Saggi critici/Giudizio di Gervinus sopra Alfieri e Foscolo

Giudizio di Gervinus sopra Alfieri e Foscolo

../«Sulla mitologia». Sermone di Vincenzo Monti alla marchesa Antonietta Costa ../Versioni e comenti di liriche tedesche IncludiIntestazione 6 marzo 2023 75% Da definire

Giudizio di Gervinus sopra Alfieri e Foscolo
«Sulla mitologia». Sermone di Vincenzo Monti alla marchesa Antonietta Costa Versioni e comenti di liriche tedesche
[p. 187 modifica]

[ i5 ]

GIUDIZIO DEL GERVINUS
SOPRA ALFIERI E FOSCOLO


Chi ha letto il capitolo del Gervinus intorno alle condizioni letterarie dell’Italia nel secolo XIX, pubblicato testé nel «Cimento», ha potuto vedere con quanto senno l’autore, senza interrompere mai la narrazione, com’è debito dello storico, ha saputo darci un giudizio compiuto della nostra letteratura; e dico compiuto per rispetto al suo scopo. Io debbo rifare il suo lavoro non come storico, ma come critico, studiandomi di afferrare le questioni essenziali, che sono come il fondamento di tutta la sua esposizione.

E innanzi tutto i fatti da lui addotti sono esatti? Sono compiuti? Né l’uno, né l’altro, parmi. Non è esatto, per esempio, che la lettura del Machiavelli abbia acceso in Alfieri quel sentimento politico, di cui s’informarono i suoi lavori; né che le sue prime idee politiche le abbia attinte da Plutarco. L’autore ha dimenticato l’azione efficace che ebbero su di Alfieri le idee del secolo decimottavo, che si manifestarono con tanta facondia in Beccaria, in Filangieri, in Mario Pagano. Potrei notare alcune altre inesattezze, ma come tutto questo è accidentale e secondario, e non tocca le basi del suo giudizio, non vo’ fargli il pedante. Piú grave rimprovero si può fare allo storico. Come? voi mi parlate della letteratura italiana da Alfieri a Manzoni, e non fate menzione, taccio i minori, del Berchet, del Giusti e del Leopardi? Lascio stare la loro grandezza. Ma anche sotto [p. 188 modifica]l’aspetto politico è difficile trovare scrittori, che abbiano avuto maggior potere sulle immaginazioni: le loro poesie sono una storia idealizzata di tutte le illusioni, le speranze, le disperazioni, i dolori, gli affetti della gioventú italiana.

Del rimanente, quanto ai fatti, si può fare questa osservazione generale. Uno storico che scriva libero da ogni preoccupazione e che non ha in mira questo o quel principio, si può consultare sicuramente. Il Gervinus non appartiene a questo genere di scrittori. Si vede in lui il tedesco, il protestante ed il moderato: prima di consultare i fatti, egli ha giá in capo tutto un sistema a priori. In questo caso la storia è meno una schietta narrazione, che una raccolta di fatti a corroborazione di un sistema. Quando lo storico è coscienzioso e probo, come il Gervinus, egli non altera i fatti, non mutila, non tace a disegno. Ma questa maliziosa falsificazione della storia è la meno pericolosa; è facile prenderne guardia. Pericolosissimi al contrario sono gli storici di buona fede, i quali travisano con tanto piú efficacia i fatti, quanto meno ne hanno coscienza. Trasportati da idee preconcette, se ne appassionano, ed a lungo andare elle diventano come un prisma, in cui si colorano tutti i fatti. La falsificazione allora è nello stile, nella gradazione delle idee accessorie, nella scelta de’ particolari, in certe forme di dire e giri e figure che servono a dar rilievo o a gittare nell’ombra, nella distribuzione e proporzione de’ colori. Leggete l’Introduzione del Gervinus. Avendo innanzi un numero immenso di fatti, vedete con quanta diligenza la narrazione è ordita, in modo che grandeggi sempre e attiri la vista l’elemento germanico-protestante. Leggete qui la sua vita di Ugo Foscolo. Con quanta compiacenza nota tutte le contraddizioni della sua condotta! Con quanta leggerezza parla delle sue angosce per l’onta e la caduta della patria! Con che magistero di stile sa far riflettere sulla vita pubblica i torti della sua vita privata! Lo scrittore animandosi, a poco a poco si scopre, e da ultimo il narratore prende aspetto di giudice, e la vita si trasforma in una requisitoria. Tutto ciò è fatto con molta calma di esposizione, e con un’apparente imparzialitá, che concilia fede alle sue [p. 189 modifica]affermazioni. Non conosco arma piú violenta, che la moderazione del linguaggio accompagnata con la buona fede: ne nasce una persuasione irresistibile.

