Lettere, la sua vita rappresentata, direi, giorno per giorno. Il Mézières non è quasi sorta di studii che non abbia creduto suo debito di fare per sorprendere i secreti di quella nobile vita; ed oltre i documenti giá noti, di cui una ricca collezione è nella Biblioteca del Louvre e nella Biblioteca imperiale di Parigi, ha avuto innanzi la raccolta completa delle Lettere familiari del Petrarca, pubblicazione diligente del benemerito Fracassetti. [p. 2 modifica]

Anzi è proprio questa pubblicazione, che ha dimostrata al Mézières l’opportunitá di un altro lavoro sul Petrarca, oltre i giá noti del De Sade e del Ginguené.

Né l’uno, né l’altro, dice il Mézières, poterono ritrarre intera questa sublime fisonomia. Manca alle loro pitture piú di un tratto essenziale che ci rivela oggi un italiano laborioso, dando alle stampe centosessantasette lettere inedite di uno scrittore al quale egli ha consacrati gli studii dell’intera sua vita. La pubblicazione del signor Fracassetti giustifica la convenienza di un nuovo studio sul Petrarca.

Dobbiamo dunque al nostro concittadino doppie grazie, e di avere messi in luce scritti inediti del Petrarca, e di essere stato sprone a quest’accurata biografia del gran poeta.

Il Mézières ha compreso che nessuno può esser giustificato di metter mano ad un argomento vecchio, se non quando vi sieno delle lacune, ed egli abbia il modo di riempirle. Credendo che la pubblicazione del Fracassetti fornisca nuovi elementi di giudizio e nuovi particolari, atti a compiere o rettificare in qualche parte i lavori antecedenti, si è messo senz’altro a studiare il Petrarca «d’après de nouveaux documents».

La speranza del Mézières era di potere con questo recente studio offrire al mondo il vero Petrarca.

Il vero Petrarca, dic’egli, non è solo scrittore di sonetti e canzoni; ma ò la piú grande figura del quattordicesimo secolo, il rappresentante delle idee piú ardite che vi si sieno discusse, il ristoratore delle lettere e il capo ammirato di una generazione di poeti, di latinisti, di dotti.

Nel vero Petrarca egli scopre cinque passioni: la religione, l’amore, l’amicizia, il culto delle lettere e il patriottismo, le quali «se disputent sa vie et échauffent son style du feu qu’elles allument au fond de son âme».

Il Petrarca del volgo è l’autore del Canzoniere; ma il Petrarca, osserva il Mézières, non è tutto nel Canzoniere. [p. 3 modifica]

Quelli che lo giudicano solo dalle sue poesie amorose, conoscono i suoi piú bei versi senza conoscere lui. E non lo si conosce che dopo di aver seguito il suo pensiero non solo nel primo caldo di gioventú, ma nell’etá matura, a traverso di un gran poema, delle egloghe, delle epistole in versi latini, de’ trattati filosofici, e specialmente della vasta corrispondenza che egli teneva co’ principali personaggi del suo tempo.

E questo ha voluto egli fare per l’appunto; ha voluto farci conoscere il Petrarca, studiando il suo poema, le sue egloghe, le epistole, i trattati filosofici, le sue lettere, e giovandosi de’ lavori altrui e degl’immensi materiali offertigli dalla Biblioteca del Louvre per mostrarci il grand’uomo sotto tutti gli aspetti. Egli ha voluto «recompossr dans son ensemble cette imposante physionomie».

Con tale intendimento ha fatto un magnifico libro, dove ha con molta diligenza e con grand’arte raccolto e riassunto tutto ciò che di piú interessante è stato scritto sulla vita del Petrarca, rettificando o chiarendo alcuni particolari e alcuni punti di vista: libro che si legge con piacere e può esser consultato con frutto.

Se di questa lode è pago il signor Mézières, chi si contenta gode: ma non me ne contento io.

Oggi il numero de’ libri è cosí strabocchevolmente cresciuto, che dobbiamo innanzi tutto domandar conto agli autori della scelta dell’argomento, e non ammetter come lavori serii e utili se non quelli che prendono le quistioni come si trovano e le fanno camminare innanzi.

Sul Petrarca n’abbiamo d’infiniti. Nella sola Biblioteca del Louvre, come afferma Mézières, esistono ottocento opere relative al Petrarca, che Carlo X nel i829 comprò dal professore Marsand di Padova. E questa collezione non le comprende tutte. Si tratta di migliaja di volumi scritti sullo stesso autore, e alcuni da filologi, eruditi, filosofi e poeti. De Sade, Baldelli, Ginguené, Muratori, Aroux, Foscolo, Villemain, Saint-Marc Girardin, Macaulay, non c’è quasi grand’uomo che non abbia [p. 4 modifica]detto almeno il suo motto sul Petrarca; non c’è quasi libro di erudizione o di lettere o di filosofia dove in qualche pagina non lo trovi ricordato in tratti piú o meno felici. E ciascuno scrive con la pretensione di dir cose nuove, e, come oggi si dice volgarmente, di portar la pietra all’edifizio.

Chi dunque ci sforza di scrivere il millesimo ed uno volume sul Petrarca? Non altro se non la convinzione che di quesito scrittore non è stata ancor detta l’ultima parola, né scritto un lavoro terminativo; che parecchie quistioni rimangono ancora avviluppate o insolute; e perciò, il y a quelque chose à faire.

Ma cosa resta a fare? Qui ci sembra che il Mézières abbia preso un errore. Egli è partito da questa falsa base, che il Petrarca del Canzoniere è il Petrarca del volgo; che il vero Petrarca è molto di piú, un erudito, un latinista, un patriota, un ristoratore degli studii, un grande ingegno ed un grande carattere; e ciò che resta a fare è ricostruire il Petrarca, reintegrare questa grande figura mutilata dal volgo.

