Roma italiana, 1870-1895/Il 1873
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Il 1873.
«Il Re regna, ma non governa» la formula delle monarchie costituzionali, fu severamente osservata da Vittorio Emanuele nei ricevimenti del 1° gennaio 1873. Il Re si limitò a pronunziare parole cortesi in risposta agli augurii, che gli presentava il signor Marsh, decano del corpo diplomatico, a nome dei suoi colleghi, e ad assicurare che quegli augurii riuscivano grati al suo cuore, perché gli fornivano la prova che il suo Governo era in buoni rapporti di amicizia con tutte le potenze. Ai rappresentanti del Parlamento, parlando della sua recente malattia, disse che era stata cosa lieve, ma che del resto l’Italia aveva sempre chi sapeva mantenere l’opera da lui compiuta. Solamente al conte Pianciani, funzionante da sindaco, espresse il desiderio di veder presto incominciati i lavori del Tevere. Il riserbo del Re, il quale era solito dire qualche parola sulle questioni più gravi, fu notato. Vittorio Emanuele forse in quell’anno volle evitare ogni allusione ai lavori parlamentari, alle gravi quistioni che Camera e Senato dovevano risolvere, per un riserbo lodevolissimo; forse anche la recente infermità gli aveva tolta una buona dose d’energia. L’aria di Roma era nociva alla salute del Re e in quel tempo l’aria era ben poco confacente a quanti vi venivano da altre località. Inoltre Vittorio Emanuele era gravemente angustiato per le notizie di Spagna, e il malessere fisico e l’inquietudine che gli cagionava la sorte del figlio Amedeo, gli toglievano l’energia e la voglia di parlare. I ricevimenti lo stancavano e quella sera del 1° gennaio quando comparve alle 6 nella sala da pranzo dei Quirinale, dando il braccio alla principessa Margherita, e più tardi all’«Apollo», tutti nel rivederlo, si accorsero che era molto deperito. Il pubblico gli fece una calorosissima ovazione, tanto quando comparve durante il 1° atto dell’«Africana», quanto allorchè usci dal teatro; e con quella ovazione voleva esprimergli la gioia di rivederlo e la speranza che sarebbe rimasto tutto l’inverno a Roma.
La vera vita della capitale incominciò in quell’anno ai 20 di gennaio. Prima Roma era vuota di forestieri per il timore incusso nella gente, che vi viene di fuori con lo scopo di vivere in pace e di divertirsi, che nascessero torbidi per il tanto strombazzato comizio al Colosseo. E i timori non erano vani. Si parlava di un moto insurrezionale, che doveva scoppiare in Toscana, di uno sbarco in Maremma, e il comizio aveva richiamato a Roma tutti i capi più noti dell’Internazionale. Anche gli albergatori qui erano cosi sgomenti che non osavano rifiutare ad essi gli alloggi, e a molti l’accordavano anche senza compenso. Le misure prese dal Lanza fecero rinascere la fiducia e nel gennaio Roma incominciò a ripopolarsi di forestieri.
Il giorno 10, appena la Camera si aprì dopo le ferie, il presidente Biancheri comunicò che il duca di Sermoneta, deputato del 5° collegio di Roma, aveva date le dimissioni. Su proposta di Francesco Crispi, il quale pregò la Camera di non accettare le dimissioni di un deputato, che aveva avuta tanta parte nel restituir Roma all’Italia, le dimissioni furono respinte all’unanimità.
In quella stessa seduta il deputato Massari domandò al Presidente del Consiglio se fosse confermata la notizia della morte di Napoleone III; in tal caso egli a nome dei suoi amici non avrebbe potuto fare a meno di esprimere il profondo cordoglio per la morte di un uomo, che tanto fece per l’Italia, e al quale la storia attribuirà come titolo di gloria quello di aver potentemente contribuito a fondare l’indipendenza italiana. Il Lanza rispose che non era pervenuta alcuna comunicazione ufficiale al Governo italiano intorno alla morte del già imperatore dei francesi, ma da telegrammi giunti a parecchie famiglie, che erano con lui legate da parentela, si aveva motivo di credere che la dolorosa notizia fosse purtroppo vera. Perciò il Presidente del Consiglio aderiva alle parole del deputato Massari, come riteneva si sarebbe associato tutto il paese, nel deplorare la morte del già imperatore dei francesi, il quale cosi grandemente contribuì col consiglio e con le armi al trionfo della causa nazionale.
Molti deputati dettero segni di viva approvazione, e questa fu tutta l’orazione funebre che Napoleone III ebbe dagli eletti del popolo. Dopo, il suo nome non fu pronunziato nell’aula di Montecitorio altro che per chiedere al Governo di prendere provvedimenti contro il municipio di Firenze, perché l’on. Ubaldino Peruzzi si era associato ai funerali dell’imperatore nel tempio di Santa Croce, e contro gli ufficiali che in tenuta avevano assistito a quei funerali.
Il Senato, dietro proposta del Borromeo, aveva votato un ordine del giorno esprimente il rammarico per la morte di Napoleone. Era ben poco per l’alleato del 1859; ma eravamo a Roma, e il Governo non poteva far di più.
Vien fatto di pensare come il ministero Lanza era mal servito dai suoi diplomatici, quando si sente dire al Lanza nel pomeriggio del giorno 10 che non aveva avuto ancora comunicazione ufficiale della morte di Napoleone III. La sera prima il conte Wimpffen, ministro di Austria-Ungheria presso il Re, dava nella sua abitazione al palazzo di don Mario Massimo all’Aracoeli un pranzo al quale assistevano Visconti-Venosta, il signor Fournier, Marco Minghetti, sir Augustus Paget, ministro d’Inghilterra, ed altri diplomatici. Sul finire del pranzo il Paget ebbe un dispaccio col quale il suo Governo gli annunziava la morte di Napoleone III, avvenuta a Chiselhurst. Più tardi gl’invitati del ministro Wimpffen andavano a un ricevimento dalla duchessa Sforza-Cesarini, e vi recavano la notizia, che già era a conoscenza del cardinal Bonaparte e del conte Arese, fido e antico amico di Napoleone III.
Come mai il Lanza non aveva avuto nessuna comunicazione ufficiale?
Il giorno 15 a cura della famiglia Bonaparte furono fatti solenni funerali nella chiesa di Santa Maria in via Lata; il Governo non vi era rappresentato; ma il Re vi mandò un ufficiale d’ordinanza, e i Principi di Piemonte vi mandarono il generale de Sonnaz, il capitano Ulrich e il marchese e la marchesa di Montereno a rappresentarli. Molti deputati e senatori assistevano alle esequie.
La famiglia Bonaparte era riunita nella cappella gentilizia che ella possiede in quella chiesa, e ove sono sepolti Luciano e il figlio di lui Giuseppe, principe di Musignano.
Il cardinal Bonaparte annunziò la morte di Napoleone III al Papa. Pio IX alzò gli occhi al cielo e non pronunziò parola. Dopo spedì un telegramma affettuoso all’Imperatrice Eugenia. Il telegramma fu fermato da quelli che lo circondavano e che non volevano che il Papa si compromettesse con i superstiti di una dinastia caduta, e dai quali non speravano più nulla, mentre dalla Francia speravano ancora, e fu spedito con gran ritardo, quando già a Chiselhurst si era notato il silenzio di Pio IX. Ma non è tutto. Il cardinal Bonaparte immediatamente dopo la morte di Napoleone III aveva chiesto il permesso di partire per assistere ai funerali. Come è noto, i cardinali di Curia non possono assentarsi da Roma senza il permesso del Pontefice. La domanda fu presentata, per i soliti raggiri dei gesuiti, così tardi, che il cardinal Bonaparte quando gli giunse il permesso non aveva più tempo di trovarsi in Inghilterra per la cerimonia funebre. Pio IX, quando si accorse che la sua volontà non era stata rispettata, andò in furia; ma i gesuiti avevano ottenuto l’intento, che era quello di fare rimanere il Papa assolutamente estraneo a qualsiasi manifestazione d’affetto verso i Napoleonidi. Il rappresentante del Governo di Vittorio Emanuele, general Piola-Caselli, aveva avuto tempo di recarsi in Inghilterra; il porporato, cugino del defunto, non poteva assistere ai funerali del capo della sua famiglia.