E quando la storia cessa cosí di esser sé stessa, e si pone a’ servigi di questo o quel sistema, e si fa istrumento di questa o quella politica, i fatti non sono piú il sostanziale, ed il critico deve guardare principalmente al sistema che è come l’anima segreta di tutta la narrazione. Cosi va esaminata la storia del Gervinus; e cosí questo capitolo. Qui l’esposizione, che in apparenza è il tutto, è solo una veste acconcia e trapunta in modo che l’opinione dello storico ne acquisti lume e grazia. Parlando del Carmagnola e dell’Adelchi, egli dice: «i denti ringhiosi del Foscolo si mutano qui in labbra supplichevoli». Sembra ch’ei narri: eppure le vivaci immagini da lui scelte per qualificare le due maniere del Foscolo e del Manzoni, vi fanno lampeggiare innanzi alla mente tutto un ordine d’idee morali e politiche che determinano il suo giudizio. Adunque senza tener dietro alla storica esposizione, noi vogliamo esaminare quali sono queste idee fondamentali, ed i giudizii che ne sono conseguenza.

Il Gervinus disapprova una letteratura classica e che abbia tendenze politiche. Il classicismo ci pone innanzi una societá morta. Nella letteratura politica non può dominare nella sua purezza l’ideale artistico. Egli vuole una letteratura popolare cavata dall’intimo della nazione, e l’arte e la scienza in una compiuta indipendenza.

Non ci è alcuno che non abbia oggi la stessa opinione: è il progresso del secolo. Un’epoca storica non va però giudicata col criterio presente. Le epoche storiche sono momenti transitorii, che non rispondono a nessun concetto assoluto. Verrá un tempo, che il concetto di umanitá sará sostituito a quello di nazionalitá; né però gli storici futuri avranno il diritto di censurare il movimento nazionale odierno.

Ciascuna epoca si propone uno scopo determinato, verso del quale converge tutta la vita intellettuale, morale e politica, e tutto questo messo insieme, è quello che i francesi chiamano lo spirito di un’epoca. Lo storico dee studiarsi di comprenderla [p. 190 modifica]e spiegarla, e giudicarla secondo la propria natura e non secondo un concetto a lei estraneo.

Il Gervinus biasima Alfieri e Foscolo di aver dato alle lettere un indirizzo classico-politico. Col loro classicismo essi scelsero ad ideale un esagerato amor di gloria e l’antico patriottismo. E valendosi delle lettere a propaganda politica, sacrificarono a fini estranei le ragioni dell’arte. E però dannosa fu l’influenza che essi ebbero in Italia sotto l’aspetto letterario e politico; poiché da una parte scostarono i giovani dal puro amore dell’arte; e dall’altra li avvezzarono a preporre imprese romorose al vero utile della nazione, a rinchiudere la morale nel concetto della patria, a non misurare le proprie forze, a voler correre di salto alla meta senza la lenta preparazione, che solo rende possibile il buon successo. Avrebbe voluto che la letteratura avesse mirato all’educazione della plebe, a rammendare i costumi e rintegrare la morale, cosa possibile anche sotto il dispotismo, ad inculcare miglioramenti immediati e possibili in luogo di guardare all’ultimo fine, all’ultima conseguenza.

L’autore, invece di affrettarsi al biasimo, avrebbe dovuto farsi le seguenti domande: i. Questo indirizzo classico-politico fu una singolaritá di Alfieri e Foscolo, un effetto del loro studio in Plutarco e negli altri antichi, o proprio della vita italiana di quel tempo? e solo della vita italiana? 2. Il classicismo di Alfieri e Foscolo fu solo una vuota forma rettorica, una imitazione letteraria, o aveva sotto di sé qualche cosa di vivo e di moderno? 3. La tendenza politica assorbí in sé l’arte, o fu una semplice materia che essi seppero lavorare ed idealizzare? 4. Quale influenza hanno gli scrittori sulla nuova generazione?