Si comprende adunque la grande importanza che egli ha dovuto dare alle Lettere raccolte dal Fracassetti e a’ materiali ritrovati nella Biblioteca imperiale e nella Biblioteca del Louvre. Volendo darci il Petrarca intero e non il mutilato dal volgo, ogni piccolo fatto, ogni documento acquista un valore speciale.

Ma in questo caso è il volgo che ha ragione, ed è il Mézières che ha torto. Il volgo potrebbe dirgli: — A che rifarmi per la centesima volta una vita del Petrarca? o cosa potete aggiungervi che non sia giá noto nella sua sostanza anche a’ meno letterati? Dopo De Sade e Baldelli si può fare una vita piú elegante del Petrarca, ma non piú interessante.

In effetti, si può dire che il volgo, e intendiamo per volgo l’universalitá de’ lettori alla buona e senza pretensione, conosce perfettamente il Petrarca intero, che vorrebbe regalargli il Mézières. Sa perfettamente che il Petrarca fu un gran personaggio, di molt’autoritá, di molte aderenze, vivuto ora in solitudine, ora accanto a’ príncipi, incoronato a Roma, autore di molte opere latine, e fra queste soprattutto di un gran poema, amico del [p. 5 modifica]Boccaccio e dei piú grandi uomini di quel tempo, scopritore instancabile di antichi manoscritti, benemerito delle lettere e buon patriota. Non ci è nessuna edizione del Canzoniere dove non si trovi innanzi una biografia che ti dá il Petrarca intero, qual è vagheggiato dal critico francese.

Dire che il volgo vede nel Petrarca solo l’autore del Canzoniere, e perciò non ne ha stima adeguata alla sua grandezza; sperare che mostrandolo sotto tutti gli aspetti possa la sua immagine uscirne ingrandita nell’opinione popolare: ecco la falsa base sulla quale il Mézières ha fondato il suo lavoro.

Togliete il Canzoniere, e il Petrarca sarebbe stato un personaggio noto a’ dotti e agli eruditi, ma non sarebbe mai divenuto un personaggio popolare presso ogni gente civile, non sarebbe mai salito a universalitá di fama. Scendere sino al volgo e mantenervisi per molti secoli è il piú sicuro indizio di un merito vero e superiore.

Ma nessuno scende sino al volgo senza perdere una parte della sua personalitá, essendo il giudizio del volgo, cioè il giudizio de’ secoli, un lavoro di purificazione e di eliminazione. Il volgo si appropria la Divina Commedia ed ignora il Convito; si appropria il Canzoniere ed ignora l’Africa. Passando attraverso i secoli, l’uomo lascia nel cammino la sua parte terrestre e individuale, impaccio e non via all’immortalitá.

Il progresso è appunto a questa condizione. L’umanitá non cammina se non gittando lungi da sé tutto ciò che è imitilo, accidentale, ripetizione, luogo comune, scoria, il troppo e il vano. Nella sua rapida corsa migliaja di volumi restano polverosi nelle biblioteche, migliaja di scrittori rimangono dimenticati tra via, e gli stessi grandi uomini lasciano una parte di sé per terra. Questo non è mutilazione, è purificazione.

Comprendo una certa cosí profonda venerazione per i sommi, che spinga alcuni a ricoglier di terra le menome cose che sieno loro appartenute; comprendo la gioja di taluni di scoprire il cappello di Napoleone o lo stivale di Garibaldi. Santa superstizione: ma a patto che non si chiami capo ciò che è cappello; a patto che non si chiami Petrarca mutilato e volgare il Petrarca [p. 6 modifica]del Canzoniere, e non si dica il Petrarca intero o il vero Petrarca tutto ciò che il poeta nel suo celere cammino ha lasciato per terra.

Né intendo dire con questo che il libro del Mézières sía affatto inutile e tanto meno spregevole. È una elegante biografia del Petrarca, dove non mancano fine osservazioni e fatti interessanti che valgono a illustrare il Canzoniere. Notabili sono soprattutto le belle pagine ch’egli consacra all’esame di questo capolavoro, con giudizii e criterii sani e con giusto concetto dell’arte. Ma in luogo di esaminare il Canzoniere in sé stesso, egli lo cita per risolvere alcune quistioni di fatto, come: — Il Petrarca fu originale o imitatore? quale era la sua teoria dell’amore platonico? Laura fu persona reale? La passione del Petrarca fu vera e profonda? Quale fu la storia di questa passione? — . Il Canzoniere vi sta allo stesso titolo delle Lettere e de’ trattati filosofici: vi sta come prova e documento delle sue asserzioni. Non è la vita che serve al Canzoniere: è il Canzoniere che serve alla vita, o piuttosto al panegirico.

Giacché l’ammirazione del critico francese si accosta molto alla superstizione. Con filiale cura copre di un manto pietoso le nuditá del suo modello, tutto ciò che di fiacco era nel suo carattere, o di biasimevole fu nella sua condotta. Esagera i sentimenti, idealizza il carattere, poetizza gli accidenti piú ordinaria par che narri e ti fa un sonetto in prosa: ti dá non un Petrarca intero e vero, ma un Petrarca mutilato dalla sua idolatria. Vorremmo nel suo modello un po’ meno del divino e un po’ piú dell’umano. Un’alta imparzialitá avrebbe provveduto meglio alla gloria dell’uomo, collocato si alto che tentare apologie o palliare difetti è quasi un mancargli di riverenza.

Ci è un monumento durevole da innalzare a Francesco Petrarca; c’è ancora dopo tanti lavori un altro lavoro da fare. Ed è la critica del Canzoniere.