Ho accennato nel precedente capitolo alla faccenda dei marinari dell’«Orénoque», che non vennero a Roma a complimentare il Papa per il nuovo anno, perché il signor Fournier esigeva che andassero prima al Quirinale. In seguito a questo fatto, il signor di Bourgoing, accreditato presso il Vaticano, dette le dimissioni, e prima che egli partisse i clericali romani gli diressero una lettera così concepita:
«Signor conte, Quel vincolo sacro che lega la cattolica Francia a questa venerata sede del Vicario di Cristo, e che le meritò il titolo di figlia primogenita della Chiesa, è stato da Voi, signor conte, nobilmente confermato nell’atto che sdegnosamente respingevate di farvi complice di transazioni impossibili. La riconoscenza e l’ammirazione dei vostri compatriotti sono per giustissimo titolo divise dai cattolici romani e noi ve ne porgiamo, signor conte, con queste poche linee, la solenne testimonianza.
«Crediamo fare il più efficace voto per il completo risorgimento della Francia, augurandole molti uomini che vi somiglino».
Dopo il richiamo del signor Bourgoing, era venuto a Roma il signor de Courcelles, si diceva per sostituirlo, ma non aveva missione ufficiale; peraltro era continuamente in Vaticano e spessissimo andava a pranzo da monsignor de Merode. Il de Courcelles abitava all’albergo della Minerva ed era assediato dalle attenzioni dei clericali. Egli aveva una moglie, che per tatto faceva ridere tanto i neri quanto i bianchi, e provocava lo sdegno del Papa. Essa, in una udienza privata, a Pio IX, che domandavale se aveva visitato Roma e aveva veduto tutto ciò che offre di singolare, rispose: «Si, Santità, tutto; mi rimane soltanto da vedere un conclave». Il Pontefice, superstizioso com’era, non dimenticò mai quelle parole.
Col nuovo anno e in mezzo a tante mene, a tanto agitarsi di contrari interessi, Roma riprendeva il consueto aspetto, e i Principi di Piemonte si studiavano di far dimenticare il brutto periodo precedente. Essi si mostravano molto per non far sentire tanto l’assenza del Re, il quale subito dopo i ricevimenti era partito per Napoli. Nel loro quartiere essi davano un ballo ogni mercoledì, non un gran ballo ufficiale di migliaia di persone, ma un ballo con invito ristretto, al quale era un onore e un piacere di assistere, perché i Principi conversavano con tutti e mentre il futuro Re s’intratteneva di cacce, di argomenti, militari, e di avvenimenti importanti, la futura Regina incominciava a vincere la naturale timidezza, e ad estrinsecare quelle doti dell’intelletto e del cuore, che l’hanno resa così cara ai romani.
Anche l’aristocrazia riceveva, il corpo diplomatico apriva le sue sale e i ministri davano pranzi. In quell’inverno il Visconti-Venosta aprì a diversi di questi pranzi diplomatici le sale della Consulta; lady Paget riceveva nel villino Reinach a Porta Pia, la principessa di Sant’Arpino, dama della Principessa di Piemonte, al primo piano del palazzo Bonaparte, i Gavotti, i Fiano, i Teano, gli Sforza-Cesarini, i Pallavicini avevano i loro ricevimenti settimanali, e per render più gaio il carnevale Augusto Silvestrelli fondò la società di «Pasquino», con scopo di beneficenza.
Lentamente, ma con un progresso continuo, le idee liberali si facevano strada a Roma. In quell’inverno le iscrizioni alle scuole municipali aumentarono molto; 1200 alunni passavano a queste dalle scuole clericali; numero scarso se si vuole, in confronto della popolazione, ma grande rispetto ai vantaggi materiali che offrivano ai frequentatori le scuole tenute da preti, frati e monache. L’Università invece andava tutt’altro che bene; scarso il numero degli iscritti, non coperte diverse cattedre e antagonismo spiccato fra alcuni professori. Il 10 gennaio vi era stata una dimostrazione di studenti, che reclamavano di avere insegnanti. La dimostrazione si era riunita nel cortile della Sapienza e non dando ascolto alle esortazioni del Rettore, professor Serafini, era andata al Ministero della Pubblica Istruzione, che aveva sede allora sopra alla Posta, in piazza Colonna. Lo Scialoja aveva ricevuto una deputazione di studenti e aveva promesso di nominare presto i professori, ma passò del tempo prima che l’Università fosse alla meglio ordinata. Se gli studenti furono calmi si deve soltanto al Serafini, il quale disse loro che abbandonandosi a dimostrazioni avrebbero fatto ridere i clericali.
Il 24 gennaio avvenne un fatto che dimostrò come il Governo intendeva uniformarsi al concetto di Cavour sulla libertà assoluta dell’esercizio di ogni culto. In via Nazionale all’angolo della via Napoli, fu posta la prima pietra del tempio americano. Era la prima chiesa protestante che sorgeva dentro le mura di Roma, perché in passato i seguaci di Lutero, di Calvino e di Pietro Valdo, dovevano contentarsi di andare a pregare nei templi fuori delle mura. Difatti la chiesa scozzese e quella inglese erano fuori di Porta Flaminia. Alla cerimonia assisteva il signor Marsh, ministro d’America, la principessa di Triggiano, pure americana. Un vescovo di quella nazione rilevò l’importanza del fatto che si compieva, e disse che il nuovo tempio si sarebbe intitolato da San Paolo.
Al riaprirsi delle sedute della Camera i liberali avevano sperato che la Giunta incaricata di riferire intorno al disegno di legge sulle Corporazioni religiose sarebbesi subito riunita. La riunione si fece con qualche indugio, e subito le difficoltà sorgevano e ne intralciavano il lavoro. Sarebbe stato più prudente che il progetto di legge, che ledeva tanti interessi e suscitava tante ire nei clericali e nella Curia, si fosse discusso a Firenze, e lo avesse promulgato la Luogotenenza. Discuterlo qui fu errore grave del quale il Governo si accorse per le difficoltà che incontrava nel Parlamento non nel farlo accettare in massima, perchè di quella necessità tutti erano convinti, ma per il modo della applicazione.
In Vaticano si seguivano con grande ansietà i lavori della Giunta parlamentare, di cui era relatore il Restelli, ed aveva destato doloroso stupore che l’abolizione delle Corporazioni religiose fosse stata estesa alle Case generalizie. Si sperava che il Governo non l’avesse accettata e ne fosse nata una crisi ministeriale; invece questa fu provocata prima ancora della presentazione del progetto di legge, e il Sella si dimise e con lui tutto il ministero, a proposito della discussione sul progetto di legge per l’arsenale di Taranto. Ma la Corona non accettò le dimissioni e il ministero tal quale si ripresentò alla Camera, consigliato dal Minghetti, dal Ricasoli, dal Pisanelli e da altri, per non ritardare la discussione della legge sulle Corporazioni religiose. Il Governo e gli uomini della destra non ignoravano che la soppressione delle Case generalizie, specialmente dopo il grido d’allarme diretto dal Vaticano ai vescovi, minacciava un movimento maggiore di ogni altro provvedimento. Il signor de Courcelles aveva inoltre, per ordine del Papa, attratta l’attenzione del signor Thiers sui sentimenti radicali della Camera italiana. Tutta l’accortezza del ministro Visconti-Venosta era spesa nell’evitare rimostranze come nel passato, per sottrarre l’Italia all’ingerenza dell’Europa.