Ciascun vede che ogni giudizio è temerario e necessariamente incompiuto, quando non sia preceduto da questo esame. Lo storico non può togliere i fatti di mezzo al mondo in cui vivono e giudicarli assolutamente.

Nel passato secolo la societá moderna scomparve per un momento davanti al pensiero. Si rifiutò tutto ciò che era lei: religione, morale, politica, come una lunga oppressione che aveva abbastanza pesato sugli uomini. In questa tavola rasa che cosa rimase? [p. 191 modifica]

L’educazione era stata classica da secoli. Il nostro ideale era Roma e Grecia; i nostri eroi Bruto e Catone; i nostri libri Livio, Tacito e Plutarco. E se questo in tutta Europa, quanto piú in Italia, dove questa storia poteva chiamarsi domestica, cosa nostra, parte delle nostre tradizioni, viva ancora agli occhi nelle cittá e ne’ monumenti? Onde da Dante al Machiavelli, dal Machiavelli al Metastasio la nostra tradizione classica non fu mai interrotta. Questo ideale, senza alcun riscontro con la realtá, senza possibile applicazione, era rimaso un ideale da scuola, accademico ed arcadico; e le austere sentenze dell’antichitá, che il Metastasio avea raccolte, quasi codice poetico, in molli ariette canticchiate, gorgheggiate dalle reggie fino alle officine, valevano quello stesso che le massime del Vangelo: si ammiravano e non si ubbidivano; era una perfezione astratta, tenuta superiore all’umanitá e rimasa un ozioso concetto, un ente di ragione. Nella dissoluzione sociale del passato secolo, tutto sparve fuorché quello ideale. Anzi in quel primo entusiasmo, quando gli animi vagheggiavano fidenti l’ultima perfezione, esso dalle scuole passò nella vita, dominò le fantasie, infiammò le volontá; tutto allora sembrava possibile, tutti credettero di poterlo effettuare. Si operò e si mori romanamente. In America le nuove cittá presero nomi greci e romani; in Francia gli uomini si ribattezzarono Bruti, Fabrizii e Catoni; si giunse fino alla pedanteria, fino al grottesco.

Sotto l’aspetto ridicolo ci era però qualche cosa di ben serio: il ridicolo è ito via, il serio è rimasto. La rivoluzione, quantunque generale ne’ suoi principii, fu fatta dalle classi colte, da loro e per loro. Trassero a sé degli aristocratici, ma non l’aristocrazia, de’ principi, ma non il principato, de’ popolani, ma non la plebe. A poco a poco si va allargando, e si fa popolare.

La letteratura dunque non poteva essere allora e non fu popolare. Ella fu ad immagine di quelle classi, nelle quali a quel tempo erasi concentrata la vita intellettuale. La rivoluzione parlò col linguaggio di quelle classi, col linguaggio delle scuole. Pompose sentenze. Citazioni e paragoni greci e romani. Figure rettoriche. Orazioni ciceroniane. Cose moderne in forma antica. [p. 192 modifica]Si faceva guerra al feudalismo con vocaboli tolti alle guerre civili. Qui era il lato ridicolo. Eppure leggendo quelle orazioni e quei proclami e quelle storie voi non ridete: sentite che v’è sotto qualche cosa di serio che vi agghiaccia il riso. Gli uomini valevano meglio del loro linguaggio, e quella forma rettorica aveva per contenuto un mondo nuovo, che con una immagine ancora confusa del suo avvenire riposavasi provvisoriamente in un glorioso passato. Voi ridete quando sentite patria, libertá, eroismo sui banchi delle scuole; voi v’inchinate riverenti, quando le udite in bocca di Mirabeau o di Mario Pagano. Il classicismo nel suo senso piú elevato significa due cose: la patria fatta principio e fine d’ogni virtú; la dignitá dell’uomo, l’agere ed il pati fortia. Questa patria e questa dignitá non viveva piú che nelle scuole. Non vi era si vil cortigiano, che non avesse declamato nei suoi begli anni il civis romanus sum, ed il dulce et decorum est prò patria mori. Tutto questo divenne serio.