La critica è dirimpetto all’opera d’arte quello che la filosofia è dirimpetto all’opera della natura. Si può anzi dire che tante sono le forme della critica, quante quelle che nel processo de’ secoli ha preso la filosofia. Anche la critica ha la sua storia [p. 7 modifica]naturale, la sua anatomia, la sua fisiologia, la sua fisica e la sua metafisica. Come il pensiero si è andato a poco a poco alzando nell’interpretazione della natura, cosí la critica dalle forme piú palpabili e piú grossolane della produzione artistica è salita di mano in mano sino alla forma, sino a quell’uniti immediata ed organica del contenuto, in cui è il secreto della vita. Lá il critico può sentirsi uno con l’artista e col suo lavoro, può ricrearlo, dargli la seconda vita, può dire con l’orgoglio di Fichte: — Io creo Dio!

La critica è la fisonomia di questo secolo. Nelle produzioni piú spontanee di questi tempi tu senti la critica. Essa ha rinnovati tutti i giudizii, ha modificate tutte le impressioni, ha levata a grande altezza la coltura generale. Niente ha potuto sottrarsi alla sua azione, da Dio sino all’infima delle sue creature.

In questo mondo rinnovato i nostri scrittori, i nostri artisti hanno pur dritto di entrare. Molto si è fatto; ma qui è il caso di dire: «Il y a quelque chose à faire».

Pagine interessanti sono state pubblicate sui nostri scrittori, specialmente da critici stranieri; e n’è nata fra noi una critica di seconda mano, dove trovi accumulati pregiudizii vecchi e nuovi, e in istrano miscuglio i piú alti risultati della speculazione moderna e le idee piú grossolane e piú trite dell’antico empirismo. Noi siamo in religione, in politica, in arte, in giurisprudenza, come quell’essere che non è nero ancora e il bianco muore, in uno stadio troppo lungo di transizione, dove il nuovo poco si studia e il vecchio poco si cerne, componendo cosí una specie di olla podrida, in cui le piú stupide tradizioni vivono in buona compagnia con le piú ardite innovazioni. Chi getti uno sguardo sulle nostre leggi, sulle nostre pretese riforme, sui tanti indirizzi governativi che s’incrociano e si negano a vicenda, su’ concetti contradittorii e vaghi dello stesso uomo politico da un di all’altro, sulle nostre storie letterarie, su’ nostri programmi scolastici, su’ nostri libri di filosofia e di letteratura, toccherá con mano questa confusione delle menti, questa superficialitá e indigestione di studii, e non si [p. 8 modifica]meravigli era se a noi cosí poco abbondi il concetto e la coscienza di quello che vogliamo e di quello che facciamo.

Di questa confusione non è difficile trovare i vestigi anche nella critica del Canzoniere, dove accanto alle analisi di Foscolo o di Macaulay e alle artificiose costruzioni di Rossetti o Aroux, non mancano le reminiscenze di Muratori o Castelvetro e le superficialitá di Tiraboschi o Ginguené.

E n’è venuta la confusione delle lingue, un Petrarca ermafrodito, ora nobile patriota, fiero carattere, scrittore di altissime liriche, ora effeminato, manierato, artificioso; ora amante appassionato e addolorato, ora amante platonico, ora amante da burla.

Questi mezzi giudizii nascono da mezze critiche, da critiche che considerano il Canzoniere sotto questo o quell’aspetto, ma non nel suo insieme, non nella sua sostanza.

V’è una critica elementare e utilissima, che mira alla semplice interpretazione, come è il modesto comento al Canzoniere del sommo Leopardi. Questa critica può illustrare e spiegare un lavoro, non lo può giudicare.

Vi è una critica tutta esterna, che raccoglie e fa un bel mazzo delle forme di dire piú elette, o de’ concetti piú peregrini. Anche questa critica è incompetente a dar giudizio di un lavoro d’arte.

Vi è un’altra critica, che studia le qualitá dello scrittore e si riassume nel celebre motto: «lo stile è l’uomo». Questa critica, in cui sono eccellenti i francesi, non ci può dare essa pure che mezzi giudizii.

E vi è una critica che prende a considerare in sé stesso il contenuto, e ne fissa il concetto e le leggi e la storia. Anche questa critica mena a mezzi giudizii.

Queste sono, prese insieme, una specie di critica preparatoria, materiali per la critica, anzi che la critica essa medesima.

Una storia della critica è uno de’ lavori importanti che restano ancora a fare. E si vedrebbe che molte sue forme sono provvisorie, parziali, inette a produrre giudizii interi e definitivi.

Nessuno che abbia studiato anatomia si crede atto a [p. 9 modifica]giudicar l’uomo. Solo i nostri critici giudicano l’artista, quando hanno fatto della sua opera appena un lavoro anatomico. Il difetto di queste critiche è di oltrepassare sé stesse ne’ loro giudizii, e dar risultati fuori di ogni proporzione con t’angustia delle loro indagini.

Che cosa è la critica esterna o formale? Sono frasi, giri, inversioni, concetti, abitudini, maniere, metodi, distribuzioni, strappate violentemente all’opera d’arte e messe in mostra sotto il nome di modelli. Cosi so n nate le regole; cosí è nata l’eleganza; cosí si è formata la rettorica.

Che cosa è la critica psicologica? £ l’autore isolato dalla sua opera e studiato ne’ fatti della sua vita, ne’ suoi difetti, nelle sue virtú, nelle sue qualitá. Tale è il lavoro del Mézières; e ne può nascere un giudizio piú o meno esatto dell’uomo, non del suo lavoro.

Né è meno incompetente la critica storica, che isola dall’autore il suo secolo e il suo argomento, e studia il contenuto preso in sé stesso. Un contenuto può essere importante o frivolo, morale o immorale, religioso o irreligioso, sviluppato poco o molto, trattato secondo questa o quella scuola, con questo o quel concetto, col tale o tale scopo e indirizzo. Ricerche importanti senza dubbio, ma dalle quali non può uscire un giudizio dell’opera d’arte.

