Saggi critici/«Sulla mitologia». Sermone di Vincenzo Monti alla marchesa Antonietta Costa

«Sulla mitologia». Sermone di Vincenzo Monti alla marchesa Antonietta Costa

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«Sulla mitologia». Sermone di Vincenzo Monti alla marchesa Antonietta Costa
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«SULLA MITOLOGIA»

Sermone di Vincenzo Monti alla marchesa Antonietta Costa.


Questa poesia fu ammiratissima a’ suoi tempi, che fervea giá la lotta tra classici e romantici. Ora che l’ingegno italiano per le turbazioni politiche rimane inoperoso, ma giá apparecchiato a nuova vita per un lavoro latente, di cui trapelano qua e lá alcuni segni; è uffizio, della critica precorrere al movimento, rischiarando e additando la via. E però non sará disutile a gittar l’occhio sul nostro passato, e, dovendo andare oltre, acquistare un chiaro concetto dello stato presente della nostra letteratura.

Questa poesia fu l’ultimo tentativo della scuola classica. Inebbriato di applausi, salutato principe del Parnaso da’ suoi partigiani, superbo del suo regno poco meno che Napoleone dell’impero d’Europa, il Monti vide ne’ suoi vecchi anni sorgere una schiera di giovani, che audacemente gli contesero il primato, ed i quali egli trattò come il malestro i discenti. Credette di por fine alla lite, gittando loro sul viso questo sermone (i825). Il quale parve stupendo lavoro in quel tempo, anche ai suoi avversarie E, in veritá, se noi dobbiamo giudicarlo con la critica allora in voga, vi ci accordiamo anche noi. Un concetto unico gradevolmente variato, giusta proporzione fra le parti, felice introduzione e piú felice ritorno al soggetto [p. 182 modifica]occasionale, splendore ed eleganza di forme, facilitá e magistero di verso, questo è piú che non richiede la critica classica per porre in cielo una poesia. — Concetto unico gradevolmente variato!

— Poco le importa se quel concetto sia poetico, e se quella varietá sia varietá del concetto, o un’amplificazione esteriore.

— Giusta proporzione tra le parti! — E non si domanda, se quella proporzione è una misura artificiale e sistematica, o uno sviluppo spontaneo ed organico dell’argomento. — Felice introduzione e piú felice ritorno! — Ciò mi ricorda il collegio d’infausta memoria. Chi di noi non ha sudato a queste introduzioni e a questi ritorni? Basta vi sieno: la critica non esamina, se questi passaggi siano appicchi di parole e concetti ingegnosi, o se piuttosto naturale trapasso dettato dalla natura della cosa.

— Splendore ed eleganza di forme! — E non si chiede piú oltre, e si batte le mani, ancora se quello splendore e quella eleganza sia in grottesco contrasto con la povertá e trivialitá dei concetti.

— Facilitá e magistero di verso! — Qualitá lodatissima del Monti, e in questa poesia spiccatissima: versi liquidi, sonanti, imitativi. La melodia è in lui divenuta maniera; e ciò che i grandi poeti si permettono solo nelle grandi occasioni, qui soprabbonda, e però non fa effetto. Com’è visibile l’artifízio in questi versi!

               .  .  .  .  .  .  Ove i destrieri
Fiamma spiranti dalle nari? Ahi misero!
In un immenso, inanimato, immobile
Globo di foco ti cangiar le nuove
Poetiche dottrine, ecc.
E in questi altri!
Balza atterrito, squarciata temendo.
Ombra del grand’Ettore, ombra del caro
D’Achille amico, fuggite, fuggite.

Quegli sdruccioli, questi endecasillabi che simulano l’impeto del decasillabo, rivelano un soverchio studio di armonia [p. 183 modifica]imitatrice, l’anima raccolta tutta ed obliata nell’orecchio. Nessuno al pari del Monti ha avuto un orecchio cosí musicale; e questa critica non si ricorda che la dolcezza del verso deve sentirsi non nell’orecchio, ma nell’anima.

Tale è questa critica, che anche oggi s’insegna nelle scuole e nei giornali, e contro di cui si sta apparecchiando ima reazione salutare. Critica dannosissima, non perché partorisce falsi giudizi intorno alle lettere, che è minor male; ma perché, richiamando l’attenzione intorno a qualitá puramente esteriori ed accidentali, svia e debilita l’ingegno.

