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Versioni e comenti di liriche tedesche

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Versioni e comenti di liriche tedesche
Giudizio di Gervinus sopra Alfieri e Foscolo «Alla sua donna». Poesia di Giacomo Leopardi
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VERSIONI E COMENTI DI LIRICHE TEDESCHE


i. — «La vita campestre»

versione e giudizio di una poesia tedesca.


                          Oh beato colui che il corpo lasso,                     
                     In fra i campi riposa! Il terso sasso.                     
                     Il fremer della fronda, il suon del rio                     
                     Gli parlan di virtú, parlan di Dio                     
                          Sotto la fronda ombrosa,                     
                     Ei sta, quasi in un tempio, ove il Signore                     
                     È piú presso al suo core;                     
                     E l’erba rugiadosa                     
                     Quasi è un altare, ove i ginocchi inchina                     
                     Alla bontá divina.                     
                          Né desto, né dormendo, l’usignuolo                     
                     Gli accarezza l’orecchio; l’usignuolo                     
                     Lo desta col suo canto;                     
                     E d’Aurora intanto                     
                     Il raggio imporporato                     
                     Tra fronda e fronda, gli risplende allato.                     
                          Qui ei ti sente, o Dio: nel mattutino                     
                     Dolce color di orientai zaffiro;                     
                     Nel sol raggiante per l’eterno giro                     
                     Del celeste cammino;                     
                     E nel ramo gemmato;                     
                     E nel vento sdegnato.                     
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                          Sull’erba tremolante, — allor che leve                     
                     Spira l’aura frescura e che la brina                     
                     Stilla sui fiori il suo vivace umore— ,                     
                     Ei posa il capo; e beve                     
                     La fragranza del fiore                     
                     E l’aura vespertina.                     
                          Sotto il tetto di paglia, — entro del quale                     
                     Un popol di colombi e gioca e vola                     
                     E al sol si scalda — assai piú riposato                     
                     Sonno l’alma consola,                     
                     Che nel tetto dorato                     
                     O sul molle guanciale.                     
                          E l’allegra famiglia, ora, rimira                     
                     Che gorgoglia e squittisce e fàgli festa                     
                     E, disiosa, gira                     
                     Intorno alla sua cesta:                     
                     Becca i piselli e il grano                     
                     E la mica del pan su la sua mano.                     
                          Solo e pensoso, ei cammina, sovente,                     
                     In fra le tombe del villaggio; siede                     
                     Sopra una tomba; e vede,                     
                     Quasi celeste voce,                     
                     In sul campo di morte, amicamente,                     
                     Innalzata una croce.                     
                          Vede, sotto il cespuglio, il sacro detto,                     
                     Che, nel passo fatai, rende l’uom forte                     
                     E fàgli il morir bello;                     
                     E vede, assisi sopra il mesto avello.                     
                     Con la falce, la morte,                     
                     E, con la palma in mano, un angioletto.                     
                          Oh beato, oh beato,                     
                     Chi fra’ campi si sta. Quand’ei fu nato.                     
                     Fu festa in cielo e fior di paradiso                     
                     Ornaron la sua culla e il lieto viso.                     

È una gentile poesia di Hölti, che ricorda i bei tempi del Poliziano. Se, oggi, alcuno dovesse, fra noi, trattare questo argomento, Dio sa quante tiritere filosofiche, quante circonlocuzioni, quanta raffinatezza d’immagini! Oggi, non si può [p. 202 modifica]parlare di vita campestre, senza pôrci, per contrapposto, la vita di cittá. L’antitesi è proprio di una letteratura, che ha perduta la sua freschezza e semplicitá, che non trova piú in un’idea giá esausta, nuove ricchezze, e cerca la poesia ne’ suoi rapporti con altre idee, quando non ami meglio di ripetere ed imitare. Hölti si tiene lontano dai luoghi comuni e dalla raffinatezza; e descrive la vita campestre con una freschezza e semplicitá, non iscompagnata da grazia. Certo, noi che siamo nipoti del Poliziano e dell’Ariosto, e contemporanei del Leopardi e del Manzoni, non abbiamo bisogno di cercar ne’ tedeschi esempi di poesia schietta e casta. Ma perché tuttodí, si parla, a proposito ed a sproposito, delle poesie nordiche e le si credono per tradizione mistiche, nebulose, concettose, astratte, ho voluto addurre quest’esempio, acciocché siamo piú rispettivi nel giudicare, e, volendo giustizia noi, rendiamo giustizia agli altri.

Il campo proprio del poeta è l’immagine, che si compia nell’anima del lettore. Quando la fantasia del lettore rimanga oziosa, è difetto suo o del poeta: sciocco l’uno o l’altro. Il lettore dee essere poeta, anche lui; dee integrare l’immagine che il poeta delinea, a grandi tratti. Allorché l’immagine è stata tocca e ritocca, per tutti i versi, si cade nel manierato e nel concettoso, insino a che la poesia lascia il sentiero battuto e si trasforma in sentimento. Il poeta, allora, si serve dell’immagine, come di un’occasione, per manifestare le sue impressioni. Questa poesia sentimentale si consuma, anch’ella, a poco a poco; e va a perire nel pensiero. Oggi, noi conosciamo questi diversi gradi, per i quali passa la poesia, e ci ripieghiamo sulle nostre impressioni e le analizziamo: la critica rode l’arte. Quindi è, che, nello stesso tempo, trovi ogni maniera di poesie ed ogni sorta di poeti: questo, principalmente, in Alemagna, patria della filosofia e della critica. Poiché si conoscono tutte le forme dell’arte, le si accettano, indifferentemente. Schiller e Goethe ci fanno drammi, secondo tutti i sistemi; oggi, la Fidanzata di Messina; domani, il Guglielmo Tell; oggi, Goetz di Berlichingen; domani, il Torquato Tasso. È un ecletismo poetico, che accenna ad una futura trasformazione dell’arte, accompagnata, necessariamente. [p. 203 modifica]con una trasformazione sociale. Hölti ci fa una poesia, all’antica, tutta immagini; ma, accanto a questa, trovate le poesie sentimentali di Schiller, le poesie filosofiche di Goethe; tutte le forme, tutte le maniere, il sentimento e il concetto, la spontaneitá e la riflessione, l’ironia e l’umore si mescolano e si confondono.