Ciascuna di queste critiche ha la sua ragion d’essere e la sua utilitá, ma ciascuna nè’ suoi limiti; quando li oltrepassa, cade nel falso.

Finché la critica formale giudica belle certe forme di dire o certi concetti, o certe immagini, o certe movenze, fa opera utile. Ma, quando secondo quei criterii giudica l’opera, e dichiara bellezza della Divina Commedia le bellezze del padre Cesari, perverte il gusto e impedantisce.

La critica psicologica ci può spiegare con le qualitá dello scrittore perché la materia sia stata trattata in questo o quel modo; ma non è in sua facoltá di dare un giudizio sulla bontá del modo. E parimente la critica storica può girare di qua e di lá, quanto vuole, il contenuto; ma non vi troverá mai [p. 10 modifica]il segreto della sua trasformazione sotto il possente alito del creatore.

Da queste mezze critiche sono usciti mezzi giudizii, vale a dire falsi giudizii.

Dalla critica formale è uscito un falso Canzoniere, dove sono additate come belle le poesie piú luccicanti di tropi, di antitesi e di concetti, le piú lontane dal semplice, dal naturale e dal vero; e ne è uscito non il Petrarca, ma il petrarchismo, la corruzione del Petrarca.

Dalla critica psicologica è uscito un Petrarca romanzesco, un sant’Agostino e un Abelardo mescolati, col suo misticismo, con le sue veglie, con le sue lotte interne, con le sue solitudini. Il sentimentalismo moderno è penetrato nel Canzoniere con non so quale odore di misticismo e di monachismo: Jacopo Ortis, che si tira dietro Adelaide e Comingio. Il romanzo spinto all’ultima punta ti dá il Petrarca di Lamartine, dove Petrarca è Davide, e Laura è santa Teresa.

Dalla critica storica è uscita una Laura simbolica e romantica ed il casto Petrarca, un ideale cristiano platonico della donna e dell’amore, una poesia tutta moderna, dove con velo candidissimo è coperta la nuditá di Grecia e di Roma.

Tutti mezzi giudizii, tutti falsi giudizii.

Volendo anche ammetterli veri, non si comprende come sieno sufficienti a spiegare l’eccellenza del Canzoniere. Un uomo può usar concetti e modi eleganti di dire; può amare come Abelardo, e può della donna sua farsi il piú alto spirituale concetto: non perciò scriverá il Canzoniere. Abbiamo piuttosto in quei giudizii caratteri comuni a tutto un ciclo poetico, a tutto un secolo. Ma il comune non ci dará mai ragione del valore intrinseco dí un lavoro, posto non in ciò che esso ha di comune col secolo, con la scuola, co’ predecessori, ma in ciò che ha di proprio e incomunicabile.

Di questi mezzi giudizii sono visibili le tracce nell’ultimo lavoro del Mézières. Si trova innanzi un Petrarca screditato per l’uso appunto di quei concetti e di quelle forme che piacevano tanto al Bembo e al Muratori, e che venivano [p. 11 modifica]condannate dal buon gusto francese fin da quel tempo che Montaigne scriveva: «Laissons lá Bembo»... Il povero Petrarca, giunto in Francia attraverso i petrarchisti, era stimato un faiseur de sonnets et de chansons; ed è per rialzare il Petrarca nell’opinione e ristaurare il suo monumento che Mézières ha preso la penna. Il pubblico incredulo avea volto in riso un amore manifestato con tanta rettorica e con una cosí ingegnosa galanteria; e la grande preoccupazione dello scrittore francese è purificare il Petrarca di questi rimproveri e restituire nella sua serietá il Canzoniere.

La passione del Petrarca secondo lui è vera e profonda; e, se nella sua espressione c’è rettorica., si dee attribuire al vezzo de’ tempi, alle corti d’amore, alle conversazioni galanti di Avignone, al cattivo gusto delle stesse donne e ad una naturale acutezza del suo spirito. La passione durò sette anni: poi i viaggi, la solitudine, la castitá e fierezza di Laura calmarono l’amore e lo trasportarono dalla regione inquieta del sentimento in quella piú serena dell’arte. L’amante divenuto poeta potè idealizzare l’amata secondo le correnti teorie platoniche, vedere in lei non Laura solo, ma la Donna, e non la Donna solo, ma tutto ciò che è perfezione, Dio. Cosi l’amore divenne casto e virtuoso, amore d’anima, amicizia spirituale, ma sempre sincera e viva: e il Mézières a prova cita brani di sonetti e canzoni, dove si vede non dubbia la sinceritá del sentimento.

E a tutti evidente ciò che c’è di gratuito e provvisorio in queste ipotesi e spiegazioni. Ammettiamo, quantunque senza prove, che la passione del Petrarca sia durata sette anni. Bisognerebbe ora determinare quali poesie si riferiscono a quei sette anni; quando comincia l’amor platonico; quando si accende la lotta nel cuore dell’amante; quando il sentimento si trasforma in arte; e perché ora scrive cosí affettato, ora cosí vivo e semplice. Ma, come distinzioni simili è impossibile a fissarle nel Canzoniere, con questi metodi arbitrarti e soggettivi si riesce a costruire de’ romanzi, non a stabilire una critica seria.

Si è formato il petrarchismo su’ concetti, le antitesi e [p. 12 modifica]i lumi rettorici del Petrarca. E questa critica è antica. Ma la critica moderna forma un’altra specie di petrarchismo, quando prende per base dell’arte il concetto platonico, che, ringiovanito, rabbellito, sotto forme piú profonde e piú seducenti, si è insinuato ne’ nostri libri e nelle nostre scuole e corrompe arte e gusto.