La patria antica avea un contenuto suo proprio. Nelle scuole fu nome senza soggetto. Noi prendemmo il nome e vi aggiungemmo un nuovo soggetto. Si può disputare se la patria sia veramente la virtú madre, se vi sia qualche cosa al disopra di lei. Ma gli uomini sono cosí fatti. Quando vogliono uno scopo, comprendono in quello tutti gli altri, quello scopo diviene l’universo. Noi volevamo una patria, e la patria fu per noi tutto. Il classicismo non fu dunque per noi una societá morta: fu la nuova societá sotto nomi antichi. Prendemmo il nome di patria circondata dall’aureola di tutta l’antichitá, e ci ponemmo a fondare la patria moderna. Gli eroi di Plutarco generarono gli eroi del ’99. E quando, dopo si lunga morte di ogni vita pubblica, l’uomo potè chiamarsi cittadino, si senti nel petto l’orgoglio di Muzio.

Fu etá di grandi passioni, l’etá epica della rivoluzione.

Alfieri e Foscolo voi non potete comprenderli, se non me li congiungete con questo movimento. Il classicismo di Alfieri non ha niente di comune col vuoto classicismo del Metastasio, né col classicismo pomposo e un cotal po’ rettorico di Corneille. Le situazioni che Alfieri ha scelte nelle sue tragedie hanno un [p. 193 modifica]visibile legame con lo stato sociale, con i timori, con le speranze di quel tempo. È sempre la resistenza all’oppressione, resistenza di uomo contro uomo, di popoli contro tiranni. Vincitori o vinti, i caratteri rimangono inflessibili: vi è grandezza nelle virtú e nelle colpe. La libertá interiore è conservata sempre: il vinto innanzi alla morte parla con superbia di vincitore: metuendus magis quam metuens. Il Gervinus dice ironicamente che Alfieri non potendo far niente di grande volle almeno dire alcuna cosa di grande. Ma il dire di Alfieri è azione. Non sono frasi ampollose da collegio, senza serietá, senza contenuto. Il dire di Alfieri sgorga dall’intimo della sua anima; egli dice quello che pensa e sente, e pensa e sente quello che è presto a fare. Non è una societá morta ch’egli riproduce: sotto nomi antichi riproduce sé stesso. È una osservazione giá fatta: non v’insisterò. Né solo sé stesso, egli riproduce il suo secolo. Aveva intorno a sé un’eco, che mancò al Metastasio e a Corneille: i suoi versi ripetuti nel segreto delle mura domestiche destavano fremiti e confuse speranze, rilevavano i caratteri, illuminavano l’orizzonte di lampi forieri di tempesta. Nessuna azione fu piú feconda di questo dire di Alfieri. Nel suo dire vi è assai piú i Alfieri e del suo secolo, che di Roma e di Grecia.

Nel classicismo di Alfieri non c’è alcun lato positivo. Invano vi desideri l’antichitá con le sue superstizioni, le sue feste, i suoi costumi: nessun colore locale, nessuna determinazione. È una Roma ed una Grecia ideale, fuori dello spazio e del tempo, fluttuante nel vago. I contemporanei compivano l’immagine aggiungendovi tutto ciò che era intorno a loro. E cosí Alfieri non è mai ridicolo; non innesta mai moderno ed antico; non vi trovi mai grottescamente congiunto, come talora in Racine, il cittadino col Monsieur. L’immagine dell’antichitá separata da tutto ciò che è perituro, da tutti i suoi accidenti, rimane nella sua eterna generalitá, che i contemporanei riempivano di sé stessi. Questo vago ideale rispondeva mirabilmente al suo tempo. Si era allora risvegliata la coscienza dell’oppressione, l’amore della libertá, il sentimento della dignitá umana, ciò che il Gervinus chiama vita antica, ed è vita di tutti i grandi e liberi [p. 194 modifica]popoli. Si volea una patria e non si sapea ancora quale; si presentiva un avvenire che non si sapeva determinare; libertá, patriottismo, dignitá esprimevano piuttosto confuse aspirazioni che idee distinte. Alfieri fu forse l’espressione piú pura e piú fedele di questi sentimenti. La patria di Dante è cosí determinata, che ciascun tempo dee spogliarla di qualche cosa per potersela appropriare: egli è che Dante aveva una patria, e si trovava in mezzo ad interessi politici giá circoscritti. La patria di Alfieri è la patria poetica che vagheggiavano i nostri maggiori: meno la patria greca e romana, che la patria del genere umano. Era l’idea rigeneratrice de’ nostri tempi non ancora entrata nell’azione, non ancora incarnatasi nelle istituzioni, non modificata ancora dagli interessi, l’idea vergine e dea, per la quale morivano Condorcet e Mario Pagano. Vedete, dunque, quanto di vero, quanto di contemporaneo è in questo classicismo di Alfieri.