De’ versi di Hölti non si vuol, dunque, cavare alcuna induzione, sullo stato della poesia lirica, in Alemagna: essi sono sé e solo sé. Ma non basta. Questi versi non sono, neppure, l’espressione di un animo commosso, di una fantasia esaltata dallo spettacolo della natura. Sono versi su di un tema generale, come si fa nelle scuole. Il poeta non prende la sua ispirazione in mezzo a’ campi: non si trova in uno stato poetico di animo. Quindi, la generalitá di questa poesia: nessun colore locale, niente che ti dia una immagine, anche abbozzata, di monti, di fiumi, di clima, di frutta, nessuna impressione, che ti riveli la personalitá del poeta: la diresti scritta dovunque e da chiunque. Si si vede, piú, un critico, un uomo di buon gusto, che un poeta, nel fervore dell’estro. Hölti l’ha scritta, nella sua camera, lavorando a freddo, scaldando, artificialmente, la fantasia, serbando, scrupolosamente, tutte le regole dell’arte. È una prova di piú della vanitá delle regole.

Ha voluto fare una poesia antica, porsi in una situazione bilica. Nessun concetto; il pensiero è rinchiuso nel sentimento. La vista de’ campi alza lo spirito a Dio. È difficile, che, oggi, il poeta dica questo, senza darci una forma filosofica. L’autore lo esprime come sentimento:

                               Qui ei ti sente, o Dio;                               

o lo involve, in una immagine:

                               Gli parlan di virtú, parlan di Dio.                               

Il sentimento stesso è, sovente, un sottinteso, che si sveglia, nell’animo del lettore, dalle immagini, abilmente scelte ed aggruppate. Uno de’ sentimenti piú generali della poesia tedesca [p. 204 modifica]è la malinconia, dolcezza d’animo riposato e pensoso, tutto sopra di sé, cara tristezza, che ha, in sé, alcuna cosa di sereno. Cosi, l’autore non manca, in mezzo alla gioia de’ campi, di mostrarvi un cimitero; e non vi cerca, giá, immagini scure e dolorose, ma ne cava nuova materia di conforto. La tomba e la croce, la lugubre scritta e il perdono di Dio, la morte con la falce e un angioletto con la palma: è un misto d’immagini, meste e liete, che generano malinconia, senza che il poeta lo esprima. E la malinconia è un sentimento cosí caro ad un cuore tedesco, che il poeta può, immediatamente, esclamare:

                                         Oh beato! oh beato!                                         
                                         Chi fra’ campi si sta!                                         

Adunque, il proprio di questa poesia non è né il concetto, e neppure il sentimento: come nelle poesie primitive, essa è una fonte vivida d’immagini, che sgorgano l’una dall’altra. Ora, il poeta ne raccoglie molte insieme: ora, si ferma su di una sola: è l’occhio, ora, errante e fuggitivo; ora, fisso e riposato. Immagini triviali acquistano novitá, dal modo con cui sono aggruppate; cosí voi sentite quanta grazia è, in questi ravvicinamenti:

                                         La fragranza del fiore,                                         
                                         E l’aura vespertina...                                         
                                         E nel ramo gemmato;                                         
                                         E nel vento sdegnato.                                         

Quando l’autore si arresta su di una immagine, ne scopre le parti piú delicate; e mi basterá recare, ad esempio, quel raggio di sole mattutino, che, «tra fronda e fronda» si fa via alla capanna. Certo, nessuno s’ingannerá: tutto questo è una bella imitazione, e niente altro: invano, vi cerchi la rozza schiettezza, l’ingenuo ed il quasi puerile dei poeti primitivi. Tant’arte, nella scelta e nei gruppi, tanta proporzione e misura; la maestá religiosa del principio ed il ritorno, nella fine, a quelle immagini religiose; quell’artificioso progresso dal generale al [p. 205 modifica]particolare, di modo che le immagini si fanno sempre più distinte e precise, e tanta finezza e morbidezza di espressione vi scoprono il moderno, sotto l’antico.


2. — «La danza»

versione e giudizio di una poesia tedesca.


                               Vedi, appena, libar la terra, e a volo                          
                     Spiccarsi in alto gli ondeggianti passi!                     
                     Ombre vegg’io, de la terrena salma                     
                     Sgombre, per l’aër ratte?                     
                     O Silfi e genii, son, forse, danzanti                     
                     Fra gli eterni splendori?                     
                     Qual leggiero vapor, cui tremolante                     
                     Culla per l’alto innamorata auretta,                     
                     O come navicella lieve lieve                     
                     Sopra l’onda d’argento il fianco inchina;                     
                     Tale il docile piè l’onda conduce                     
                     Di dolce melodia,                     
                     E l’eterea persona in alto leva                     
                     Il sospiro dell’arpa.                     
                     Ed, or, come quei due rompono il cerchio,                     
                     E lá dov’è piú folto, il passo ardito                     
                     Penetra e inoltra? Vedi:                     
                     Subitamente, innanzi a lor la via                     
                     S’apre, e, subitamente, si richiude,                     
                     Quasi magica mano                     
                     Or la mostri, or la celi. Ecco sparita                     
                     Tra quegli avvolgimenti                     
                     È giá la coppia; e in quel mobile mondo                     
                     Ogni ordine si turba e si confonde.                     
                     No, no. Di mezzo a quella                     
                     Viva ebbrezza de’ cor l’ordine appare;                     
                     E di varia bellezza                     
                     Orna la grazia i misurati passi.                     
                     Ognor si mesce e ognor si ricompone                     
                     Il vorticoso aspetto,                     
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                          Ed un calmo voler regge e governa                          
                          La mutabile scena.                          
                          Or come avvien che ognor si rinnovella                          
                          La fluttuante imagine,                          
                          E sulle forme mobili                          
                          Una calma serena ognor permane?                          
                          Di’: — Come avvien, che ognun di sé signore                          
                          Va, secondo il suo cor, liberamente,                          
                          E nella rapid’onda                          
                          Di tanti passi il suo loco ritrova? —                          
                          Io tel dirò. — Divinitá possente,                          
                          Tempra Armonia della festosa danza                          
                          Il corso impetuoso;                          
                          Ed a Nemesi pari, ella raffrena                          
                          Co’ dolcissimi accordi                          
                          L’indocile piacer; lo educa e vince.                          
                          Or dimmi: e indarno è il suono,                          
                          Che spande l’armonia per l’universo?                          
                          Non ti rapisce il cor l’alto suo canto?                          
                          Non il temprato fremere                          
                          Che da tutto il creato in te risuona?                          
                          Dimmi: e la danza non t’ispira quando                          
                          Ne’ vorticosí giri erger ti senti                          
                          In fra spazi infiniti                          
                          E fra soli infiniti? O la misura                          
                          Danzando ammiri ed operando sprezzi? —                          


È una poesia di Schiller, molto ammirata. Questo poeta era, ad un tempo, un gran critico. Scontento di sé, tentando sempre nuovi generi e nuove vie, tutto dietro senza posa ad un ideale, che non gli si appressava, se non per fuggirsene e lasciarlo piú desolato, fu udito, un giorno, dolorosamente esclamare: — Io non sono nato poeta! — Da questa poesia, dunque, non si può niente inferire intorno alla natura della lirica di Schiller.

