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in una risposta che egli dette in Senato all’on. Finali, dicendo che il ministero doveva esser conciliante, dal momento che dal Vaticano si faceva udire una voce serena, spesso ispirata.
Il desiderio della conciliazione fra Stato e Chiesa si faceva vivo fra i cattolici, e di quel desiderio si fece propugnatore il conte Valperga di Masino; a lui si unirono molti fra i conservatori d’Italia. A Roma uno dei raggranellatori delle file sparse del partito era stato Roberto Stuart, giornalista e letterato notissimo, inglese per parte del padre, giornalista egli pure, e italiano per la madre.
Il partito moderato non fece buon viso al nuovo partito, e non poteva farglielo. Il Sella disse schiettamente in una lettera all’on. Cavalletto, che il programma del partito conservatore era la negazione di quello del conte di Cavour, che era stato sempre il programma del partito moderato, perché mentre questo voleva la completa separazione dello Stato dalla Chiesa, il nuovo partito richiedeva l’ingerenza della Chiesa in alcune questioni per il vantaggio della Nazione.
Verso il 20 febbraio il nuovo partito tenne adunanze in casa del conte Paolo di Campello, alle quali assisterono il marchese di Baviera, il principe di Sulmona, il principe Chigi e il marchese Ferraioli. Dalle Marche e dall’Emilia erano venuti a Roma, a quello scopo, il marchese Connestabile della Staffa, e l’on. deputato Bartolucci, il quale per molti anni, e anche durante le discussioni per la soppressione delle Corporazioni religiose, si era trovato solo rappresentante alla Camera delle idee del nuovo partito. Firenze aveva mandato qui il marchese Burbon del Monte, l’avv. Grossi e il prof. Falorsi; Bologna il conte Malvezzi e il signor Rabbioni; Milano il conte Melzi.
In quelle sedute fu letto e discusso il programma del conte Valperga di Masino, che era pure presente, e fu giudicato troppo oscuro nella parte che si riferiva ai rapporti fra l’Italia e la Santa Sede, e troppo prolisso nella redazione. Alcuni intervenuti proposero un altro programma, nel quale era ammessa più spiccatamente la sommissione del nuovo partito alla Santa Sede e di esso fu ispiraratore l’on. Bartolucci.
In quelle sedute venne stabilito di presentare al Papa il programma affinché lo approvasse, ma anche prima che il nuovo partito si costituisse i giornali clericali, fra cui l’Osservatore Cattolico di Milano, lo avevano avversato. Non tutti l’intervenuti alle riunioni del palazzo Campello firmarono il programma; anzi soltanto i meno clericali; gli altri volevano che fossero in esso meglio salvaguardati i diritti della Santa Sede, e che il Papa soltanto dovesse stabilire se i cattolici potevano andare o no alle urne.
E quasi queste scissure non fossero bastate per dimostrare la mancanza di base del nuovo partito, e il significato differente che aveva la parola conservatore per i cattolici dell’alta Italia e per quelli romani, la voce del Papa si fece udire per condannarlo fino dal suo nascere.
Leone XIII, come ho detto, fino dalla sua elezione si era dimostrato assennato e giusto, così nel governo della Chiesa, così nei suoi rapporti con l’Italia e con le potenze in guerra col Papato al momento della morte di Pio IX, così nei suoi discorsi. Ciò non soddisfaceva punto gl’intransigenti del Vaticano, i quali si erano sgomentati al solo pensiero che il Papa potesse mettersi sulla via di una conciliazione con l’Italia, conchiudendo un accordo col promotore del nuovo partito. Per quegli intransigenti Leone XIII era tutt’altro che un Papa ideale. Lo tacciavano di avarizia per aver licenziato molti parassiti, per avere imposto tasse ai Capitoli di San Pietro, di Santa Maria Maggiore e di San Giovanni in Laterano, per non aver creato cardinali, e per non accordare sussidii a nessuno, nè far regali ai vescovi. La sua supposta avarizia, che non era altro che economia ed ordine, temevano lo avrebbe spinto fino ad accettare dall’Italia la dotazione annua di tre milioni e mezzo.