Secondo questa scuola, il reale, il vivente è arte, in quanto oltrepassi la sua forma e riveli il suo concetto o la sua idea. Il bello è manifestazione dell’idea. L’arte è l’ideale, «una certa idea». Il corpo si assottiglia e diviene innanzi alla contemplazione dell’artista ombra dell’anima, «il bel velo». Il mondo poetico è popolato di fantasmi, e il poeta, l’eterno rêveur, vede un po’ come l’uomo brillo, vede i corpi ondeggiargli innanzi e perdere i contorni e trasformare gli aspetti. Non solo i corpi si assottigliano a forme o fantasmi, ma le forme e i fantasmi essi medesimi diventano libere manifestazioni di ogni idea e di ogni concetto. La teoria dell’ideale è stata spinta sino all’ultima sua vittoria, alla dissoluzione dello stesso fantasma, al concetto come concetto, divenuta la forma un mero accessorio.

Son queste le idee che fanno il giro del mondo, e non è a maravigliare che con questo indirizzo il poeta opera come critico: parte da preconcetti, disprezza troppo le forme e le tratta quasi come semplici istrumenti del suo pensiero, e talora, in luogo di persone vive, ci dá allegorie, simboli, astrazioni.

Cosi è avvenuto che il vago, l’indeciso, l’ondeggiante, il vaporoso, il celeste, l’aereo, il velato, l’angelico è salito in onore nelle forme dell’arte; e nella critica è in voga il bello, l’ideale, l’infinito, il genio, il concetto, l’idea, il vero, e il sovrintelligibile, e il soprasensibile, l’ente e l’esistente, e tante altre generalitá, gittate in formole barbare quasi come le scolastiche, dalle quali a cosí gran fatica eravamo usciti.

L’uomo sano e forte non si propone mai un di lá irraggiungibile, una certa idea, un non so che, una qualche cosa, un obbiettivo indistinto e confuso, decorato col nome d’ideale. Egli ha in vista uno scopo chiaro, ben circoscritto, quello solo che si sente la forza di ottenere. Agli sciocchi par gran cosa [p. 13 modifica]avere i concetti larghi di lá da quello che si possa ragionevolmente conseguire: per l’uomo di senno è indizio questo di poca forza; perché tanto lavora piú l’immaginazione, quanto il corpo è piú debole; tanto sono i desiderii piú vivaci e meno limitati, quanto minore è la speranza di darvi effetto.

E quello che è degl’individui è ancora de’ popoli. Il popolo che ha saputo fare piú grandi cose e lasciare vestigi immortali di forza d’animo e di corpo, fu il popolo piú positivo della terra, il meno tormentato dalla terribile malattia dell’ideale, fu il popolo romano. E oggi il popolo piú forte e perciò il meno contemplativo, il meno braminico, il meno idealista, è il popolo americano. La razza autrice del motto: «il tempo è moneta», sente che un minuto dato al rêve è un minuto tolto all’azione; e non fantastica, ma opera.

Insisto, perché è questa la gran malattia da cui si dovrebbe guarire l’Italia. E lo può, perché non le è ingenita. Il paese di Scipione e di Cesare, di Dante e Machiavelli, ha da natura la chiarezza dell’obbiettivo, perché ha la forza di attuarlo. Anche oggi, nel piú fiero imperversare del male, vediamo i due nostri maggiori poeti, Leopardi e Manzoni, immuni da questa lebbra, rivelatisi italiani nella perfetta luciditá e concretezza de’ loro concetti e delle loro immagini.

Quando queste teorie si affacciavano tra noi, trovavano la materia ben disposta. Il paese era diviso, umiliato, sgovernato; il pensiero nazionale, ricacciato al di dentro, senza modo possibile di manifestazione, altro che settaria, allusiva, a doppio senso, convenzionale, gesuiteria e ipocrisia dei tempi: onde l’incredibile interpretazione data dal Rossetti, settario, della Divina Commedia e di altri lavori dei nostri antichi. Respinto violentemente il pensiero in sé stesso, e mancatogli il sano nutrimento della vita attiva, e costretto a cibarsi la sua propria sostanza, ammalava: e la malattia fu alzata a teoria, e fu chiamata l’ideale.

Il pensiero, che lavora sopra sé stesso, fa come uomo ridotto in solitudine e segregato dai viventi. Manca l’azione e supplisce il rêve, manca il mondo materiale e succede un mondo [p. 14 modifica]di fantasia: l’ozio non è solo padre de’ vizii, ma è padre de’ sogni. Le forme perdono i contorni; i concetti e i desiderii, confusi il limite e il tempo, divagano come raggi non piú attratti dal centro. Fenomeno che talora si manifesta nel carcere solitario o nella febbre, e spiega le estasi monacali e le stravaganze del misticismo e dello spiritualismo ridotto a spiritismo.

L’ideale è proprio della vita iniziale, ne’ popoli e negl’individui ancor giovani; e allora è segno di forza. Le vive immaginazioni prenunziano le grandi azioni. L’anima giovinetta, nuova ancora della vita, la circonda di tutti i tesori della sua fresca immaginazione, impaziente di possederla e di goderla. E l’etá rappresentata da Giacomo Leopardi con l’angoscia di sentirsene lontano per sempre.

L’immaginazione giovanile esprime sovrabbondanza di forza, a cui manca ancora un campo adeguato, ma che confida di trovarlo: onde l’audacia e la credulitá, le due qualitá cosí amabili della gioventú. Gli è un po’ come del fanciullo, i cui moti incomposti e vivaci sono il primo apparire della forza, allegra e inconsapevole.

Come si va innanzi negli anni, con la misura della nostra forza sorge neU’anima la misura dell’ideale. E ideate misurato, è ideale ammazzato. L’uomo allora, l’uomo forte, vuole ciò che può, e caccia via da sé il mondo de’ sogni e de’ desiderii. Achille lascia Sciro e prende possesso della vita. L’uomo volge le spalle alla giovinezza ed entra nella virilitá. L’ideale, cacciato dal cielo, si fa umano, e conquista il limite, diviene forma a contorni determinati e chiari, diviene il reale. E questo è ciò che vede il grande uomo, questo desidera e questo conquista.