A’ primi versi vi accorgete giá che questo è lavoro moderno. Il poeta, in luogo di obbliarsi nello spettacolo ed immedesimarvi si, com’è nelle poesie schiette e spontanee, se ne stacca, pone [p. 207 modifica]sé di rincontro a quello, e si studia di spiegarlo. È uno spettatore maravigliato, e curioso, che cerca la spiegazione di tutti i fenomeni, che gli si parano innanzi; non un poeta, che, turbato e trepido, s’inginocchia innanzi ad Iside e l’adora; ma un filosofo, che la considera, tranquillamente, sforzandosi di trapassare con l’occhio di lá dal suo velo. Nondimeno la maraviglia, la viva curiositá, l’ardore della meditazione, la gioia della scoperta sono sentimenti vivaci, che ci rendono si care le poesie primitive di filosofi poetici, i quali rappresentavamo e spiegavano, ad un tempo, le bellezze della natura, come qui Schiller rappresenta e spiega la danza. Ma qui tutto questo è artifiziale. Innanzi alle maraviglie della danza, Schiller si mostra attonito e curioso; ma il suo stupore è apparenza, la sua curiositá è giá appagata; egli sa quello che dice di non sapere. Centinaia di poesie, massime italiane, appartengono a questo genere. I poeti ingenui sono nella loro ignoranza amabili; sono maravigliati, sono curiosi; ma i poeti moderni, troppo dotti, fanno i maravigliati, ed i curiosi. Simulano questi sentimenti perché ubbidiscono non alla poesia, ma all’arte poetica: quindi trovi in loro qualche cosa di fattizio, che ti raffredda.

Dopo di aver fatto, per un pezzo, l’attonito, il poeta, spiegato a sé stesso il fenomeno, si pone innanzi un lettore immaginario ed ignorante, si diletta di stimolare la sua curiositá, dipingendogli la danza in ciò che ha di strano e di contraddittorio alla vista, mostrandogli l’ordine che esce dal disordine; insino a che, da ultimo, trionfalmente, glie ne spiega la ragione. Cosi ha cansato, in parte, il difetto mostrato innanzi, ponendosi in una situazione vera. E dico in parte, poiché la poesia rimane, nel fondo, la spiegazione di un fenomeno. Per chiarir meglio il mio pensiero, addurrò ad esempio, il canto di un pastore arabo alla Luna, di Giacomo Leopardi; una delle più stupende liriche de’ tempi moderni, ammiratissima presso i tedeschi. Ivi il pastore non è un essere astratto ed impersonale, di cui siasi, artifizialmente, valuto il poeta a spiegare i fenomeni dell’universo. Il pastore è un perfetto carattere poetico; il mondo è rappresentato, secondo l’impressione ingenua, che produce su di una [p. 208 modifica]anima candida e semplice; e noi vi troviamo tutta la veritá della maraviglia, tutto il sapore delle poesie primitive. E nondimeno la poesia rimane moderna; perché le impressioni del pastore sono rappresentate in un modo assoluto e generale, si che paiono non giudizi puerili di un uomo rozzo, ma conformi al vero; il dottissimo poeta del secolo XIX, che pone quelle parole in bocca al pastore, ha aria di credervi egli pure; e ne risulta il senso occulto e moderno, che costituisce il fondo della poesia leopardiana, cioè che noi, sapienti del secolo XIX, ne sappiamo tanto, quanto quell’arabo pastore; lato tragico e straziante, per il quale al poeta è venuto fatto di aggiungere tanta tristezza a tanto amabile ingenuitá.

In questa poesia, al contrario, Schiller si vale di un mezzo artifiziale e direi quasi rettorico per aver modo di rappresentare tutti i lati curiosi di un problema e di poterlo risolvere. Rimangono bellezze di second’ordine; è un lavoro poco seriamente meditato, nel quale il poeta ha profuso tutta la ricchezza della sua immaginazione. Comincia con un calore, il quale si conserva insino alla fine con tanta uguaglianza, che ti par scritta di un getto. Descrive i vari intrecci della danza con molta vena, con delicati paragoni, con immagini pittoresche. Ed ha cansato un difetto comune a molte descrizioni; poiché in luogo di rappresentarvi nelle diverse sue parti uno spettacolo immobile, come è conceduto solo alle arti plastiche, vi pone innanzi una vista che cangia, ad ogni tratto, scene successive e sfumate: una vera azione in tutto il suo progresso. Siccome però il poeta spettatore prende il personaggio di un filosofo, che, in luogo di avvolgersi in mezzo al turbine della danza, se ne tiene lontano, a considerare e meditare; cosí quei particolari non sono rappresentati con quel disordine, che è proprio delle prime ed ingenue impressioni, ma raggruppati e disposti intorno ad un concetto. Il poeta vi vuol presentare dapprima un disordine apparente; il suo occhio, in mezzo a quella varietá di movimenti, si ferma su di una coppia che va e viene, apparisce e sparisce; e quando, smarrito in quel laberinto di passi, giudica tutto tumulto e confusione, si ravvede, ad un tratto, e scopre sotto a quel [p. 209 modifica]disordine un ordine ammirabile. Pone quindi il problema con grande chiarezza; e, nel risolverlo, si allarga il suo orizzonte: dall’armonia della danza passa all’armonia dell’universo e si innalza ad un vero entusiasmo poetico. Sono grandi pregi; nondimeno questa poesia, superiore alle comuni, è al di sotto di Schiller: tanto sono insufficienti queste bellezze secondarie, nelle quali una critica volgare pone l’essenza dell’arte.


3. — «L’ultimo addio»

versione e giudizio di una poesia di Goethe


                               Ahi! la mia bocca è muta, e gli occhi soli                          
                          A te dicono addio.                          
                          Quanto, ahi quanto mi è duro il sostenerlo!                          
                          Eppure un uom son io!                          
                               Tristo è il pensiero del tuo dolce amore,                          
                          Or ch’io men vo lontano,                          
                          E freddo il bacio del tuo labbro, e stanca                          
                          La man stringe la mano.                          
                               Una volta quando io ti stavo accanto.                          
                          Qual dolcezza sentia!                          
                          Cosi mi rallegrava una viola,                          
                          Che la prima fioria.                          
                               E nessun fiore piú mi riconforta,                          
                          E piú nessuna rosa.                          
                          Primavera giá ride, o mia diletta.                          
                          Sol per me dolorosa.                          