Quanto piú ci avanziamo, piú questa patria si circoscrive. Alla Virginia succede l’Arnaldo da Brescia: il fondo è lo stesso, i contorni sono diversi. Il contenuto moderno gitta via da sé ogni forma antica: acquistiamo coscienza della vita moderna; studiamo quello che fummo nel medio evo; gittiamo lo sguardo intorno a noi e rappresentiamo la nostra vita sociale: concepiamo quello che dobbiamo essere. In questa nuova situazione il classicismo non ha piú ragione di essere; esso muore romorosamente ne’ sonanti versi del Monti. Il Gervinus ha avuto il torto di confondere il classicismo di Alfieri con quello del Monti e del Metastasio. Che se la nuova situazione per farsi valere ha cominciato col porsi, come opposizione, di riscontro all’antica, se noi concepiamo le polemiche degli Schlegel contro i classici, e gli scritti di Cesare Cantú e di Niccolò Tommaseo contro Alfieri, questo tempo è passato; il Gervinus è giunto troppo tardi. Oggi possiamo render giustizia a tutti; possiamo dire: — Seguiamo Manzoni, e viva Alfieri! —

Quanto all’indirizzo politico dato alle lettere, sarò piú breve. Credono alcuni che la rivoluzione europea sia uscita tutta armata dal cervello de’ letterati. Il contrario è la veritá. Sono i bisogni e gl’interessi politici, che hanno prodotto il movimento [p. 195 modifica]letterario: poesia e filosofia sono state espressione della vasta reazione suscitatasi negli spiriti contro le idee religiose, politiche, morali di quel tempo. L’indirizzo politico dato dunque alla letteratura è un fatto europeo, che non si può attribuire all’Italia, e tanto meno ad Alfieri. Certo sono invidiabili que’ tempi, ne’ quali può dominare il puro spirito scientifico, il puro culto dell’arte. Ciò avviene quando un popolo, signore di sé e dotato di stabili istituzioni, può spandere al di fuori le sue forze vive in tutti i rami dello scibile con una contemplazione serena. Guardate ora un po’, se questo poteva essere consentito a popoli che entravano pur allora in una lotta gigantesca, di cui non vediamo ancora la fine. Certo questo scopo politico, o, per dirlo con una parola piú larga, sociale, a cui sará indirizzata la letteratura insino a che l’Europa non acquisti tali istituzioni, che le concedano un pacifico progresso, toglie all’arte ed alla scienza la pienezza della sua liberta. Si fará della poesia ad uso della patria; della filosofia ad uso della nazione. Se non che, credo che in questo non si possa dare un giudizio assoluto, che non si possa affermare, come fa il Gervinus, che lo scopo politico uccida l’ideale. Ne’ grandi scrittori, che hanno l’istinto dell’arte, la politica non assorbisce in sé la poesia, ma rimane semplice stimolo, motore di grandi affetti e di alte fantasie. Nelle vere poesie vi è sempre qualche cosa di superiore che sopravvive, spento anche quello scopo politico che le si propongono. Guelfi e Ghibellini, Bianchi e Neri sono oramai dimenticati: le passioni, che rosero tanto il cuore di Dante, sono spente, ma non sono spente giá le sublimi creazioni della Divina Commedia alle quali quelle passioni diedero vita. L’esule di Parga e l’ultima delle Fantasie mostrano a quant’altezza di poesia la passione politica abbia levato il Berchet. Taccio del Giusti, incomparabile. La quistione dunque non è se Alfieri siasi proposto uno scopo politico, ma se a quello scopo abbia sacrificato l’ideale tragico. Ora la posteritá è incominciata per Alfieri; le sue allusioni politiche non hanno piú scopo; le idee hanno preso un indirizzo piú pratico; e nondimeno la sua gloria rimane intatta. Anzi è notabile che le sue tragedie piú celebrate [p. 196 modifica]oggi, sono quelle che non hanno alcuno scopo politico, come la Mirra, l’Agamennone, il Saul, segno che il nostro giudizio non è alterato da preoccupazioni politiche. In effetti Alfieri non iscrisse tragedie per inculcare e propagare le sue politiche opinioni; nessuno amò piú la sua arte solo per l’arte; vagheggiò un ideale altissimo di tragica perfezione; si formò un concetto tutto suo della tragedia, pose ne’ suoi tragici lavori ogni sua speranza di gloria, e vi attese con amore e con coscienza. Vi versò entro la politica, come parte di sé, ed il sentirsi egli stesso oppresso e schiavo con tanta coscienza della umana dignitá, con tanta passione di libertá, aggiunge alle sue armonie un suono rotto e cupo simile al fremito dell’uomo che scuote le sue catene, qualche cosa di profondo e di terribile, che scintilli da un fondo oscuro. Se Alfieri abbia aggiunto al suo ideale, se nel suo genere sia tragico perfetto è una quistione estetica che non accade qui trattare. Volevo solo mostrare che il classicismo di Alfieri non ha niente in sé di letterario e di rettorico, che sotto quella forma vi sta tutto lui, tutto il suo tempo, e che la parte politica non è il sostanziale, uno scopo assoluto a cui serva la tragedia alfieriana, ma uno solo de’ suoi elementi, il quale infiamma gli affetti senza nuocere all’arte.