Quelli che più strepitavano erano i collegi esteri di Roma, i quali soprattutto erano furenti per la progettata soppressione del Collegio Romano, che sostenevano dovesse esser considerato come ente internazionale, perchè dotato dai Papi con sussidii propri e con sussidii venuti dall’estero. Quei collegi protestavano col Lanza e con i loro rappresentanti presso il Governo italiano.
Mentre in seno della Giunta e alla Camera stessa si discuteva la legge sulle Corporazioni religiose, la Curia romana e i seguaci di lei, non si stancavano di punzecchiare il Governo e di eccitare una reazione nel partito liberale con attacchi continui. La «Società per gl’Interessi Cattolici» trasferiva la sua sede al palazzo Costa al Corso, sopra al magazzino Cagiati, ove già teneva adunanza il comitato della mazziniana «Associazione Italiana» e lavorava a più non posso per infiammare gli animi, e al pari di altri circoli cattolici iniziava una sottoscrizione per protestare contro la legge sulle Corporazioni religiose. Il cardinal Patrizi, vicario di Roma, domandava al procuratore del re di processare la Capitale, che discuteva la vita di Gesù Cristo. Al Gesù il padre Cornoldi predicava contro i buzzurri e la soppressione, il padre Lombardini si scagliava contro gl’invasori, perchè vi era stato per mezza quaresima un veglione all’Apollo, e contro il municipio per aver introdotto il servizio delle pompe funebri. Altri predicatori dal pergamo si affannavano a riprovare e maledire tutto quanto faceva il Governo, e i giornali clericali univano l’opera loro a quella delle società cattoliche, dei predicatori e dei parroci, e infiammavano le popolazioni cattoliche dei paesi stranieri e anche d’Italia, tanto che in primavera vi fu la minaccia di un moto clericale in Calabria. Ogni mezzo di guerra era buono. Le maestre delle Scuole Pie, che il Papa riceveva così spesso, avevano insegnato alle loro alunne una canzone, da cantarsi al Pontefice, che diceva precisamente:
La bandiera tricolore |
Pellegrinaggi dall’Austria e dalla Francia venivano continuamente a Roma e dicevano cose da orbi contro il Governo e contro i liberali. Quello guidato dal visconte di Damas, legittimista, presentò un indirizzo violentissimo dal quale ne tolgo un brano.
«Anche noi, Padre Santissimo, sapremo soffrire. Noi abbiamo inteso il grido dell’angoscia e della consolazione: «I governi mi abbandonano, ma il popolo, plebs christiana, il vero popolo cristiano mi resta fedele.» Noi apparteniamo a questo popolo cristiano e dovessimo versare il nostro sangue con le nostre preghiere, vogliamo che i Governi ritornino al loro vero capo, il Cristo; vogliamo che il nostro paese ritrovi il grido del suo primo re: «Ah! s’io fossi stato là con i miei Franchi!» È questo il grido segreto della nostra missione e il segreto della nostra salute. Se la Francia fosse stata là, Roma non sarebbe mai stata violata. Se la Francia fosse stata là, Roma non avrebbe che un Re e non avremmo a visitare il nostro Padre prigioniero. Se la Francia avesse voluto esser là, sarebbe ancora la Francia, e Pio IX troverebbe un appoggio fedele per rovesciare il grande nemico del Cristo nei tempi moderni, la rivoluzione, come il suo glorioso patrono ha trovato un cuore valoroso ed una spada valorosa per vincere il grande nemico dei tempi antichi, il maomettanismo.
«Noi non abbiamo che uno scopo, che un’ambizione nei nostri pellegrinaggi: rendere alla patria nostra la sua missione, alla chiesa la sua figlia primogenita, al Papa il suo difensore».
Naturalmente i romani liberali, quelli che avevano l’anno prima coperto di 10,000 firme un indirizzo per l’espulsione dei gesuiti, non potevano stare zitti dinanzi a tutte queste provocazioni, e il 10 maggio presentarono ai deputati di Roma una nuova petizione, e indissero un comizio al Corea, che il Lanza impedi si adunasse, perché era ancora invalso l’uso che non si facesse pressioni sulla Camera discutendo in pubblico argomenti di cui essa si occupava.
L’indirizzo diceva:
- «Onorevoli Deputati dei collegi di Roma,
«La legge che sta discutendo il nostro Parlamento tiene desta tutta la nostra popolazione perchè se essa ha un interesse generale come corollario della legge sulle Guarentigie, é in pari tempo legge speciale per Roma, sia perché qui hanno sede e centro tutte le Corporazioni religiose, sia perchè la legge sugli enti ecclesiastici, promulgata in tutto il Regno, non venne estesa alla Provincia Romana.
«Voi, o signori, che foste eletti da noi con tanta unanimità di suffragi, conoscete bene quali sono i nostri sentimenti intorno a così grande questione, e sapete essere nostro desiderio che niuna eccezione sia fatta al nostro diritto pubblico, affinchè nelle massime, che ora si adottano dal Parlamento, non si trovi un addentellato alla futura ricostituzione degli istituti, che ora verrebbero disciolti. Non ignorate pure con quale e quanta insistenza domandammo fino dai primi tempi della nostra liberazione che venisse disciolto quell’odioso sodalizio politico, che a mascherare meglio le perfide arti e il più perfido fine, assunse il nome augusto del Redentore.
«Una petizione firmata da ben diecimila cittadini, depositata presso la Presidenza della Camera, richiede, che la legge del 1848 contro i gesuiti, sia estesa a questa nostra Provincia, e ora noi vi facciamo fervida istanza perché ove nella legge che discutete non si trovasse la intera applicazione dei nostri principi, almeno non venga dimenticato il nostro voto, e si aggiunga alla legge una disposizione per cui siano espulsi i gesuiti da Roma, come lo furono dalle altre città d’Italia, ove possedevano case od istituti.
- «Roma, 10 maggio 1873».
La proibizione del meeting ebbe uno strascico penoso. La commissione promotrice non volle assoggettarsi al divieto, e molti fra i più ardenti seguaci della Capitale, si radunarono nel cortile del Corea, che era occupato dalle guardie in gran numero. Allora fu pensato di fare una dimostrazione al Quirinale per chiedere le dimissioni del ministero Lanza e l’estensione pura e semplice a Roma della legge italiana sulla soppressione delle Corporazioni religiose. La dimostrazione s’improvvisò subito, e attraversando il Corso, gridava: «Abbasso il Ministero! Abbasso le corporazioni religiose! Abbasso i pretoriani!» alludendo a una parola sfuggita all’on. Emanuele Ruspoli alla Camera. I dimostranti giungendo alla via dell’Umiltà, ne trovarono sbarrato l’accesso dalle guardie e dai carabinieri, e allora, dividendosi, si gettarono in piccoli gruppi nelle altre vie, che egualmente mettevano al Quirinale. Ma la salita della Dateria era pure sbarrata. La folla peraltro non si sgomento e al grido: «Al Quirinale!» cercava di rompere le file, tanto che guardie e carabinieri dovettero sfoderare le daghe e le sciabole per respingere i più turbolenti. Vi fu una colluttazione, e le guardie fecero sedici arresti. Intanto che questo accadeva ai piedi del Quirinale, un’altra dimostrazione si formava al Corso. I dimostranti vedendo passare il duca di Sermoneta, lo circondarono, lo applaudirono, e due di essi prendendolo a braccetto, lo ricondussero al suo palazzo, ove nel giungere egli li pregò di sciogliersi. Quegli stessi dimostranti, nel tornare addietro, incontrarono in via del Plebiscito l’on. Minghetti, insieme col general Cerroti, e riconosciuto il primo dei due, si diedero a gridare: «Abbasso i deputati!» e ad incalzare lui e il suo compagno, minacciandoli con ombrelli e bastoni. Il Minghetti ebbe un colpo sulla testa. Un certo Luigi Belardi e altri cittadini s’intromisero, e il Minghetti potè rifugiarsi nella vicina caserma. Il Minghetti era stato ferito, non gravemente, alla testa, e il giorno seguente venne subito alla Camera la faccenda della dimostrazione, mediante una interrogazione violenta del Sesmit-Doda al Presidente del Consiglio, e una più temperata del Cairoli, sul divieto del meeting, che, secondo essi, era stato causa dei dolorosi incidenti. Due altre interrogazioni furono fatte da Ruspoli e da Codronchi sui fatti stessi. Don Emanuele Ruspoli, accennando come a Roma vi fossero centri di reazione e di sovversione, invitava il Presidente del Consiglio a punire gli attentati contro la legge, da qualsiasi parte venissero. Il Minghetti assisteva alla seduta e dopo aver ringraziato il Lanza, il Ruspoli e il Cairoli, disse che la folla che lo circondava aveva gridato: «Morte ai deputati!» Egli prese occasione di dichiarare che avrebbe sempre, come rappresentante della nazione, adempiuto il suo ufficio, nonostante le pressioni e gli ostacoli.
