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Poi, se un puttin di marmo avvien che mostri
               qualcosellina al sole,
protesterete con furor d’inchiostri
               con fulmin di parole;
e pur ieri cullaste il figliuoletto
               tra i notturni fantasmi
co ’l piè male proteso fuor del letto
               ne gli adulteri spasmi.
Ma voi siete cristiane, o Maddalene!
               foste da i preti a scuola.
Siete moderne! avete nelle vene
               l’Aretino e il Loiola.


Inoltre le molte aderenze che aveva il Martini fra i letterati, fra gli uomini politici e nella società romana, facevano convenire negli uffici del suo giornale, che erano al 130 in Piazza Montecitorio, una quantità di gente, come già era avvenuto in quelli della Rassegna Settimanale, di cui era proprietario e direttore Sidney Sonnino. Alla Rassegna anzi, che aveva sede al pianterreno del palazzo Chigi, si riunivano nelle ore pomeridiane anche molte signore colte a prendere il thé, e a discutere di letteratura e di politica, insieme con gli amici del direttore, che erano quasi tutti deputati, come Leopoldo Franchetti, Giorgio Sonnino, Bonaventura Chigi ed altri.

Nell’autunno di quell’anno, tre punti di ritrovo dei romani, tre caffè sul Corso, dovettero chiudersi per ragioni diverse.

Il primo fu il Caffè d’Italia, situato sull’angolo del Corso in piazza San Lorenzo in Lucina, in seguito a cattivi affari. Il Caffè d’Italia aveva avuto la sua storia ed è bene rammentarla.

Prima del 1859 era il punto di ritrovo dei liberali romani e come tale considerato dalla polizia pontificia, era continuamente sorvegliato dai gendarmi. Il bollettino telegrafico che annunziava la memorabile vittoria di Magenta fu affisso, la sera stessa della battaglia, sulla porta del Caffè d’Italia, che in quel tempo non portava questo nome. I gendarmi pontificii, nel timore che quell’annunzio potesse dar pretesto ad una dimostrazione patriottica, s’avanzarono verso le porte del Caffè, e ne staccarono il telegramma. La popolazione cominciò a fischiare ed i gendarmi si ritiravano già col bottino, quando il capo tamburo del 40° reggimento d’infanteria di linea francese, si presentò al maresciallo dei gendarmi, gli strappò dalle mani il telegramma, dicendogli in buon italiano che egli non aveva alcun diritto di sequestrare un telegramma, che annunziava una vittoria dell’esercito francese ed italiano. Affisse di nuovo il telegramma sulla porta del Caffè tra gli applausi della popolazione, e costrinse i gendarmi a ritirarsi.

In seguito alle dimostrazioni del 1859 la polizia pontificia ordinò più volte la chiusura del Caffè di San Lorenzo in Lucina. Si riapri più volte ed ebbe un periodo felice nel quale potè fare ottimi affari.

Nel 1874 cominciò a deperire finchè una disgraziata combinazione, un suicidio avvenuto in una delle sue sale verso il tramonto, cioè durante l’ora del passeggio sul Corso, non contribuì ad allontanare dal Caffè d’Italia molti dei suoi più assidui clienti.

Il secondo Caffè che si chiuse fu quello di Venezia, che prima della demolizione della proprietà Torlonia si trovava sull’angolo della piazza di Venezia. Trasportato in seguito all’allargamento del Corso e della via San Romualdo nella proprietà Ciccognani, il Caffè Venezia non fece