Nella favola di Achille in Sciro, di Telemaco e Calipso, di Enea e Didone, l’antichitá rappresentò questo passaggio alla virilitá, della quale sentiva cosí altamente il prezzo. Oggi, al contrario, grazie alle nuove teorie, è sorta un’adorazione postuma della giovinezza, un desiderio sconsolato di quelle illusioni, un lamento funebre dell’ideale collocato a rovescio, vale a dire dietro le spalle, ed una simulazione rettorica, chiamata [p. 15 modifica]poesia, di etá, di costumi, di forme e d’idee estranee alla coscienza e in mescolanza con tutto il resto. Cosi la nostra vita ha perduto la sua unitá e semplicitá; e ci dibattiamo fra il reale vivo e presente e l’ideale di ritorno, l’ideale riflesso, l’ideale consapevole, e simili formole.

Certo, la ristaurazione dell’ideale, quando la vita sociale era in aperta dissoluzione e quasi putrefatta, è l’orgoglio di due generazioni, è il maggior titolo di gloria di questo secolo, è la seconda giovanezza, è la vita nuova: è la giovine Germania, la giovine Francia, la giovane Italia.

Ma questa giovinezza dura troppo tempo fra noi. E poiché abbiamo conquistato e possediamo una patria, e piú di libertá che non ne sappiamo usare, mi par tempo di abbandonare le nenie dell’ideale e fermar bene i piedi in terra.

Quando in Italia sorse la scuola purista, i gesuiti la combattevano e predicavano il latino. Ma quando quel purismo fu riconosciuto vuoto, e si alzò a scuola di libero pensiero, i gesuiti corsero appresso a quel vuoto e si fecero puristi e ci diedero il padre Bresciani.

L’ideale, come il purismo, fu una grand’arme di guerra, che ci ha resi grandi servigi, e che oggi è irrugginita, non taglia piú. Ci è tutto un vocabolario, le cui parole facevano giá tremare i nostri cuori, e che oggi non hanno senso, e giungono fredde in mezzo ad una generazione indifferente. Noi ce la prendiamo con la generazione, e dovremmo prendercela col vocabolario, e pensare a mutarlo. La reazione oggi si fa idealista, come un tempo si fece purista, e ruba il nostro vocabolario e usurpa le nostre spoglie, vuote spoglie, sotto le quali non c’è piú Achille. Natura abhorret a vacuo. Lasciamo il vuoto a’ cadaveri; e noi che ci chiamiamo la vita, cerchiamo il possesso e il godimento della vita.

E un quarto di secolo che in Germania e in Francia nessuno parla piú d’ideale, 0 chi ne parla è tenuto in conto di arcade, di retore, di dottrinario: nome dato a gente a cui nella superbia delle dottrine manca il senso del pratico e del reale.

Presso di noi il pensiero da tempo in qua è rimasto [p. 16 modifica]immobilizzato come in acqua stagnante; e senti ancora l’ideale e l’essere e il concetto e il bello e il buono e il vero, e parole simili, stanca ripetizione di un tempo che fu. Ciò che era scuola, oggi è Arcadia; e ciò che era eloquenza, oggi è rettorica.

Non si può dir quanto male faccia questo ideale postumo. Ne nasce un distacco profondo tra il pensiero e la vita. Nell’anima de’ giovani si generano concetti e desiderii inattuabili e con la coscienza di non potersi attuare: di qui una pratica altra dalla teoria, e tanto orgoglio di principii, quanta bassezza e codardia di opere. Altrove sarebbe questa la falsitá in permanenza; presso di noi si confessa cinicamente ed è tenuta cosa naturale. Ci è nell’anima, frutto di mala educazione, come un doppio essere, lo scolare e l’uomo, in buonissima compagnia: l’uomo è fiacco e indulgente, ma si tien caro lo scolare per la sua comparsa in pubblico. Educato a porre troppo alto la mira, ve la tien su a pompa e a cerimonia; e non si esercita a colpire, non acquista il sentimento e l’abito della forza, né la coscienza della misura, non prende in serietá quello che pensa o desidera, e si avvezza non ad operare, ma a vuoto fantasticare. Riempiendo la mente di non so che, e di non so come, di concetti mal definiti e di forme mal limitate, e sotto nome d’ideale appagandosi dell’indefinito e dell’astratto, i piú eletti ingegni cadono in un certo vagabondaggio, per il quale i pensieri scappano in qua e in lá in tutte le direzioni senza trovar mai il centro ove fissarsi. Conosco giovani che a trent’anni non sanno ancora quello che si debbano fare della vita, o del cervello; e senza indirizzo chiaro e stabile nel pensiero e nell’opera, posti a cavallo tra due generazioni, cavalieri erranti spostati, non sanno assimilarsi l’una né precorrere all’altra, e vivono come avventurieri, deridendo e derisi. Per Dio! in altri paesi a diciotto anni si è giá un uomo e si ha vergogna di esser chiamato un giovane, e si guarda giá diritto innanzi a sé, e si prende la via, e non si torce l’occhio a dritta ed a manca. Vogliamo noi dunque ancora fanciulleggiare, uomini con tanto di barba, con l’ideale, e le forme sottili, e i veli trasparenti, e il Deus in nobis, e Amore «che detta [p. 17 modifica]dentro», e la «certa idea» di Raffaello, e il «qualche cosa» di Chénier, e le perdute illusioni, e il mistero della vita, e l’entusiasmo, il genio, il furore poetico, e i tipi, e gli archetipi, e la Donna che al ciel conduce, con una santa maledizione alla terra e alla vita che chiamiamo la prosa? La storia mostra accanto alle estasi di santa Teresa i baccanali di Lucrezia Borgia; quando al sommo della scala trovi il misticismo, giura che in giú è tutto bigottismo e superstizione e ipocrisia; spiritualismo in alto significa il piú abbietto materialismo in basso; né è maraviglia che, con tanto ideale nelle nostre scuole, si sia sviluppata oggi tanta febbre di subiti e illeciti guadagni, con tanto rapido oscurarsi di ogni senso morale.