La piazza Montecitorio, dopo la seduta del 12 era affollata di gente, e quando i deputati uscirono, fu gridato ripetutamente: «Viva i deputati! Abbasso le corporazioni religiose!» Dopo questa dimostrazione, in mezzo alla quale il Sella e il Lanza erano passati soli, nonostante che si sapessero minacciati, Napoleone Parboni sali sulla base dell’obelisco e arringò i dimostranti, raccomandando loro di non turbare in nessun modo le discussioni della Camera, e di attendere con calma il voto, dopo il quale il popolo avrebbe detto l’ultima parola.
Quella stessa sera la Capitale era sequestrata, e dietro mandato di cattura venivano arrestati Raffaele Sonzogno, Giuseppe Luciani e il Colacito; ma non per questo il giornale cessava le pubblicazioni, perché il Bilia e il Mussi ne prendevano subito la direzione.
Il Consiglio comunale, su proposta del consigliere Venturi, esprimeva un voto di biasimo per l’atto di cui era stato vittima l’on. Minghetti, e dalla cittadinanza giungevano al deputato di Legnago grandi attestati di simpatia.
Il 17 maggio, mercè un emendamento dell’on. Ricasoli, è approvato dalla Camera il famoso articolo secondo della legge sulle corporazioni religiose, che riguarda specialmente le Case generalizie, rifatto dalla Giunta prima, e che venuto in discussione plenaria, minacciava di far naufragare tutto il progetto di legge.
Il progetto primitivo del Governo, creava a Roma tante Case generali, quanti erano gli ordini, tutte riconosciute dalla legge, e nelle quali poteva restare un numero indeterminato di religiosi; quelle case potevano amministrare i loro beni, e dal punto di vista amministrativo soltanto continuavano ad essere riconosciute come enti civili. I beni appartenenti alle case soppresse nella città di Roma, e per i quali non era specialmente provveduto dalla legge, erano devoluti alla Chiesa di Roma, per esser destinati ad usi religiosi o di beneficenza, o distribuiti ad enti religiosi esistenti nella città di Roma.
Il progetto della Giunta toglieva invece ogni riconoscimento giuridico alle Case generalizie, e in quanto ai beni non parlava di fondazioni, ma li spartiva fra la Congregazione di Carità, il Municipio e la Provincia, per valersene a scopo di beneficenza e d’istruzione. La Giunta ammetteva pur sempre un patrimonio speciale delle Case generalizie e, senza precisarne l’ammontare, assegnava questo patrimonio, detratte le passività, alla Santa Sede, offrendone il godimento temporaneo ai generali e procuratori generali degli ordini. Inoltre escludeva la conversione degli edifici in cui avevano sede i generali e procuratori generali.
La Camera invece dopo avere estese integralmente le leggi di soppressione delle Corporazioni religiose e di liquidazione dell’asse ecclesiastico, e spartiti i beni delle Corporazioni appartenenti a Roma, fra la Congregazione di Carità, il Municipio e la Provincia, provveduto al fondo delle pensioni in ragione di sedici volte il loro ammontare, assegnava alla Santa Sede una rendita fino a L. 400,000, per provvedere al mantenimento delle rappresentanze degli ordini religiosi esistenti all’estero. Fino a che la Santa Sede non disponesse di quella somma, il Governo poteva affidarne l’amministrazione ad enti ecclesiastici giuridicamente esistenti a Roma, e gli si dava facoltà di lasciare agli investiti delle rappresentanze i locali necessari alle loro residenze e al loro ufficio.
La votazione fu una cosa curiosa. Ogni deputato votò secondo le proprie convinzioni, senza badare a partito, e se l’emendamento Ricasoli, che non soddisfaceva, fu approvato, si dove al timore di veder naufragar la legge.
Le discussioni successive furono tempestose, perché molti deputati, fra i quali il Mancini, volevano che dalle norme stabilite in favore delle Case generalizie, fosse esclusa quella dei gesuiti; secondo la proposta de Donno, il Governo non voleva l’esclusione, e su questo proposito parlò il Peruzzi molto efficacemente. Ma il relatore Restelli accettò la proposta de Donno, che fu votata dalla Camera, la quale respinse l’ordine del giorno Carini, che obbligava il Governo a presentare un progetto di legge per la espulsione dei gesuiti dallo Stato.
Il Re, forse per dimostrare al barone Ricasoli la sua gratitudine per il segnalato servigio reso al Governo, andava in quei giorni appunto a visitarlo nel suo villino dietro il Gianicolo, ove il fiero barone di Brolio, viveva da eremita in mezzo alla campagna.
Nella seduta pomeridiana del 26 maggio la Camera votava i rimanenti articoli di legge. L’Osservatore Romano nell’annunziare la votazione scriveva: «Tutto dice che siamo tornati al 1848. Dobbiamo consolarcene; al 1848 succedeva il 1849».
Ma la profezia non si avverò, nè ancora pare debba avverarsi.
Si prevedevano le proteste, e prima ancora che la legge venisse discussa al Senato, fu pubblicata la protesta che i generali e procuratori generali delle Corporazioni religiose avevano diretta al Re, ai Presidenti della Camera, del Senato e del Consiglio. In quella protesta la legge era chiamata empia e sacrilega, e le proteste erano rivolte anche contro le empietà e le bestemmie dette nella Camera dei Deputati. La protesta terminava con la dichiarazione che i capi degli ordini non riconoscevano nessuno degli atti che potevano derivare dalla legge di soppressione.
E la voce del Papa non tardò molto a farsi udire. Egli parlò il 17 giugno, in occasione dell’anniversario della sua esaltazione al Soglio pontificio, rispondendo agli augurii, ma nel suo discorso si limitò a protestare in genere contro le spoliazioni, e soprattutto contro i solenni funerali fatti in Alessandria ad Urbano Rattazzi, morto in quei giorni, «da sacerdoti più aulici che ministri di un sovrano onnipotente». I suoi fulmini Pio IX serbavali a più tardi, a quando cioè la legge fosse stata applicata.
La legge fu firmata da Vittorio Emanuele il 19 a Torino. Pochi giorni dopo il gabinetto rassegnava al Re le sue dimissioni, e nel nuovo ministero di cui fu presidente Marco Minghetti, entrava come ministro della marina il capitano di vascello Saint-Bon, nuovo al Parlamento e alla politica, il quale meravigliò il paese per le larghe vedute, e seppe subito guadagnarsi la fiducia del Parlamento.
Le vicende della legge sulle corporazioni religiose mi ha fatto trascurare molti altri avvenimenti della prima metà del 1873.