È una poesia delicatissima, che risponde a tutte le condizioni dell’arte. E poiché oggi non mancano critici e poeti, che poco pregiano le bellezze gentili e semplici e le tengono freddure, mi ci voglio intrattenere alquanto.

È nota la scuola del Conciliatore: i critici novatori volevano che gli scrittori fossero «cormentali»; brutta parola, e, giustamente, messa in obblio. In opposizione ad una poesia di frasi, volevano che lo scrittore ponesse nel suo lavoro tutta la [p. 210 modifica]sua mente, tutto il suo cuore. Nella prima esagerazione, si giunse alla pedanteria. Si parlò tanto di sentimento, che si cadde nel ridicolo e si meritò la caricatura: «sentimentale» e «sentimentalismo» sono parole comiche di quel tempo, che esprimono la reazione del buon senso.

Il sentimento non è in sé stesso estetico. Causa ed effetto, ora, è stimolo, che accende la fantasia e le apre il mondo poetico; ora, è impressione, che l’immagine suscita nel poeta o nel lettore. Non vi è poeta senza sentimento; non vi è alcuna grande bellezza, che non esca dal cuore e non vi ritorni. Ma l’essenza dell’arte non è nel sentimento. Il dolore, l’amore, ecc., che investa un’anima poco poetica, dove non abbia la forza di trasformarsi ed idealizzarsi, può, nella sua espressione, essere eloquente, non artistico.

Non solo il sentimento non è il sostanziale dell’arte, ma, perché sia capace di suscitare la facoltá estetica, dee tenersi in una giusta misura. Il sentimento non deve intorbidare l’anima, toglierle ogni arbitrio di sé, ogni serenitá, turbare l’armonia interiore. Spingetelo infino al suo estremo, e voi cadete nello strazio, nello schianto; cosa buona al piú per la plebe, ai cui sensi grossolani degno solletico è il gemito del gladiatore ed il rantolo del giustiziato.

Vedete i nostri due grandi poeti: Leopardi e Manzoni. Fra’ piú appassionati poeti de’ tempi moderni è senza dubbio Leopardi, che ha versato nei suoi versi tutto il suo dolore. Eppure quanta gentilezza, quanta serenitá in quel lugubre e fosco! Nella stessa sua disperazione, vi è qualche cosa di soave; e ti dá l’aria di un uomo pensoso e raccolto nella sua sventura, senza gemiti, senza grida, senza atti scomposti: leggete, tra l’altro: Amore e Morte, o per dir meglio, leggete tutto. Ne’ Promessi Sposi di rado si giunge fino al pianto; né vi è spettacolo tanto straziante che il delicato sentire dell’autore non rattemperi ed ammollisca: e basterá citare, ad esempio, l’episodio della madre lombarda che compone ella stessa nel funebre carro la sua piccola Cecilia.

Non vi è cosa piú cara che questa dolcezza nella forza, [p. 211 modifica]sta morbidezza nel maggior concitamento delle passioni. In Dante e Shakespeare gli affetti sono espressi con selvaggia violenza: siccome rappresentano la vita umana in ogni sua gradazione, voi vi trovate tutto, anche il grottesco ed il plebeo. Pure, queste anime cosí espansive e violente, sotto un aspetto brusco, nascondono un cuore tenerissimo e quasi femminile; né vi è scrittor gentile, che ci abbia dato pitture cosí morbide e delicate, che si possano comparare ad Ofelia, a Giulietta, a Miranda, a Matilde, a Pier delle Vigne, a Manfredi, a Francesca da Rimini. Alfieri era fiero e quasi rozzo, per sistema, per un concetto troppo astratto della umana dignitá, per reazione al Metastasio; pure non gli mancava questa qualitá, e Saul è il suo capolavoro, perché ivi si trovano con delicatissime mezze tinte contemperati gli opposti elementi.

Questa eroica mansuetudine, questo imperturbato accordo delle facoltá, che dicesi eguaglianza deH’anima, è il segno distintivo del genio artistico, è il segreto dell’arte greca. Alcuni critici non la intendendo, lodano a cielo l’arte moderna, come quella, che, piú simile alla pittura, avanza l’antica di espressione e di sentimento. Chiamano fredda la poesia greca, fredda come il marmo di Paro, piú vicino alla statua che alla parola; e non comprendono che in quella serena contemplazione è posta l’eccellenza dell’arte ed il privilegio del popolo greco.

La violenza delle passioni è segno di un carattere fiacco e di una mente angusta: perché la volontá non ha forza relativa, e la mente, trasportata da quelle súbite impressioni, non sa porvisi al disopra, e comprenderle. Il vero artista, scaldato dalla passione, traduce tutto in immagini e le vagheggia e se ne innamora: in luogo di mescolarsi in mezzo alla battaglia, se ne sta lontano a rappresentarla. Voi vi sdegnate e lo svillaneggiate; egli vi’ contempla e vi dipinge, tutto contento che vi poniate in un’attitudine poetica. L’artista greco è il Dio di Omero.

Nessuno meglio di Goethe ha compreso questa olimpica serenitá. Molti lo trovano freddo, massime in comparazione di Schiller: a sentirli, scrive con la testa piú che col cuore. Ma che Goethe sappia maneggiare gli affetti e portarli fino allo [p. 212 modifica]strazio, non si può dubitare, se non da quelli che ricordano il Torquato Tasso, ed obliano Werther e Margherita. Certo, negli ultimi tempi attese troppo a lavorare il di fuori, portò il culto della forma tropp’oltre e ne fa fede il Torquato Tasso e la seconda parte del Faust; ma, a voler giudicare delle sue poesie generalmente, il Goethe è tra’ poeti moderni quello che piú si accosta all’antica perfezione plastica; se non che le sue figure hanno una espressiva mobilitá, che certifica la vita interiore; e l’elemento critico o riflesso, non possibile a vincere, lo chiarisce moderno. L’affetto è da lui portato fino al punto, che possa trasparire nelle linee e nei colori, senza guastare la bellezza; e quando giunge a tale violenza, che rompe la placida armonia delle tinte, o indocile all’immagine, prorompe al di fuori, con l’impeto eloquente di un puro sentimento, il poeta sa sviare o interrompere a proposito, e portare l’anima in piú serena regione.