Qual è l’influenza politica che ebbero Alfieri e Foscolo sulle nuove generazioni?

Per dare giudizio di questo è uopo essere vissuto in mezzo al paese, del quale si vuol parlare. Il Gervinus legge la Tirannide di Alfieri, e la biografia di Ugo Foscolo, ed argomenta dalla sua impressione l’influenza di quei due ilustri scrittori sulla gioventú italiana. Trova nella Tirannide tre sentenze, e suppone che in Italia vi sieno partiti, de’ quali chi si sia appigliato all’una e chi all’altra di quelle sentenze. Trova Ugo Foscolo contraddittorio nella sua condotta, e si maraviglia come abbia potuto essere per cosí lungo tempo l’ideale de’ giovani italiani, e si rallegra seco che la gioventú tedesca si sia mostrata piú savia.

Leggete uno scrittore nella vostra stanza: voi ve ne fate un giudizio; uscite in piazza: il giudizio è diverso. La ragione è chiara. Le moltitudini non comprendono di uno scrittore che [p. 197 modifica]solo i sentimenti e le sue idee piú generali. Alfieri dee la sua popolaritá alle sue tragedie; la Tirannide e altri libri non sono letti che da pochi studiosi. In quel tempo si disputava ancora intorno ai principii; il passato aveva messe salde radici non pur nelle plebi, ma nelle stesse classi colte; si fe’ guerra al passato, guerra alla tirannide religiosa e politica. Alfieri non aveva un sistema suo proprio; ciò che vi era di vero o di falso nelle sue opinioni, era il vero ed il falso del suo secolo. Ma egli fu la musa di quelle idee, e diè loro un accento vibrato e concitato, che le fe’ risonare ne’ cuori e nelle fantasie. Alfieri dunque esprime in Italia odio di tirannide, passione di liberta, e non questo o quel sistema politico. Quello che i giovani sentivano, lo ha espresso il giovane Leopardi:

Solo di sua codarda etade indegno
Allobrogo feroce,  .  .  .  .  .  
                         .  .  .  .  .  .  .  privato, inerme.
     (Memorando ardimento!) in su la scena
     Mosse guerra a’ tiranni  .  .  .  .  .  .  
Disdegnando e fremendo, immacolata
     Trasse la vita intera.