Entriamo nelle nostre scuole. La facciata è magnifica, è la enciclopedia. Lá dentro sta tutto lo scibile, ma ridotto in pillole, meccanizzato a domande e risposte. Piú vasto è l’orizzonte, meno serii e meno profondi sono gli studii. Appunto perché vogliamo abbracciar troppo, rimaniamo nel campo di un vuoto ideale, cioè a dire dell’indeterminato, del superficiale, del provvisorio, del luogo comune, de’ mezzi giudizii. Niente possiamo approfondare, niente assimilarci e far cosa nostra: siamo troppo incalzati e distratti da tanta moltiplicitá e varietá. Non ci è una base larga e stabile su cui s’innalzi l’edificio; non ci è subordinazione e coordinazione: tutto è staccato, tutto è fragile, e si è tutti a comandare, e ciascuno lavora per conto suo. É difficile cogliere un giovine a mettere in iscritto quello solo e proprio che sta nel suo animo: scrivere è mentire. Spesso ne incontri che sgrammaticano e solecizzano, inetti a scrivere e a intendere, e che pure con perfetta sicurezza sentenziano del buono e del bello, e giudicano di Omero e di Dante. Chi ci libera dunque da tante estetiche, da tante arti dello scrivere, da tante storie e da tanti trattati?

Non ci è unitá organica nell’insegnamento, non ci è fascio negli studii, non ci è correzione e sinceritá nell’espressione, non ci è la viva e seria partecipazione del discepolo a quello che impara; la teoria abbonda, desideri il laboratorio. E, per ridurre tutto in uno, manca la proporzione tra quello che è [p. 18 modifica]nell’idea e quello che è nel fatto; ci è troppo ideale e poco reale; ci è il fine in sé stesso e slegato da’ mezzi di attuarlo, e, come ce n’è insieme la coscienza, vagheggiamo il fine e poco ci curiamo de’ mezzi: ond’è che il nostro ideale non è serio, è velleitá, non è volontá, e lo trovi solo sulla facciata delle scuole, «e non vi abita piú fuorché in iscritto».

Cosa resta a fare? Capovolgere la base dello scibile, e dov’è scritto ideale, metterci reale. Comprendo che presso gli uomini sensati l’ideale è il reale esso medesimo, e che i grandi poeti e i grandi critici non errano, non dividono quello che è uno. Ma una scienza si giudica non dalla teoria, ma dall’indirizzo o dalle tendenze che produce. Elvezio vi dimostrerá inappuntabile la sua teoria, e si dirá calunniato non meno che Epicuro. Egli vi spiegherá sanamente il suo interesse e il suo utile; ma una volta messo a capo della scala l’interesse «bene inteso», l’interesse col comento e con la spiegazione, la societá si piglia il testo e lascia il comento. Simile dell’ideale. Dite pure che natura e spirito, pensiero e materia, essere e. nulla, ideale e reale sono distinzioni logiche, ma che nel fatto l’uno è l’altro, l’uno non si può concepir senza l’altro. Spiegate, distinguete, riunite, fate le vostre riserve: lavoro inutile. L’impulso è dato, e non valgono spiegazioni. Ciò che nella scienza è elemento nuovo o aggiunto, rimane esso il principale, anzi il solo, e tutto l’altro si trascura. Incalzati dal sensismo, ci siamo gittati all’ideale come a nostra tavola di salvezza, e ne abbiamo rivendicata l’esistenza, e lo abbiamo fiutato e scoperto in tutti i viventi, nell’arte e nella natura. Il principale problema, che abbiamo cercato di risolvere è stato di trovare l’idea, il concetto, il di lá, l’ideale in ogni esistente, e tutto giudicare dalla bontá e dal valore del concetto, messo a base della nostra filosofia della storia e della nostra filosofia dell’arte. Qual maraviglia che, posta questa base e dato l’impulso, le spiegazioni, le cautele, i distinguo non son valsi a nulla, e l’ideale è stato messo in trono, esso solo padrone, e padrone assoluto? Il maestro parla savio; ma i discepoli non tengono a mente di tutto il periodo che il verbo principale, le mot d’ordre. Cosi, [p. 19 modifica]malgrado la sanitá delle dottrine, ne’ libri, nelle scuole, nella pratica si è ingenerato un disprezzo ed un’incuria della vita reale, che chiamiamo la prosa, quasi non fosse ella la base e la fonte di ogni vera e alta poesia; e, insieme un superbo disdegno della forma considerata come ostacolo all’altezza dell’ideale e tollerata come sua veste e manto, anzi velo: e piú nega sé stessa, piú è ragionevole, consapevole, pensata, e piú è avuta in pregio.

Quando le forme erano considerate come belle in sé, idoli vuoti, avemmo un Petrarca meccanizzato, il petrarchismo; quando le forme divennero sottili, ondeggianti, ombre del vero, veli del concetto, avemmo un Petrarca idealizzato, un petrarchismo platonico. Mi par tempo di lasciar da parte Bembo e Schlegel, Davide e santa Teresa, e cercare attraverso il doppio petrarchismo il Petrarca.

Vedremo allora che lá dove Petrarca ci appare negletto e rozzo, vi sono tesori di poesia piú schietti di tutte le sue registrate eleganze; e lá dove gitta a mare il suo platonismo, e dá libero volo alla sua immaginazione e alle sue impressioni, raggiunge il piú alto segno dell’arte. Piú nella sua forma ci è di spirito e di pensiero e di concetto, e piú ci scostiamo dalla poesia; piú ci è lá dentro passione, calore d’immaginazione, impressione, voluttá, malinconia, e piú ci sentiamo in arte.