Quelli che mi hanno seguito con qualche attenzione, possono gustare, ora, le delicate bellezze di questa breve poesia. È l’ultimo addio ad una donna amata, soggetto comunissimo. Coloro che sono avvezzi a cercare in una poesia pensieri acuti ed immagini raffinate, troveranno questa piú che insipida. Ci era veramente di che infastidire il lettore, a parlargli di viole, di rose e di primavera, che ne siamo fradici! Cosi direbbe qualche impaziente.

Non solo nei pensieri e nelle immagini non v’è niente che esca dal comune; ma né tampoco nello stile. L’autore sembra si rida di costoro e faccia a dispetto. Non vedi alcuno sforzo per abbellire, per ornare: procede piano, naturale, quasi negletto. «La viola fiorisce», «la primavera ride», «io men vo lontano», ecc., ti presenta le idee col loro linguaggio proprio ed immediato; è una candida semplicitá, che gli uomini di cattivo gusto chiamano volgaritá. Il che dico, principalmente, di noi, che, invaghiti di uno splendore letterario e fattizio, ci allontaniamo, ogni giorno piú, dalla semplicitá della natura, ed in su questo andare giungeremo a tale, che non comprenderemo piú Leopardi. [p. 213 modifica]

Questa poesia è un semplice motivo musicale. L’amante è nello stato di rêve: penetrato di una malinconica tristezza, sta raccolto in sé, abbandonato all’onda de’ suoi sentimenti. Pure, il poeta non coglie che l’apparenza di questa vita interiore.

Deve esprimere il dolore dell’ultimo addio? Ti presenta l’attitudine dell’amante:

                               Ahi! la mia bocca è muta, e gli occhi soli                          
                          A te dicono addio.                          

È una immagine, che ti fa intrawedere tutti gli strazi dell’anima; è un suono malinconico, che suscita nel cuore moti ineffabili. Il poeta si contenta di dire

                          Quanto, ahi quanto mi è duro il sostenerlo!                          

Avete una impressione, che, legata a quella immagine di tanta veritá e rimasa indefinita, parla piú vivamente all’immaginazione. L’amante raccoglie tutti i godimenti, tutte le dolcezze della sua vita passata, l’amore e quel bacio e quella stretta di mano, li raccoglie per soffiarvi sopra il gelo del presente. Si ripresentano le stesse cose con diversa impressione: quell’amore è tristo, e quel bacio è freddo, e stanca la mano che stringe la mano. Questo paragone istantaneo costituisce il nodo della situazione, il dolore dell’abbandono. L’amante, dopo di avere con tristo piacere vagheggiato due o tre immagini di un passato, che gli si dilegua dinanzi, cade nell’indefinito abbracciando e gustando tutti i suoi diletti, in un tempo.

                          Una volta, quand’io ti stava accanto                          
                          Qual dolcezza sentía!                          

«Una volta!» questo avverbio collocato e preparato sí bene fa qui ancora piú effetto, perché esso contiene in sé, implicitamente, quel successivo «mai piú», che si presenta, contemporaneamente, innanzi alla fantasia del lettore. [p. 214 modifica]

Pure, in questo dolore dell’amante, vi è tanta calma e riposo, che egli, in luogo di addentrarsi ne’ suoi pensieri, rimane poeta, cioè a dire serba la forza di rimanere fuori di sé in mesta contemplazione; di tenersi in comunicazione col mondo dei fantasmi. Egli ha la forza di allontanarsi perfino dalle immagini immediate del suo dolore, la sua donna scomparisce per un tratto dalla scena e dá luogo alla natura; il suo amore chiude in sé tutto l’universo. La viola di marzo, la rosa, il fiore, la primavera! una volta a lui si care, come la sua donna, ora incessante cagione di mestizia, come la sua donna. La poesia, che comincia da un dolore vicino allo strazio, si va, a poco a poco, rasserenando e raddolcendo, e quell’ultimo ritorno alla sua donna, «o mia diletta», in mezzo al riso della primavera, aggiunge alla malinconia qualche cosa di cosí tenero ed amoroso, che ti gitta in un dolce fantasticare.

Ho chiamato questa poesia un semplice motivo musicale, in effetti qui non trovi che una situazione immediata e generale, con alcune immagini abbozzate, le quali si continuano nella fantasia di un lettore poetico. Le immagini ed i sentimenti in situazione tanto semplice rimangono senza sviluppo: non si va sino al carattere. Date una determinazione a questa poesia, ed avrete L’ultimo addio di Stolberg, che mi propongo di esaminare.


4. — «Al barone di Hatjgwitz»