Nel mese di febbraio, dopo lunghe trattative corse fra gli uomini più eminenti della opposizione, si creava a Roma l’associazione elettorale-politica della sinistra parlamentare con Francesco Crispi, il Rattazzi, il Pianciani ed altri, e mentre questo circolo sorgeva vitale, spengevasi quello «Cavour» dopo un vano tentativo di fusione col «Circolo Nazionale». Esso spengevasi per la inerzia del partito monarchico, che già si manifestava; sintomo di decadenza che doveva portare, tre anni dopo, alla irreparabile caduta di quel partito dal Governo. Il Minghetti non lo credeva, anzi era convinto che una volta giunto al potere, vi si sarebbe potuto mantenere lungamente.
Il 12 febbraio giunse a Roma la notizia che Amedeo I aveva abdicato nobilmente, sentendo di non poter più regnare nei limiti della costituzione. La stampa di Roma fu unanime nel lodare l’atto del giovane Re, e la cittadinanza tutta trepidò per lui e per la duchessa d’Aosta finché non li seppe al sicuro alla corte del Re di Portogallo. La lettura del messaggio diretto dal Re alle Cortes non fece altro che aumentare le simpatie e l’ammirazione per il Principe sabaudo, che aveva saputo in un lontano paese tenere alti quei principii, che erano la religione dell’avo e del padre suo. Poche sere dopo il re Vittorio Emanuele andava all’«Apollo» ove si dava il Manfredo; appena comparve fu accolto da una ovazione spontanea e solenne. Nel teatro non si sentiva gridare altro che: «Viva il principe Amedeo! Viva il secondo re galantuomo!» Vittorio Emanuele per tre volte dovette affacciarsi al palco per ringraziare. Egli era certo commosso e orgoglioso di aver trasfuso con l’esempio nei proprii figli quella lealtà di carattere e di propositi, che valse a lui il lusinghiero appellativo di galantuomo.
Il conte Pianciani, funzionante da sindaco, inviava al principe Amedeo un telegramma per esprimergli che i romani erano orgogliosi di averlo cittadino e di annoverarlo fra i Principi di Casa Savoia, e il generale Lipari, comandante la guardia nazionale, pure gli telegrafava dicendogli che la guardia nazionale di Roma lo salutava col nome di duca d’Aosta, che riprendeva dopo avere aggiunto gloria alla Casa di Savoia.
La Camera, a unanimità di voti, aveva ripristinato l’appannaggio del principe Amedeo, e il presidente Biancheri gli comunicava la votazione con la seguente lettera:
«Io ascrivo a singolare fortuna di aver debito di trasmettere alla A. V. questa risoluzione dettata dal sentimento del patriottismo e dell’ammirazione che la condotta di V. A. desta in ogni animo onesto. Scendendo volontariamente da un trono dove era salita per rendere un grande servizio alla causa della civiltà e della libertà, l’A. V. ritrova la patria che l’accompagnò sempre con i suoi voti e con i suoi augurii, e che nella A. V. ritrova oggi il soldato fedele, il degno Principe di Casa Savoia»,
Giova notare che la proposta di reintegrazione era partita dal presidente, e vi si erano associati il Minghetti e il Lanza; ma anche il Crispi, dai banchi dell’opposizione, ove sedeva allora, dichiarò che si associava a nome proprio e dei suoi amici, che erano stati contrari all’accettazione della corona spagnuola. Essi applaudivano al ritorno di un Principe al quale postosi il difficile dilemma se dovesse regnare o abdicare, aveva scelto la migliore delle soluzioni, rinunziando a un trono sul quale non era possibile restare se non con la violenza.
Il conte Pianciani, interprete del sentimento dei Romani, andò a Torino a complimentare il duca d’Aosta. Tornando, comunicò al Consiglio le cortesie che aveva ricevute dalla città dove si era iniziato il movimento nazionale, e che erano dirette a quella ore siffatto movimento erasi compiuto.
Ho accennato in principio del capitolo alle dimissioni presentate dal duca di Sermoneta alla Camera, dimissioni che furono respinte e nelle quali il deputato del V collegio di Roma volle insistere. Il duca era malcontento del Governo, malcontento dei suoi colleghi in deputazione, malcontento un po’ di tutto, perché aveva l’animo poco proclive alla serenità, e il sarcasmo e la satira erano in lui consueti. Voleva avere la soddisfazione d’essere rieletto e fu, senza competitori. I suoi elettori di Borgo e di Trastevere, per festeggiare quella elezione, gli offrirono un banchetto al «Politeama Romano». I convenuti, in numero di 180, fra i quali il professore Oreste Raggi, il dottore De Vecchi, il dottore Alessandro Grisanti, il De Sanctis, lo Zarlatti, erano tutti trasteverini, o borghigiani, come l’imbanditore delle tavole, il cuoco, e credo anche il pranzo.
Il duca si alzò, dopo che alcuni suoi elettori ebbero parlato, per ringraziare dell’onore che gli avevano fatto rieleggendolo, e biasimò l’indirizzo del Governo, concludendo: «Io certo non riuscirò a condurre con me la maggioranza del Parlamento, ma saprò di rappresentare la maggioranza della Nazione, e ciò mi basterà. Abbiatevi intanto un grazie di cuore».
Dopo che i convitati si alzarono da tavola, il duca invitò i suoi elettori a un pranzo per il giorno dopo della chiusura del Parlamento e a quell’invito accennò con queste parole: «Desidero mi diciate in quel giorno se mi sarò condotto bene o male; nel primo caso mi farete un elogio, nel secondo mi avrò un biasimo meritato».
Ma egli non attese tanto per restituire il pranzo agli elettori e li convitò al Politeama al solito il 20 marzo. I palchi erano pieni di signore e il pranzo ebbe un carattere assolutamente democratico, accresciuto dai discorsi che vi furono pronunziati. Lo spirito frondeur del duca di Sermoneta aveva campo di sfogarsi in mezzo a quell’elemento di aperta opposizione al Governo.
L’azione del deputato del V collegio di Roma alla Camera fu quasi nulla. Durante la discussione sulle Corporazioni religiose, e mentre essa era più viva, il Damiani riproverò alla Giunta di Governo del 1870 di non aver voluto risolvere la questione delle Corporazioni religiose; don Emanuele Ruspoli prese allora la parola per difenderla, assicurando che Vincenzo Tittoni, deputato di destra, aveva subito proposto alla Giunta di estendere a Roma le leggi sulla soppressione degli Ordini religiosi, vigenti nel Regno, «ma la proposta Tittoni non si potè mettere in esecuzione, perchè trovò una dichiarata contrarietà in un illustre uomo politico, che pur ora siede a sinistra». L’allusione non era punto velati, e il duca di Sermoneta avrebbe dovuto alzarsi e rispondere, ma non lo fece.
Non giova credere che nella prima netà del 1873 tutta l’attività di Roma fosse spesa soltanto nelle lotte politiche. L’istruzione e la beneficenza, queste due belle tendenze della vita moderna, questi due alti scopi di ogni popol civile, si proseguivano alacremente qui. Il Sella incominciò con lo stanziare 10,000 lire per i bisogni della biblioteca Alessandrina, cioè della Sapienza; l’assessore conte Guido di Carpegna, che si rese veramente benemerito di Roma, diedesi a propugnare la creazione della scuola professionale sul sistema di quelle di Milano e di Firenze, ove le alunne potessero non solo ricevere una educazione bastevole, ma nella quale esse trovassero mezzo di addestrarsi nei mestieri, destinati a procurar loro un guadagno.