Ecco in che modo va esaminato il lavoro del Monti.

Non avendo compresa l’importanza del movimento letterario, che gli tumultuava intorno, e che doveva produrre Manzoni, Berchet e Giusti, il Monti non vede in tutto questo che la morte degli Dei, e non si accorge che essi erano morti da un pezzo. Ove potesse rimanerne alcun dubbio, lo toglierebbe la sua poesia. Il Monti affastella tutte le divinitá, l’una in coda dell’altra, e con diversi artifizi fa capolino in Olimpo due e tre e quattro volte, e ciascuna volta ci gitta innanzi all’occhio nuovi nomi. A che moltiplicare in tante citazioni? Non ce ne ha un solo vivificato dalla sua fantasia: è una processione di frati, che tu hai veduto le cento volte, e che guardi distrattamente, nominando tra gli sbadigli il cappuccio e la sottana e le fibbie. È un repertorio di reminiscenze: una Pompei della mitologia, ma senza l’ammirazione commossa, che accompagna le grandi memorie. Fate largo: passa Amore con l’arco e la faretra, Imeneo con la face, Citerea col cinto, e le Grazie ridenti, e Apollo re de’ carmi e la saltante Driade, e l’innocente Naiade, e Dafne e Siringa e Mirra. Che cosa sono? Meri nomi, ciascuno col suo epiteto convenzionale, col suo cappuccio, le sue fibbie e la sua sottana, senza che nessuno risvegli in te una immagine o un sentimento. Nettuno, Giove e Pluto gli ricordano tre «pensieri» sublimi dell’antichitá ed egli li riproduce in frasi sonore. Ohimè! La sua fantasia non è sublimata da quel sublime; Omero è semplice, perché vede e sente; Monti è freddamente magnifico, perché ricorda, indifferente in mezzo a ricchezze, che egli non si ha [p. 184 modifica]procacciate col sudore della fronte. Questa poesia è dunque, contro l’intenzione dell’autore, la fede di morte dell’antica mitologia.

Questa processione di Dei non è che l’accompagnamento, il corteggio obbligato del pensiero fondamentale; insomma è la varietá, non l’unitá. Ecco qual è l’unitá e la varietá della critica classica: — Datemi un pensiero, e poi vestitemelo, ornatemelo, e vi decreteremo la corona di alloro. — Ora ella ebbe la dabbenaggine di credere che il romanticismo volesse rapirle nientemeno che quella veste e quell’ornamento, e ridurre la poesia a scienza, al nudo pensiero, e protestò in nome del bello. Né mai si fece tanto sciupio di «vero» e di «bello», quanto in quel tempo. Il Monti si gittò alla stordita in mezzo alla questione, e come i suoi avversarii gridavano sempre: — Veritá, veritá nell’arte; — egli, dandosi a credere che il vero di cui gli parlavano, non fosse altro che il reale negli oggetti ed il pensiero nelle idee — «audace scuola» boreale, esclama, il vostro è un mondo scientifico e non poetico, è il mondo di Platone e non di Omero. Voi fate guerra alla bellezza, e riducete la poesia al nudo reale, al nudo pensiero. — Ecco dunque che il Monti esce fuori con un sermone, in cui si propone di mostrare, come l’essenza della poesia è il bello, e destare la pubblica indegnazione contro questi Vandali, che fanno fuggire spaventate le Grazie e le Muse ed Apollo. Ebbene: la sua poesia è appunto il contrario. E che altro essa è, se non una dissertazione in versi, un ragionamento crudo con bassirilievi mitologici, una regola di poetica preceduta e seguita da esempii? Il vero scompagnato dalle vaghe forme dell’arte non può fare effetto; tale è il concetto ripetuto piú volte in un brevissimo carme, a cui il Monti, perché faccia effetto, dá tutte le veneri della poesia. Ma ha saputo egli rendere questo concetto poetico, trasfigurare il vero ed idealizzarlo, farlo poesia? Egli ha creduto che a ciò fare basti ornarlo, illeggiadrirlo di esempli, di paragoni, di favole: e non si è accorto che sotto questa superficie lucente il vero conserva la sua forma scientifica, e che la sua poesia rimane nel fondo un piacevole ragionamento, una leggiadra prosa. Il divino Leopardi [p. 185 modifica]ha saputo ben egli trasformare la veritá in poesia, e farne la sua Donna, o Aspasia, o Silvia, o Saffo. Nondimeno queste poesie di grado inferiore hanno pure il loro pregio, quando nei particolari si veggano elette immagini, e robusti e peregrini pensieri, come in Dante, ed in qualche canzone del Petrarca e nella Ginestra del Leopardi, perché fanno fede che, se al poeta è mancata la forza o la volontá di idealizzare il fondo della sua poesia, aveva tanta virtú di fantasia e di mente, che ha potuto gettarvi entro un tesoro d’immagini e di pensieri. Ma qui non vi è niente che lasci un’orma nella mente del lettore. Vi si vede un ingegno invecchiato, svogliato, fatto meccanico dall’abitudine di concepire e di scrivere sempre a quel modo. Aveva innanzi tutta la mitologia, e non ha trovato non che una perifrasi, ma né un epiteto solo, che abbia novitá o freschezza. Parlando di Omero ripete che è la prima fantasia del mondo; il giovane Manzoni, scrivendo quasi nello stesso tempo, diceva d’Omero:

D’occhi cieco, e divin raggio di mente
Che per la Grecia mendicò cantando.
Solo d’Ascra venian le fide amiche
Esulando con esso, e la mal certa
Con le destre vocali orma reggendo;
Cui poi, tolto alla terra, Argo ad Atene,
E Rodi a Smirne cittadin contende,
E patria ei non conosce altra che il cielo.

Il vecchio Omero non ispirò niente al Monti e rinasce tutto vivo nei versi manzoniani. E che dirò poi del concetto? Il Monti ha una mente cosí arida, cosí leggiera, cosí incapace di ogni meditazione! È un pensiero comunissimo esposto dal Tasso, che il vero persuada quando sia «condito in molli versi». Era questa la badiale obbiezione che si faceva ai romantici in tutte le conversazioni, ed il Monti la raccoglie dai trivii, e ce la imbandisce tre o quattro volte, né il suo cervello sa uscirne, né sa allargare il suo orizzonte, né ci dá un pensiero, un solo pensiero, che ci renda meditativi. Ma io sono troppo crudele col povero Monti, a cui nessuno ha conceduto molta testa. Non l’ho con lui, l’ho [p. 186 modifica]con la cosa. E perché oggi ancora, dopo di avere tanto veduto e tanto imparato, ci ha non pochi che se ne stanno ancora col loro Monti in bocca e ti recitano un’apostrofe contro l’«audace scuola» boreale, mi è parso bene d’insisterci con qualche calore. La poesia del Monti non solo è la fede di morte dell’antica mitologia, ma ancora l’ultimo rantolo della scuola classica.

Ma la critica non dee essere solo negativa; non ti dee dir solo com’è fatto un lavoro, ma come va fatto. L’autore non ha diritto di dire al critico: — Fa tu, — essendo il comporre e il giudicare due cose diverse; ma ben può chiedergli come si ha a fare. Il lavoro del Monti concepito a quel modo non può altro riuscire che mediocre per le ragioni discorse, rimanendo sempre in fondo un concetto prosaico. Bisogna toglierne ogni ragionamento, e quelle sentenze, e quegli argomenti ad hominem, uscire insomma dalla dissertazione. Ciò fatto, il lavoro resta un lamento ironico della morte degli dei e dell’arte antica sotto i colpi della scuola boreale. Deve essere un’ironia delicata, che a quando a quando accenni alla caricatura. Ma ironia e caricatura non sono armi da Vincenzo Monti; e, tolto questo, che altro rimane, se non un lamento serio? che fa esclamare il lettore: — Questi Dei son ben morti; quest’arte è ben tramontata! —

Dunque, né il Monti ha saputo vivificare la mitologia, né idealizzare il suo concetto, né usare con qualche felicitá l’ironia e la caricatura che doveva essere la Musa di questo sermone. Restano i versi sonanti, la maestá del periodo, e la copia, e la facilitá, e l’eleganza, belletti di cadavere. Chi se ne contenta, goda.

[Nel «Piemonte» di Torino, a. I, n. 227, 26 settembre i855.]