versione e giudizio di una poesia di Stolberg


                               È sera. Spira una frescura intorno                          
                          Su pe’ campi odorati,                          
                          E l’azzurro occidente imporporati                          
                          Coloran fuggitivi ultimi raggi.                          
                          Pace e silenzio e dolce estro irrugiada                          
                          Il solingo sentiero,                          
                          E sussurrando intorno al passaggiero                          
                          Espero amico lo accompagna e dice:                          
                          — Con te sia calma e pace. —                          
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                          Ed io m’aggiro, e chiedo calma e pace.                          
                          Pel solingo sentiero;                          
                          Ed ahi! indarno. Oh, fra’ buoni egregio,                          
                          O giovinetto, amato.                          
                          Quanto si possa amar: tu cui fu dato.                          
                          Il piú bel dono di natura e raro.                          
                          Tenerissimo cor, nato all’amore;                          
                          Ahi! tu ti sciogli dal tuo amico e parti.                          
                          Repugnante, ma parti,                          
                          Ed ahi, forse, per sempre! Ohimè son questi                          
                          Quei cari giorni d’amistá, de’ quali                          
                          Ciascun giorno stringea piú saldamente                          
                          Le nostre anime insieme? Ohimè sfiorite                          
                          Son le rose cosí, che tu spargevi                          
                          Sul cammin della mia vita dolente?                          
                          No! non sono sfiorite! In cari istanti                          
                          Que’ lieti giorni ritornano indietro,                          
                          E mi ridono innanzi: ognor mi stanno                          
                          Ondeggianti d’intorno i nostri sogni.                          
                          Fantasmi della sera                          
                          Sí lusinghieri, e si presto fuggiti!                          
                          Felici tempi! Allora,                          
                          Camminavamo per fiorite valli,                          
                          Sotto il riso del ciel, braccio su braccio;                          
                          O del ruscello, sul muscoso margo                          
                          Ci sedevamo; ed i colloqui dolci                          
                          L’amica Luna udia. Deh! quanti affetti                          
                          Palpitarci nel core                          
                          Noi sentivamo, e d’amistá divina,                          
                          O come dolci gustavamo i frutti!                          
                          Ti ricordi: una volta                          
                          Colsi due fiori, due giovani fiori,                          
                          E lá dove piú limpida s’increspa                          
                          L’acqua del rio, io li gettai. L’un d’essi                          
                          Disparve giú; l’altro rimase presso                          
                          Alla sponda del rio. Tu mi guardasti;                          
                          E ne’ gonfi e velati occhi ti vidi                          
                          Tremolare una lagrima! T’intesi;                          
                          E lo stesso pensier mi strinse il core:                          
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                          Forse, il destino un giorno                          
                          Noi pur dividerá, come quei fiori!                          
                          Cosí spesso al piacer si mesce il duolo,                          
                          E accanto al mirto germoglia il cipresso!                          
                          Sovente, assisi in sull’erto pendío                          
                          Stavamci come stanco pellegrino                          
                          In sul bastone inchino;                          
                          E me stringeva una scura tristezza: —                          
                          Deh 1 lascia, o mio diletto,                          
                          Il mio cor nel tuo cor lascia ch’io versi! —                          
                          E tu mi udivi sospirando, e tuo                          
                          Il mio dolor facevi e l’addolcivi,                          
                          E al travagliato petto                          
                          Pace e calma apportavi...                          
                          Ma dove, o fantasia, t’illudi? Ahi pace                          
                          Mai piú non recherai, o mio diletto.                          
                          Al travagliato petto!                          
                          Ahi! tu mi lasci. Attendi                          
                          Che nell’estremo amplesso un’altra ancora                          
                          Lacrima tua si mesca                          
                          Con le lacrime mie. Che il tuo cammino                          
                          Sparga il cielo di fiori, o mio diletto!                          
                          Che a Fortuna sii caro,                          
                          Quella fortuna, che sol chiede il saggio!                          
                          Che a lei cosí sii caro.                          
                          Come a virtude amica,                          
                          Come a sapienza sei! Che il tuo cammino                          
                          Sparga il cielo di fiori, o mio diletto!                          

Sono note le poesie liriche di Federico Leopoldo di Stolberg-Stolberg e Cristiano Stolberg. Questa è di Federico. Aveva, egli, sortito da natura una squisita delicatezza di sentimento non molle, non femminile, accompagnata con nobiltá e dignitá: di che fa fede questa epistola al barone di Haugwitz. Vivuti sempre insieme con rara comunanza di affetti, ora, che l’amico si allontana da lui, e forse per sempre, Federico effonde il suo dolore in versi affettuosissimi.

Non è un tema astratto sul quale egli lavora. L’autore rappresenta lo stato del suo animo in un caso determinato; e [p. 217 modifica]scrive nel vivo ancora della passione e nel caldo della fantasia. Ma, se cosí di rado si cade in quel calore artifiziale, che è prodotto da temi troppo generali, si può incorrere in un difetto non meno grave, che è proprio di tutte le poesie di occasione. L’autore può non sapere uscire dagli accidenti di cui sente, ancor, fresca l’impressione, dare troppa importanza a circostanze secondarie, e cosí piangere e rallegrarsi egli solo. Perché se alcuno può esser forte commosso da un fatto, per lamentarsi ch’egli faccia, non giungerá mai a rendere gli altri partécipi del suo dolore, quando egli non spogli il fatto di ciò che si riferisca, unicamente, alla sua persona, o non colga in esso il lato umano, ciò che si indirizza non a questo o a quell’uomo, ma all’umanitá, al cuore umano. Ora, mi sembra, che Federico abbia cansato affatto questo difetto, perché la sua poesia, ricchissima di determinazioni e di circostanze, conserva un senso generale, che si apre la via a tutti i cuori.

La morte è poetica, perché dá valore alla vita, che si dilegua; l’addio è poetico, perché rinfresca nella memoria tutto un passato, che fugge. Nella usanza quotidiana l’amicizia si confonde con tutte le abitudini della vita; ma quando l’amico si allontana, sentite allora quanto lo amavate, sentite vacua la vostra esistenza e vi pare che con lui si allontani qualche cosa di voi: il sentimento dell’amicizia, fatto prosaico dall’abitudine, risorge in tutto lo splendore della sua poesia. Tale è la situazione in cui si pone Stolberg: quando l’amico l’abbandona, l’amicizia acquista per lui un valore infinito. Ma l’amicizia non è giá un concetto astratto, di cui si debba predicare la bontá, l’utilitá, il piacere, ecc. L’amicizia è tutta la vita, tanti dolori, tante gioie, tanti pensieri accomunati, partecipati: i quali, nel dolore della separazione, ritornano piú vivi alla mente e generano un senso di malinconia non discaro. Il quale nasce dalla presenza simultanea nell’anima di due momenti diversi, di un passato felice nella presente infelicitá, che si succedono, si oppongono, si penetrano, si limitano l’un l’altro. Questi due momenti li abbiamo trovati, anche, nell’Ultimo addio di Goethe; se non che ivi sono come un semplice preludio. [p. 218 modifica]un’armonia incipiente, che si continua nella fantasia; qui si mostrano eloquenti in tutta la loro ricchezza. Ho detto che si limitano l’un l’altro; e però l’affetto si mantiene, sempre, in una giusta misura. Talora il poeta si abbandona, quasi obbliandosi, ai cari sogni del passato, quando, come destandosi all’improvviso, un grido di dolore ti richiama alla dura realtá:

                          E al travagliato petto                          
                          Pace e calma apportavi...                          
                          Ma dove, o fantasia, m’illudi? Ahi pace                          
                          Mai piú non recherai, o mio diletto,                          
                          Al travagliato petto!                          

Talora il dolore rasenta, quasi, lo strazio, quando un subito trapasso desta tenerezza ed invoglia a dolci lacrime:

                                         .  .  .  .  .  .  Attendi                          
                          Che nell’ultimo amplesso un’altra ancora                          
                          Lacrima tua si mesca                          
                          Con le lacrime mie. Che il tuo cammino                          
                          Sparga il cielo di fiori, o mio diletto!                          

Questo ideale dell’amicizia è fatto ancora piú poetico da uno squisito sentimento della natura: cosa giá osservata nell’Ultimo addio di Goethe. È difficile trovare una poesia lirica tedesca, che non sia abbellita da questo sentimento, cosí poco frequente presso noi italiani, se ne trai fuori i grandissimi. La vista di una bella e calma sera fa sentire a Federico piú amara la sua solitudine. Le rimembranze dell’amicizia sono congiunte col ruscello, col monte, co’ fiori, con le valli. Né questo vi sta come estrinseco ornamento, o come separata descrizione. È il luogo immedesimato nella mente con l’azione, con l’affetto, con le memorie, tutto contemperato, com’è nella vita.