Intanto si fondava in via delle Quattro Fontane la scuola normale, affidandone la direzione a Giannina Milli, che accoppiava al dono naturale della poesia, una bella cultura ed un amore vivissimo per gli studi. Quella scuola fu subito frequentata da 160 alunne divise in tre corsi e vi erano unite scuole preparatorie ed elementari. Alla mancanza di scuole in alcuni rioni, il conte di Carpegna provvedeva come poteva, e intanto si dava cura di epurare anche il corpo degli insegnanti, reclutato in fretta nei momenti di maggiore necessità, allorché trattavasi soprattutto di poter aprire scuole per sottrarre l’insegnamento dalle mani dei clericali.
E il Municipio, prima di prendere le vacanze di primavera, approvava pure il regolamento per il Museo artistico-industriale, istituzione assolutamente moderna e conforme ai bisogni dell’industria nei nuovi tempi.
In gennaio, all’Università, fu solennemente commemorato il quarto centenario di Copernico. Il grande scienziato di Thorn aveva insegnato qui, come in altre università italiane. A Roma vi venne a 27 anni, e il busto, che fu inaugurato il giorno della commemorazione, lo rappresenta appunto in quell’età. I ministri Scialoja, Lanza e Sella vollero, intervenendo alla festa, renderla più solenne. I discorsi furono pronunziati dal rettore Serafini e da Domenico Berti, e la festa riusci veramente degna del grande emulo di Galileo.
Qualche mese più tardi in quella stessa aula s’inaugurava il Museo di agricoltura, che ha dato in seguito così bei risultati.
L’impulso agli studi non veniva soltanto dal Municipio e dal Governo, ma anche dai privati. Roma ebbe per iniziativa di Cesare Correnti il suo «Circolo Filologico», che mise stanza nel Palazzo del Drago in via in Arcione. Ma dopo alcuni anni decadde e non è più potuto risorgere. Si ebbe pure fin d’allora un «Circolo Tecnico» in via della Valle, un «Circolo Giuridico». Anche la «Società Geografica» era già in vita, ma doveva tenere le sedute nell’aula dell’Università per mancanza di locali. Nella seduta appunto del 30 marzo di quell’anno, che era presieduta dal Correnti, fu acclamato presidente perpetuo Cristoforo Negri.
Vi era in quel tempo anche nel campo dell’arte un sensibile risveglio. Molti artisti si preparavano per esporre alla mostra mondiale’ di Vienna e in ogni studio recavansi a vedere i lavori il Principe e la Principessa di Piemonte. Andarono pure nello studio di Giulio Monteverde, il quale aveva terminato il suo Jenner, statua che fu tanto ammirata a Vienna e che ha acquistato una così estesa notorietà per le molte riproduzioni che se ne sono fatte. La Principessa poi visitava anche le esposizioni, assisteva ai concerti, alle rappresentazioni della Società Filodrammatica Romana al «Metastasio», presieduta dal Duca di Marino, e soprattutto entrava nelle scuole ove gli alunni in meno di un semestre erano sensibilmente aumentati. Infatti al 1° gennaio si avevano 4618 frequentatori, e al 1° maggio 7493.
La beneficenza non era punto trascurata dalla Principessa di Piemonte nè dal Re. Ambedue avevano dato un largo obolo alla Società carnevalesca «Pasquino», che aveva tenuto una fiera al Campidoglio, e il loro esempio veniva seguito tanto dai bianchi quanto dai neri. Anche le signore clericali avevano fatto la loro fiera al Palazzo della Cancelleria, nella grande sala dipinta dal Vasari,
IL PALAZZO DELLE BELLE ARTI
Opera dell'architetto PIO PIACENTINI
ove il padre Secchi, per ordine del Vaticano, faceva dotte conferenze astronomiche per dimostrare che i clericali avevano maestri sommi.
La città continuava ad abbellirsi. Il municipio aveva comprato il palazzo Aldobrandini al Pantheon per allargare intorno al monumento e decretava la demolizione delle casupole intorno a quello addossate, che tanto lo deturpavano. I lavori della via Nazionale erano rimasti un poco incagliati per le controversie sullo sbocco della via. Il progetto dell’ingegnere Viviani, che richiedeva grandi espropriazioni, fra le altre anche quella del palazzo Sciarra, incontrava vive opposizioni. Il Fanfulla si fece sostenitore dell’idea di fare sboccare la via Nazionale a piazza Venezia, e vinse.
All’Esquilino la Società Genovese in otto mesi terminava il primo grande caseggiato, che è quello che fa angolo fra la via Principe Umberto e Viminale, e tracciava tutte le vie di quel vasto quartiere, che il municipio aveva decretato dovessero portare il nome di uomini che si fossero segnalati nel periodo del nostro risorgimento nazionale.
La via dei Chiavari era stata pure allargata, si facevano esperimenti di pavimentazione e il municipio faceva togliere tutti paracarri dai lati delle porte per render più facile il passaggio dei pedoni sui marciapiedi; e i lavori attorno alla basilica di Santa Maria Maggiore e in via delle Quattro Fontane si facevano con sollecitudine. Già qualche cosa sorgeva pure alla Porta San Lorenzo, ma gli alloggi, specialmente per il popolo, mancavano ancora, e una società di signori romani, presieduta dal principe Borghese, che già prima del 1870 erasi costituita per provveder case operaie e una ne aveva costruita sullo stradone di San Giovanni, si rimetteva all’opera per non lasciare forse che tutto l’onore di provvedere di alloggi il popolo spettasse ai buzzurri.
In forza di un contratto fra il municipio e la fabbriceria di San Pietro, questa piazza era divenuta proprietà municipale e fu un gran bene, perchè prima era trasandatissima e appena illuminata. Il municipio ne fece restaurare il pavimento e la fornì di candelabri a gaz, come aveva fornito di panchine la passeggiata del Pincio, e cercò con ogni mezzo di dare alla città un aspetto più decente, concludendo un contratto per la nettezza urbana e obbligando i proprietari delle case a illuminare gl’ingressi dall’imbrunire alla mezzanotte.
Anche la Casa Reale faceva costruire scuderie dalla parte del Lavatore del Papa e rifaceva la villa Potenziani fuori di Porta Salara, che poi prese il nome di villa Ada, e nella palazzina in via Venti Settembre preparava un quartiere più adatto per il Re, ove per altro Vittorio Emanuele non abitò mai.
Il quell’inverno 1873 non mancarono a Roma le visite principesche. Venne il principe Arturo d’Inghilterra, gran ballerino di «Sir Roger» e appassionato per le caccie alla volpe. Il principe Umberto ve lo accompagnava spesso, e spesso lo invitava al Quirinale. Il principe Arturo andava in tutte le case romane, e il ministro Paget dava pranzi e ricevimenti in suo onore. Vennero pure il principe Adalberto e la principessa di Baviera, il duca d’Edimburgo, che andò a raggiungere la fidanzata granduchessa Maria Alessandra di Russia, a Sorrento. Anche il granduca Wladmiro fu a Roma e i Principi di Piemonte andarono a Sorrento a visitare l’imperatrice di Russia. Questa nel passar da Roma in marzo per andare sull’ameno golfo di Sorrento, non si era fermata a Roma, ma al ritorno in maggio vi fece una lunga sosta, insieme con la figlia. Abitava alla Legazione di Russia al palazzo Feoli sul Corso, e fu ricevuta dal Re e dai Principi Reali in forma ufficiale. La nostra Corte la colmo di cortesie. L’Imperatrice era ammalata e non facevasi molto vedere, ma la giovane Granduchessa divertivasi di cuore ed era instancabile. L’Imperatrice accettò soltanto una colazione dalla principessa Margherita nel giardino del Quirinale, ma non andò alla serata di gala all’«Apollo» e non doveva andarvi neppure il Re. Quando nel palco di corte erano già i Principi di Piemonte, la Granduchessa e il duca d’Assia-Cassel, Vittorio Emanuele comparve in un palco di proscenio, vestito alla buona, come al solito. L’orchestra svelò il suo incognito, suonando la marcia reale e il pubblico gli fece una ovazione, che durò venti minuti. Il Re non poteva più esimersi dall’andare a far visita alle signore, ma non era vestito in modo da presentarsi. Che fa allora? Chiede al Gadda che gli presti il vestito nero e la cravatta bianca, e siccome nel vestito del prefetto stava a disagio e si vedeva bene che non era fatto a suo dosso, entrando nel palco di Corte, raccontò subito l’aneddoto, e fu il primo a ridere della figura che faceva.