Il grande artista è colui che vince e doma e uccide in sé l’ideale, cioè a dire lo realizza, produce una forma, nella quale si appaghi e obblii tutto, obblii in modo che, quando altri domandi cosa è lá dentro, risponda: — Una certa idea, una qualche cosa, un non so che — , cioè a dire nulla: la forma è lá, e la forma è tutto. La forma è il bambino del nostro cervello; e il problema dell’arte è di sapere se quel cervello ha forza produttiva, e se quel bambino è creatura vivente, è nato vivo. Disputate pure intorno alla qualitá della forma, se sia sottile o corpulenta, bella o brutta, morale o immorale, e del suo concetto, e ciò che ci è di reale e ciò che ci è d’ideale: l’essenziale è che sia innanzi tutto una forma. Che nell’arte non si ammetta mediocritá è un concetto profondo; perché non ci è [p. 20 modifica]il più o il meno vivo, c’è il vivo o il morto; ci è il poeta e c’è il non poeta, il cervello eunuco.

L’indeterminato, il confuso, l’abbozzato, lo scarno, l’aftettato, l’esagerato, il concettoso, rallegorico, l’astratto, il generale, il particolare, tutto questo non è forma; è il contrario della forma, è l’informe e il deforme, è l’impotenza; e rivela velleitá, non volontá di produzione. Sotto questo rispetto, l’essenza dell’arte non è l’ideale né il bello, ma il vivente, la forma; anche il brutto appartiene all’arte come alla natura; anche il brutto è vivente: fuori del regno dell’arte si trova solo l’informe e il deforme. La Taide di Malebolge è piú viva e piú poetica di Beatrice, quando è pura allegoria e risponde a combinazioni astratte. Il bello! Ditemi dunque se ci è cosa alcuna sí bella come Jago, forma uscita dal piú profondo della vita reale, cosí piena, cosí concreta, cosí in tutte le sue parti, in tutte le sue gradazioni finita, una delle piú belle creature dèi mondo poetico. Ma quando ci lanciamo a gonfie vele in una regione anteriore alla forma, a forza di bisticciare sull’idea, sul concetto, sul bello reale, morale, intellettuale, confondendo il vero filosofico e morale col vero estetico, e snaturando le impressioni, noi chiamiamo brutto una gran parte del mondo poetico, e gli diamo il passaporto unicamente come contrasto, antagonismo, rilievo del bello; e accettiamo Mefistofele come rilievo di Faust, e Jago come rilievo di Otello. Cosi la buona gente credeva in illo tempore che gli astri stanno li per tenere la candela alla terra.

Se nel vestibolo dell’arte volete una statua, metteteci la forma, e in quella mirate e studiate, da quella sia il principio. Innanzi alla forma ci sta quello che era innanzi alla creazione: il caos. Certo, il caos è qualche cosa di rispettabile, e la sua storia è molto interessante: la scienza non ha detto l’ultima parola su questo mondo anteriore di elementi in fermentazione. Anche l’arte ha il suo mondo anteriore; anche l’arte ha la sua geologia, nata pur ieri e appena abbozzata, scienza sui generis, che non è critica, né estetica. Apparisce l’estetica quando apparisce la forma, nella quale Quel mondo è calato, fuso, [p. 21 modifica]dimenticato e perduto. La forma è sé medesima, come l’individuo è sé stesso, e non ci è teoria tanto distruttiva dell’arte quanto quel continuo riempirci gli orecchi del bello, manifestazione, veste, luce, velo del vero o dell’idea. Il mondo estetico non è parvenza, ma è sostanza, anzi è esso la sostanza, il vivente; i suoi criterii, la sua ragione di esistere non è in altro che in questo solo motto: — Io vivo — . I nostri sensi bastano a farci comprendere della natura quello che è vivo e quello che è morto; nel regno dell’arte il senso del vivo, del reale è poco sviluppato, e non di rado avviene che i critici ragionino lungamente d’un’opera d’arte, come di cosa viva, ed è nata morta, e la chiamano bella, e ci trovano l’ideale, e l’alzano a modello! Lasciamo tranquilli coloro che oggi son detti poeti; ma quanto tempo non si è sciupato sulla Basvilleide di Vincenzo Monti? E non è popolo artistico se non quello che sappia misurare l’infinita distanza che separa l’ingegno dal talento, la creazione dall’aggregazione, e intenda perché sono collocati sí alto Omero, Dante, Shakespeare, Ariosto. Ma se vogliamo acquistare il senso del vivo, cominciamo col rovesciare i termini del problema estetico, e domandare al poeta non quanto abbia saputo idealizzare, ma quanto abbia potuto realizzare. In luogo di artializer la nature, proviamoci a naturalizer l’art.

Un lavoro resta a fare, ed è determinare ciò che è vivo e ciò che è morto. E ci accorgeremo che nel Petrarca è morto tutto ciò che ò imitato ed imitabile, il doppio petrarchismo, il rettorico ed il platonico. Molto vi è rimasto di vivo; e intenderemo pure che, se in questa vita ci è il manchevole e lo stanco e il meccanico, gli è perché non abbondò in lui, come ne’ sommi, la potenza generativa, la virilitá, la forza del realizzare; giungendo a questa conclusione, che quello che gl’idealisti reputano a sua gloria, fu appunto sua debolezza.

Un lavoro cosí fatto non sará il panegirico del Petrarca, ma sará il Petrarca vero, come lo desiderava Mézières.

  1. Questo lavoro, pubblicato ultimamente dal nostro autore sull’Antologia di Firenze, ci è parso come un’acconcia introduzione a quest’opera.