Ecco i grandi tratti di Alfieri, rimasi immortali nella memoria degl’italiani. Certo ora la situazione è mutata; ora non basta piú questo vago amore di libertá; non è piú questione di principii, ma di esecuzione; non è piú il tempo di Alfieri, ma di Balbo, di Gioberti, di Rosmini. Verissimo: ma, lo ripeto, uno storico dee giudicare degli uomini secondo i loro tempi: chi se ne mette fuori, esce dal vero. Voi vi maravigliate che la gioventú italiana ammiri Ugo Foscolo! Eh mio Dio! Ugo Foscolo non rappresenta per noi alcun sistema politico, alcun ordine regolato d’idee. Egli è stato un’espressione poetica de’ nostri piú intimi sentimenti, il cuore italiano nell’ultima sua potenza. Non ci sentiamo in lui idealizzati. AÌlo stesso Gervinus non ha potuto sfuggire che la contraddizione di Foscolo era quella di tutti gl’italiani. Nuovi ancora della vita politica, i francesi ci [p. 198 modifica]posero alle piú dure prove. Amavamo i nostri benefattori; odiavamo i nostri padroni; ci era nel nostro cuore un si ed un no. E la vita di Foscolo fu il sentimento angoscioso di questa contraddizione, dalla quale noi non sapemmo uscire: fu la lira della nostra anima. Quest’uomo, ubbriaco di dolore per la caduta della sua patria e per le nostre vergogne, sfoga il suo cuore troppo pieno, maledicendo e bestemmiando; e voi mi chiamate questo delle idee, e volete trovare un sistema logico nel linguaggio di un uomo, il cui cuore sanguina? La logica del cuore è la contraddizione! Dante riprende i pisani di aver condannato a morte non solo Ugolino, ma i suoi figliuoli innocenti, e vorrebbe che l’Arno affogasse ogni pisano, donne e fanciulli, rei ed innocenti, cioè vorrebbe commettere lo stesso peccato che loro rimprovera. È un difetto di logica! Come se il cuore fosse nel cervello.

Se l’influenza che Alfieri e Foscolo ebbero sugli italiani, sia stata utile o dannosa, non disputerò, poiché dovrei esaminare il sistema politico, secondo il quale l’autore trova biasimevole quella influenza. Una sola cosa dirò. Credete voi che in tanto fervore d’idee, in tanta tempesta di avvenimenti, i popoli avessero dovuto dire: — Arrestiamoci! il mondo cammina lentamente: abbiamo contro gli interessi dell’aristocrazia e l’ignoranza delle plebi; transigiamo con quegl’interessi, rischiariamo quell’ignoranza — ? Questo progresso pacifico e logico è il desideratum de’ savii, la speranza del nostro avvenire. Forse questa utopia diverrá un giorno realtá, né vi si giungerá, se non dopo molte altre dolorose esperienze. Domando ora, se lo storico dee di questa utopia farsi un’arma per dire alle classi colte: — Voi aveste troppa impazienza; voi dovevate attendere che la plebe fosse matura: perché non creaste una letteratura popolare per educarla? — Sarebbe un giudizio retroattivo, un trasportare nel passato i bisogni e le idee del presente. Per dimostrarmi la necessitá di educare la plebe voi potete, tranquillamente seduto nella vostra stanza, farmi un sillogismo. I sillogismi della storia sono battaglie e patiboli, oppressioni e resistenze e non si giunge a tirare una conseguenza se non dopo [p. 199 modifica]sanguinose premesse. Oggi si è tirata questa conseguenza: sappiatene grado al secolo decimottavo, a’ torrenti di sangue sparso dai nostri antenati, e, poiché vi piace di dar tanta influenza ad Alfieri ed Ugo Foscolo, ringraziatene Alfieri ed Ugo Foscolo.

Manzoni è il poeta della nuova situazione, l’iniziatore della letteratura popolare in Italia. Ma quello che l’autore dice di lui, e massime de’ suoi successori, è un abbozzo anzi che una esposizione. Né io presumo di far le sue veci.

[Nel «Cimento», a. III, vol. VI, pp. 629-39, ottobre i855.]