L’Imperatrice che si trovava qui per la festa dello Statuto, non assistè dal palazzo Altoviti allo spettacolo della girandola a Castel Sant’Angelo. Vi andò la granduchessa Maria Alessandra insieme con i Principi Reali; anzi la giovane Granduchessa accendendo un piccolo razzo, che traversò il Tevere, dette il segnale dell’incendio. I Principi Reali condussero l’Imperatrice a fare una escursione ad Albano e negli altri castelli. La Czarina rimase così invaghita di quei luoghi, che cambiò l’itinerario del viaggio e andò a passare alcuni giorni alla villa Chigi all’Ariccia. Da Roma passò fermandosi appena alla stazione, ove fu salutata dalla Famiglia Reale; però aveva inviato al Quirinale la figlia per ringraziare il Re e i Principi delle cortesie usatele.
Questo viaggio non ebbe nessun significato politico, ma servì a stabilire legami di amicizia fra le due Corti.
Durante il soggiorno dell’Imperatrice a Roma, furono scoperte due riunioni dell’Internazionale e ne vennero arrestati i capi, nessuno dei quali era romano. Una delle riunioni era tenuta in via del Governo Vecchio, l’altra al vicolo Bologna in Trastevere. Sequestrando le carte si vide che l’associazione aveva rapporti con tutte le altre simili dell’estero. In Roma aveva 800 affigliati nei diversi rioni. I capi, quando furono arrestati, gridarono: «Viva l’anarchia! Viva la liquidazione sociale!»
In maggio moriva il duca Mario Massimo, uomo colto, stimato, che non aveva negato il suo aiuto alla città dopo il 20 settembre. Gli ultimi tempi della sua vita furono contristati da un clamoroso processo, fra il figlio e Rodolfo Volpicelli, suo grande amico. La vedova, che era una Boncompagni, non volle che il municipio gli rendesse solenni onori. Nonostante gli onori gli sarebbero stati resi dalla Guardia Nazionale, ma i clericali fecero trasportare il cadavere al Campo Verano prima dell’ora stabilita, per evitarli.
Il 31 maggio moriva anche il generale Lipari, romano, comandante della Guardia Nazionale, che aveva combattuto nel 1848 e nel 49, e poi dai Cacciatori delle Alpi era passato nell’esercito regolare, ove aveva raggiunto il grado di colonnello. Egli fu sinceramente rimpianto, ma la morte del Rattazzi avvenuta a Frosinone, e i solenni onori che gli furono resi da Roma, impedirono che della morte del Lipari si parlasse molto.
Il corpo di Urbano Rattazzi giunse a Roma la mattina 8 giugno e fu ricevuto da alcuni membri dell’«Associazione Progressista» e quindi trasportato nel palazzo Santacroce a piazza Branca, ove la famiglia Rattazzi abitava. Là venne imbalsamato. Alla Camera, Pisanelli, Depretis e Crispi, oltre il Presidente, avevano fatto la commemorazione del collega; il Re aveva ordinato che tutti gli ufficiali della sua casa assistessero al trasporto, il principe Umberto reggeva uno dei cordoni del feretro, tutte le truppe erano schierate sul passaggio fino alla stazione, ove il conte Pianciani consegnò il cadavere al sindaco di Alessandria.
Il trasporto fu solenne per il concorso dei ministri, del Parlamento, delle truppe, per la presenza del Principe Ereditario, ma non commovente. Il Rattazzi non era un uomo che riscotesse vive simpatie, e sulla opera politica di lui i pareri erano molto divisi. Anche ora, dopo più di venti anni, la storia non ha detto su di lui la sua ultima parola, ma certo non è rimasto in essa come una di quelle figure dinanzi alle quali tutti s’inchinano riverenti.
In mezzo ai ricevimenti principeschi, alle esequie di uomini illustri, giunse a Roma quasi inosservato un personaggio che col tempo doveva legare il suo nome con quello della storia del nostro paese. Alludo al signor di Keudell, ministro di Germania, amico del principe di Bismarck, partecipe delle sue idee e scelto a bella posta da lui per tradurre in alleanza l’amicizia che univa i due popoli e le due dinastie. Il signor di Keudell è stato lungamente a Roma e tutti hanno conosciuto quell’uomo dalle apparenze semplici e modeste, dai modi cortesi, che alternava le cure del suo grave ufficio con i passatempi geniali. La musica era il suo diletto preferito e ne dette subito prova giungendo a Roma con l’assistere al concerto della Filarmonica.
Il nuovo ministro di Germania era amico dell’on. Marco Minghetti, che salì al Governo poco dopo l’arrivo del signor Keudell ed essi, coadiuvati dal ministro d’Austria-Ungheria, prepararono il viaggio a Vienna e a Berlino del Re, che fu il più notevole avvenimento della seconda metà del 1873.
Cessate a Roma le lotte politiche dopo la chiusura della Camera e la costituzione del nuovo ministero, incominciarono quelle municipali per le elezioni amministrative. I clericali a quelle elezioni non parteciparono e nella nuova amministrazione, tolto il divieto di eleggere i non romani per parte dei diversi circoli, entrarono quattro forestieri, cioè Cairoli, Correnti, Astengo e Finali.
La lotta era stata molto viva, le divisioni si erano operate fra i vari gruppi del partito liberale; si vedeva che non trovandosi di fronte i clericali, gli altri lasciavansi vincere da una inerzia. Dopo queste elezioni, e mentre il Governo aveva già nominato la Giunta liquidatrice dell’Asse Ecclesiastico e si preparava ad applicare la legge di soppressione delle corporazioni religiose, dal Vaticano partì il fulmine della scomunica. La pronunziò Pio IX in occasione del Concistoro del 26 luglio. Eccone un brano:
«Crediamo astenerci, venerabili fratelli, dal ripetere quello che a distogliere dall’iniquo attentato i reggitori della cosa pubblica, tante volte abbiamo diffusamente esposto intorno all’empietà, alla malizia, al fine e ai danni gravissimi di una tal legge; se non che dal dovere di rivendicare alla Chiesa i suoi diritti, dalla brama di prevenire gl’incauti e dalla carità verso gli stessi colpevoli siamo costretti a dichiarare altamente a tutti coloro che la predetta iniquissima legge non temettero di proporre, di approvare, di sancire, ed insieme ai mandanti, ai fautori, ai consultori, agli aderenti, agli esecutori ed ai compratori di beni ecclesiastici, non solo essere irrito, casso e nullo quanto in ciò possono aver fatto o sieno per fare, ma venir essi, senza eccezione, compresi nella scomunica maggiore e nelle altre censure e pene ecclesiastiche inflitte dai Sacri Canoni, dalle Costuzioni Apostoliche e dai Concilii generali, massime dal Tridentino, andare incontro alla più rigorosa severità delle divine vendette e trovarsi in pericolo manifesto di eterna dannazione».
La Giunta liquidatrice dell’Asse Ecclesiastico aveva posto sede in un palazzo in piazza Rondanini e subito fece rimettere ai superiori di diversi conventi i moduli per le denunzie dei beni, che furono accettati quasi da tutti senza incidenti. L’ordine superiore peraltro era che protestassero nel rimettere quei moduli.