Le circostanze locali dánno al sentimento tutta l’apparenza della realtá, senza turbarne la sua natura poetica, senza oscurarlo, in prosaici accidenti. Tal è quel passeggiare per «fiorite [p. 219 modifica]valli», quel sedersi sulla «sponda del rio» o su di «erto pendio». I quali particolari traggono la situazione dal vago del concetto e del sentimento, e le dánno una compiuta determinazione; i due amici non sono due astrazioni, ma due persone, due caratteri poetici. La loro amicizia non è modificata da interessi, da usi sociali, a cui volgono le spalle: nature romantiche, amanti della solitudine e della natura, dolcemente malinconici; l’uno è giovane ancora, l’altro si sente ringiovanire in lui. La sera, in sul tramonto del sole, uscire di cittá, spogliarsi di tutta la prosa, di tutta quella vita artificiale, che ivi si mena, inebbriarsi, pe’ liberi campi, di odori, d’aria, di luce, allargare la vista in vasti spazi e sentirsi ingrandir con lo spazio, e tener sotto di sé tutte le piccole passioni, tutte le miserie della vita umana, e sublimarsi, nella regione dorata de’ sogni, fantasticare, nutrirsi d’illusioni e di speranze, e trovare un’eco in un’anima che ti comprende e fa suoi i tuoi affetti, in un’anima ancor giovanile, aperta a tutte le impressioni, in cui si riflettono, si ringiovaniscono, si raddolciscono i tuoi sentimenti, tali erano le pure gioie dell’amicizia per Federico Stolberg. Ed ora ritorna la sera, piú bella ancora; Federico si avvia pel consueto sentiero; la natura cheta e silenziosa diffonde nelle anime una dolce pace; ma invano si rivolge a lei Federico: il suo giovane amico lo abbandona, ed egli esprime in teneri lamenti il suo cordoglio.

Abbiamo, adunque, una situazione perfettamente determinata, e condizioni schiettamente poetiche. Lo stile non è meno felice. Vi è dell’idillico e dell’elegiaco. Senti qualche cosa di pastorale, di campestre, accompagnato col sentimento di un bene perduto, che si riaffaccia nella memoria vivo ancora, e non puoi allontanarlo da te. Conversi, ancora, con le valli, co’ monti, co’ fiori, con l’amico; e quantunque tutto ciò non sia piú che rimembranza, pure ne è cosí fresca la perdita, che il buon Federico si abbandona all’onda de’ suoi pensieri e ne parla immemore come di cosa presente, in fino a che si riscuote di un tratto e contempla con angoscia il suo nuovo stato, a cui non sa ancora affarsi. Quindi, per entro all’elegia penetra [p. 220 modifica]un non so che di sereno, voluttuosa armonia di un passato felice, a cui l’orecchio illuso presta ancora ascolto. La conclusione è delicata. Profondato in sé, nell’egoismo del suo dolore, Federico con un súbito sforzo tronca il corso a’ suoi lamenti, si sviluppa da sé stesso e riporta lo sguardo sull’amico, confortandolo con le sue benedizioni.


5. — «I due Elisi»

versione di due poesie tedesche



I


                               Sacro boschetto, ove pace tranquilla,                          
                          Come rugiada sopra il fior, distilla;                          
                          Ove tra fior d’argento                          
                          Il pomo delle Esperidi matura;                          
                          Ove rosata e pura                          
                          Aria intorno discorre eternamente;                          
                          Ove il flebile accento                          
                          Di dispregiato amor mai non si sente;                          
                               Salve, sacro boschetto!                          
                          Di celeste dolcezza ebbra e tremante,                          
                          Fuor del mortale aspetto.                          
                          L’anima è a te davante.                          
                          Oh fortunata! e il suo candor natio                          
                          Non le turba piú mai nebbia terrena,                          
                          E piú libera alfine e piú serena,                          
                          La sciolt’ala battendo empie il desio.                          
                               Ecco: tra rosa e rosa,                          
                          Alzata a forma di luce fiammante,                          
                          Giunge alla valle innante.                          
                          Ove l’onda letea s’aggira ascosa;                          
                          E piú e piú oltre portar si sente                          
                          Quasi per man celeste arcanamente;                          
                          E giá rimira, in estasi rapita,                          
                          L’onda d’argento e la ripa fiorita.                          
[p. 221 modifica]
                                    Presaga e lieta ornai di sua fortuna,
Al ruscello s’affaccia,
Che sul dolore uman sparge l’oblio,
E beve, e la sua faccia
Brilla e trema nel rio,
Come trema sul mar candida luna,
O qual nell’onda cristallina brilla
Vespertina scintilla.
     Beve; e in sen del ruscello è seppellita
Ogni parte mortale,
E la memoria della vita frale,
Come sogno, è sparita.
Piú lucente e piú bella a volar riede,
E tra fiori dorati apparir vede,
Vede apparire il sospirato Eliso,
Ove di primavera eterno è il riso.
     Qual silenzio! qual calma!
Solo un lieve spirar d’auretta l’Alma,
Nella fronda d’alloro: ode soltanto
Un cheto mormorar nell’amaranto.
Ineffabile pace
Tien l’aura e l’onda; e la natura tace,
Come quando del mar fuori parea
Della beltá la Dea.
     E qual nuovo splendore!
Terra! Né giá tanta luce colora
Nella stagion del fiore
Il viso mai della tua bella Aurora:
Mira l’ellera liscia ed intricata
Di porpora irraggiata;
E intorno al fonte i fiori sfavillanti.
Qual corona di stelle tremolanti.
     Tale spuntava il di, quando eminente
Di sul cocchio lucente
Vide Cinzia l’aspetto
Del suo pastor diletto:
E di nova beltá s’ornava il prato:
E ripeter celeste melodia
Endimïone, Endimïon, s’udía.
Oh! beato, oh beato!
                         
