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Giova notare che la proposta di reintegrazione era partita dal presidente, e vi si erano associati il Minghetti e il Lanza; ma anche il Crispi, dai banchi dell’opposizione, ove sedeva allora, dichiarò che si associava a nome proprio e dei suoi amici, che erano stati contrari all’accettazione della corona spagnuola. Essi applaudivano al ritorno di un Principe al quale postosi il difficile dilemma se dovesse regnare o abdicare, aveva scelto la migliore delle soluzioni, rinunziando a un trono sul quale non era possibile restare se non con la violenza.

Il conte Pianciani, interprete del sentimento dei Romani, andò a Torino a complimentare il duca d’Aosta. Tornando, comunicò al Consiglio le cortesie che aveva ricevute dalla città dove si era iniziato il movimento nazionale, e che erano dirette a quella ore siffatto movimento erasi compiuto.

Ho accennato in principio del capitolo alle dimissioni presentate dal duca di Sermoneta alla Camera, dimissioni che furono respinte e nelle quali il deputato del V collegio di Roma volle insistere. Il duca era malcontento del Governo, malcontento dei suoi colleghi in deputazione, malcontento un po’ di tutto, perché aveva l’animo poco proclive alla serenità, e il sarcasmo e la satira erano in lui consueti. Voleva avere la soddisfazione d’essere rieletto e fu, senza competitori. I suoi elettori di Borgo e di Trastevere, per festeggiare quella elezione, gli offrirono un banchetto al «Politeama Romano». I convenuti, in numero di 180, fra i quali il professore Oreste Raggi, il dottore De Vecchi, il dottore Alessandro Grisanti, il De Sanctis, lo Zarlatti, erano tutti trasteverini, o borghigiani, come l’imbanditore delle tavole, il cuoco, e credo anche il pranzo.

Il duca si alzò, dopo che alcuni suoi elettori ebbero parlato, per ringraziare dell’onore che gli avevano fatto rieleggendolo, e biasimò l’indirizzo del Governo, concludendo: «Io certo non riuscirò a condurre con me la maggioranza del Parlamento, ma saprò di rappresentare la maggioranza della Nazione, e ciò mi basterà. Abbiatevi intanto un grazie di cuore».

Dopo che i convitati si alzarono da tavola, il duca invitò i suoi elettori a un pranzo per il giorno dopo della chiusura del Parlamento e a quell’invito accennò con queste parole: «Desidero mi diciate in quel giorno se mi sarò condotto bene o male; nel primo caso mi farete un elogio, nel secondo mi avrò un biasimo meritato».

Ma egli non attese tanto per restituire il pranzo agli elettori e li convitò al Politeama al solito il 20 marzo. I palchi erano pieni di signore e il pranzo ebbe un carattere assolutamente democratico, accresciuto dai discorsi che vi furono pronunziati. Lo spirito frondeur del duca di Sermoneta aveva campo di sfogarsi in mezzo a quell’elemento di aperta opposizione al Governo.

L’azione del deputato del V collegio di Roma alla Camera fu quasi nulla. Durante la discussione sulle Corporazioni religiose, e mentre essa era più viva, il Damiani riproverò alla Giunta di Governo del 1870 di non aver voluto risolvere la questione delle Corporazioni religiose; don Emanuele Ruspoli prese allora la parola per difenderla, assicurando che Vincenzo Tittoni, deputato di destra, aveva subito proposto alla Giunta di estendere a Roma le leggi sulla soppressione degli Ordini religiosi, vigenti nel Regno, «ma la proposta Tittoni non si potè mettere in esecuzione, perchè trovò una dichiarata contrarietà in un illustre uomo politico, che pur ora siede a sinistra». L’allusione non era punto velati, e il duca di Sermoneta avrebbe dovuto alzarsi e rispondere, ma non lo fece.

Non giova credere che nella prima netà del 1873 tutta l’attività di Roma fosse spesa soltanto nelle lotte politiche. L’istruzione e la beneficenza, queste due belle tendenze della vita moderna, questi due alti scopi di ogni popol civile, si proseguivano alacremente qui. Il Sella inco-