Per tutta l’estate Roma godè di una certa calma; non dimostrazioni ostili, nulla che turbasse la vita pacifica dei pochi rimasti. Il conte Pianciani era stato eletto sindaco, don Emanuele Ruspoli era generale della Guardia Nazionale, il consiglio municipale si adunava ogni tanto, il corpo diplomatico stava in villeggiatura, la Corte era assente, i ministri andavano e venivano.
Roma si ridestò nel settembre all’annunzio della partenza di Vittorio Emanuele per Vienna. Si vuole che l’Imperatore d’Austria lo avesse invitato molto tempo prima e che il Re avesse risposto che, se le faccende dello Stato glielo avessero concesso, in settembre sarebbe andato a Vienna. Di Berlino non si parlava ancora, ma quando l’Imperatore Guglielmo seppe che il Re andava a Vienna, visitando la principessa Margherita, che faceva una cura a Schwalbach, le disse quanto gli sarebbe stata gradita una visita di Vittorio Emanuele.
Secondo questa versione, la vera intermediaria fra Berlino e Roma sarebbe stata la Principessa di Piemonte. Un’altra versione ne attribuisce tutto il merito al conte di Lannay, al ministro Keudell e al Minghetti. Forse è più giusto dividere il merito fra la gentile mediatrice e gli uomini di Stato.
Il Re partì da Torino, non da Roma, il 16 settembre, e il 17 era a Vienna. Già Raffaele de Cesare, che era là come commissario italiano all’esposizione, aveva detto in una corrispondenza alla Libertà, con qual desiderio era atteso e con quanta simpatia sarebbe stato accolto. E difatti l’accoglienza su veramente entusiastica. Il Re fece un vero viaggio trionfale attraverso l’Austria e la Germania, durante il quale i ministri d’Italia Minghetti e Visconti-Venosta, che accompagnavano il Sovrano, ebbero agio di parlare di faccende politiche con i cancellieri dei due imperi.
Roma accompagnava il Re nel suo viaggio con viva simpatia e gli operai romani, che erano a Vienna, gli espressero la loro devozione non mai scevra di entusiasmo.
Monsignor Falcinelli, che era nunzio a Vienna, e che, come decano del corpo diplomatico, avrebbe dovuto complimentare il Re d’Italia, si ammalò per ordine superiore e non assistè alle feste.
In Vaticano erano furenti per il viaggio di Vittorio Emanuele e per le accoglienze che gli si facevano. Tutta la loro ira si sfogava sul conte Andrassy, cancelliere, che accusavano di esser rimasto cospiratore come ai tempi in cui l’Ungheria era in aperta ribellione all’Austria, e ne preconizzavano la caduta, dandogli già per successore il Blume. Ma neppur Francesco Giuseppe era risparmiato per avere con cortese insistenza ripetutamente invitato il Re. Monsignor Nardi neanche fu accolto bene, quando assicurò, tornando dalla sua missione a Vienna, che il viaggio non si poteva impedire.
Il 20 settembre il Re era in viaggio, ma Roma volle commemorare con la solita pompa la data memorabile e siccome dalla Francia giungevano sempre minacce di restaurazione del potere temporale con i soldati francesi, il popolo ideò una farsa graziosissima.
Roma fu destata all’alba dagli spari di gioia dei cittadini e appena le vie si cominciarono a popolare tutti si fermavano a guardare le cantonate delle strade e le mostre dei negozi, sulle quali vi era tutto un esercito francese: dragoni, cacciatori, zuavi, turcos, artiglieri e marinari....di carta. I rioni che furono letteralmente invasi da questi campioni del Papato erano Borgo, Trastevere, Regola e Parione.
Sulla piazza di San Pietro gli zuavi erano alti quanto un uomo; in piazza Campo di Fiori gli zuavi avevano sul petto il Sacro Cuore. Sotto alcuni soldati francesi di carta si leggeva:
Ora che siamo |
Stupore non rechi | |
Gioisci, Infallibile, |
Vi fu poi in quel giorno la commemorazione alla breccia delle Società Operaie, turbata un poco del discorso del Parboni, che criticava con frasi violente il viaggio del Re, ma la dimostrazione vera la fece la cittadinanza ornando Roma di bandiere, e illuminandola. Il Trastevere pareva una città incantata e al suono degli inni patriottici si univano le acclamazioni al Re e a Roma Capitale.
Nelle sere susseguenti le dimostrazioni si formavano in piazza Colonna e una sera andarono anche al palazzo Caffarelli e i dimostranti mandarono una commissione all’incaricato di affari di Germania, principe di Linar, pregandolo di farsi interprete presso il suo Governo dei sentimenti di gratitudine dei romani per la festosa accoglienza fatta al loro Re.
La presa di possesso dei conventi incominciò con una visita a quelli in cui esistevano biblioteche. Alla Minerva i commissari furono ammessi, all’Angelica, tenuta dagli Agostiniani, vennero respinti.
Al Collegio Romano i commissari accompagnati dal notaro Bosi e dal consigliere comunale Alibrandi, vennero ricevuti dal rettore, padre Cardella, dai rettori di due collegi stranieri, e dal canonico Petacci, segretario del Cardinal Vicario. Il rettore lesse una protesta e dichiarò che si sottometteva soltanto alla forza. Eguale protesta fecero gli altri rettori e il canonico Petacci, a nome del Papa. I commissari, dopo ricevute quelle proteste, chiamarono i padri gesuiti, in numero di 70, e fecero loro legale consegna del libretto per la pensione. La biblioteca fu data in custodia al Preside del Liceo Ennio Quirino Visconti.
Al Gesù andò come consigliere comunale il principe Odescalchi, come notaro il cav. Bobbio. Furono ricevuti dal padre Rossi, rettore, il quale presentò pure una protesta. Anche lì furon distribuiti ai padri, che erano 54, i libretti per la pensione.
Il comm. Placidi e il notaio Venuti andarono a prender possesso del convento dei Francescani all’Aracoeli, ove furono cortesemente ricevuti dal generale, padre Bernardino da Caprarola, che protestò soltanto verbalmente, e lo stesso fece il padre Novaro, generale dei Chierici Minori.
Il padre Secchi pure protestò per conservare intatti i diritti della Santa Sede sull’Osservatorio Romano, e questo fu lasciato a lui in consegna, come le biblioteche furono, dopo fatto l’inventario, lasciate ai padri distributori, i quali vi rimasero quasi una diecina d’anni.
Sarebbe troppo lungo l’elenco di tutti i conventi di cui la Giunta liquidatrice prese possesso, e lo tralascio. Subito dopo quella formalità incominciarono le vendite all’asta degli stabili e trovarono acquirenti, nonostante che anch’essi fossero compresi nella scomunica. L’attuazione della legge non era difficile per il momento, ma i rancori che generava, dovevano durare lungamente e durano ancora.
Vittorio Emanuele nell’inaugurare in novembre la nuova sessione parlamentare rese conto del suo viaggio, accennò alla Camera i lavori da compiere, specialmente quello della riforma militare, e terminò con una frase felice alludendo alla fiducia che aveva nella nazione e questa nel suo Re.
Scongiurato il pericolo di una invasione colerica, cessate le agitazioni degli internazionali e dei clericali, che lavoravano molto di nascosto, specialmente al palazzo Altieri, che era un vero covo di reazione, ma non davano tanto noia come in passato, migliorate immensamente le condizioni igieniche di Roma, dato maggiore incremento alle scuole con la creazione di altre classi elementari, e di una Scuola femminile superiore alla Palombella, sotto la direzione di Erminia Fuả Fusinato, provveduto alle cattedre vacanti all’Università con la nomina del Cremona, del Boll, dello Strüver e di altri professori, l’anno terminava in mezzo a una calma benefica e le feste natalizie spingevano il Re a fare nuove largizioni ai poveri, e la Principessa Margherita ad occuparsi della fondazione dell’istituto per i Ciechi, quello che è alle Terme Diocleziane, e che porta il nome di lei.