[p. 222 modifica]

II


                                    Non piú sospiri e lai!
Nel convito d’Eliso,
Loco sol trova il riso.
Estasi eterna, voluttá infinita
È d’Eliso la vita,
Ruscel che suona per campi ridenti;
E Maggio eternamente
Con soave virtú spirar si sente.
     Volano l’ore tra sogni dorati;
L’anima nuota fra spazi infiniti;
Il velo squarciasi dinanzi al vero;
Sempiterna dolcezza
Empie il core d’ebbrezza.
Non han qui nome alcuno
Le tristi cure e non è qui il dolore.
Che un’estasi d’amore.
     Lo stanco pellegrin qui l’arse membra.
Sotto le mormoranti ombre riposa,
E il suo fastel qui posa,
Di man cade la falce al mietitore,
E tra voci canore
E il fremere dell’arpa addormentato
Sogna la messe e il prato.
Ve’ quegli, il cui vessillo un df furenti
Movea tempeste, e d’omicidi accenti
Alto rimbombo; del ’suo passo al sonito
Le montagne ondeggiavano;
Ed or qui posa il petto
Al cheto mormorio d’un ruscelletto,
In fra i sassi scherzoso;
Né turba rumor d’armi il suo riposo.
     I fidi sposi qui stringonsi al core:
Su tappeti di molle e verde erbetta
Dansi il bacio d’amore,
Accarezzati dalla fresca auretta.
                         
[p. 223 modifica]
                               Qui l’amore ha il suo trono;
Qui gli strali di morte indarno sono;
E qui viene imbandito,
Eternamente, il nuzïal convito.
                         


La prima è poesia di Matthisson, l’altra di Schiller. L’argomento è lo stesso, ma diversamente concepito.

Matthisson ha avuto innanzi l’Eliso pagano; ha raccolto tutto ciò che ne hanno detto i poeti antichi, e di quelli sparsi elerqenti si sforzato di costruire un ideale mitologico dell’Eliso. Mira, principalmente, alla rappresentazione della natura, descrivendoci con eletti particolari le condizioni del luogo. La descrizione è ravvivata dall’impressione, che quello spettacolo ancor nuovo produce sull’anima contemplatrice.

Nella sua descrizione è un gran movimento; perché in luogo di arrestarsi sopra di un oggetto solo e mostrarlo nelle sue diverse parti, come si fa da’ pittori, passa, lievemente, di cosa in cosa, e ti offre allo sguardo una mutabile scena. Nondimeno la natura è muta, senza la presenza dell’uomo; onde il Matthisson ti pone avanti un’anima entrata pur allora, le cui impressioni sono rappresentate con delicate gradazioni. Vi è, dunque, un avvicendare di descrizione ed impressione, con giusta misura, con naturali passaggi.

La poesia rimane un’imitazione vivace ed elegante. L’autore è guidato da una ispirazione placida; né aggiunge al vero entusiasmo, comeché vi si sforzi. Avendo innanzi un luogo soverchiamente determinato, ed intento a riprodurre immagini classiche, gli manca il sentimento dell’oltrenaturale. E, d’altra parte, dando troppo luogo alla parte descrittiva, le impressioni dell’anima rimangono troppo vaghe e generali; anzi l’anima vi sta non per sé, ma come mezzo poetico a rendere la descrizione mobile e vivace. Il qual difetto di personalitá dá all’Eliso, quasi, l’aspetto di un deserto, sia pure grazioso e leggiadro.

Altro è l’Eliso di Schiller. Il gran poeta Io ha concepito fuori di ogni determinazione di tempo e di luogo; è l’Eliso non piú pagano che cristiano, non piú antico che moderno. Ben vi [p. 224 modifica]trova alcuni de’ particolari del Matthisson, ma di quelli che s’incontrano in ogni paradiso poetico: «le ombre mormoranti», il ruscello, i suoni, l’auretta, ecc. Oltreché essi vi compariscono per incidente, in brevi frasi ed anche in semplici epiteti. Vi sta il descrittivo, come un mero accompagnamento; il fondo di questa poesia è l’uomo. Matthisson ti descrive prima in confuso la natura, poi te la distingue a parte a parte. Schiller ti mostra prima raccolte quelle impressioni, che poi vedi sciogliersi in varie gradazioni, accomodate al mietitore, al pellegrino, agli sposi, ecc. Il procedimento è lo stesso; il fondo, è diverso.

Aggiungi, che Schiller ha avuto il sentimento del mondo, che voleva dipingere: fin dai primi versi, ti trovi innanzi al soprannaturale. Il luogo rimane fluttuante; la fantasia s’innalza fino all’infinito, e si trova oltrepassata: te ne accorgi al vago delle immagini, «estasi eterna», «voluttá infinita», «sogni dorati», «spazi infiniti», ecc. Ma dove non giunge l’immaginazione, supplisce il sentimento piú potente: Schiller ci fa sentire piú di quello che ci fa immaginare. Quando poi scende alle diverse condizioni d’uomini, la poesia prende, a poco a poco, una forma piú determinata; lo stile ha meno d’impeto e piú grazia; al primo innalzamento dell’anima succede un certo dolce obblio, un sentimento di calma e di pace.

Ma se Schiller avanza Matthisson, rimane inferiore a sé stesso, come nella Danza. Schiller è uno de’ piú grandi poeti lirici: ha scritte poesie perfettissime, come: Amalia, Il pellegrino, L’ideale, e La vita, La campana; che il mio egregio amico Giuseppe del Re ha fatto, sono giá molti anni, conoscere agli italiani. Quando dico, ch’egli rimane al di sotto di sé stesso, intendo che l’Eliso, la Danza, ed altre sue poesie non sono da annoverare, a mio avviso, tra’ suoi capilavori. Nell’Eliso vi ha, come abbiamo veduto, grandi bellezze; comincia con un vero entusiasmo, che si mantiene nelle prime strofe, piene di movimento; ma quando scende alle diverse condizioni di uomini, il pellegrino, il mietitore, il guerriero, gli sposi, cade in luoghi comuni. È uno di quegli argomenti ch’egli ha poco meditati; e chi consideri a quant’altezza di concetti e d’immagini siasi [p. 225 modifica]levato Dante nel Paradiso, m’intenderá. Il pellegrino, che riposa le stanche membra sotto le ombre mormoranti, il mietitore che si addormenta al suono dell’arpa, il guerriero che dorme al mormorio di un ruscelletto, gli sposi che si abbracciano sulla verde erbetta, sono immagini delicate e graziose; ma comuni a tutte le situazioni «idilliche» e «terrestri». Egli, dunque, è rimaso inferiore e a sé stesso e al suo argomento.

Tali sono i lineamenti generali di queste due poesie. Dal diverso modo onde sono state concepite nascono i loro pregi e difetti. Posta la situazione, si può non difficilmente giudicare delle altre parti de’ due lavori; e forse lo farò appositamente, in un altro articolo.

[Nel «Piemonte», a. I, i855, dal i8 ottobre al i° dicembre, nn. 246, 256, 263, 27i, 283.]