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Roma si ridestò nel settembre all’annunzio della partenza di Vittorio Emanuele per Vienna. Si vuole che l’Imperatore d’Austria lo avesse invitato molto tempo prima e che il Re avesse risposto che, se le faccende dello Stato glielo avessero concesso, in settembre sarebbe andato a Vienna. Di Berlino non si parlava ancora, ma quando l’Imperatore Guglielmo seppe che il Re andava a Vienna, visitando la principessa Margherita, che faceva una cura a Schwalbach, le disse quanto gli sarebbe stata gradita una visita di Vittorio Emanuele.

Secondo questa versione, la vera intermediaria fra Berlino e Roma sarebbe stata la Principessa di Piemonte. Un’altra versione ne attribuisce tutto il merito al conte di Lannay, al ministro Keudell e al Minghetti. Forse è più giusto dividere il merito fra la gentile mediatrice e gli uomini di Stato.

Il Re partì da Torino, non da Roma, il 16 settembre, e il 17 era a Vienna. Già Raffaele de Cesare, che era là come commissario italiano all’esposizione, aveva detto in una corrispondenza alla Libertà, con qual desiderio era atteso e con quanta simpatia sarebbe stato accolto. E difatti l’accoglienza su veramente entusiastica. Il Re fece un vero viaggio trionfale attraverso l’Austria e la Germania, durante il quale i ministri d’Italia Minghetti e Visconti-Venosta, che accompagnavano il Sovrano, ebbero agio di parlare di faccende politiche con i cancellieri dei due imperi.

Roma accompagnava il Re nel suo viaggio con viva simpatia e gli operai romani, che erano a Vienna, gli espressero la loro devozione non mai scevra di entusiasmo.

Monsignor Falcinelli, che era nunzio a Vienna, e che, come decano del corpo diplomatico, avrebbe dovuto complimentare il Re d’Italia, si ammalò per ordine superiore e non assistè alle feste.

In Vaticano erano furenti per il viaggio di Vittorio Emanuele e per le accoglienze che gli si facevano. Tutta la loro ira si sfogava sul conte Andrassy, cancelliere, che accusavano di esser rimasto cospiratore come ai tempi in cui l’Ungheria era in aperta ribellione all’Austria, e ne preconizzavano la caduta, dandogli già per successore il Blume. Ma neppur Francesco Giuseppe era risparmiato per avere con cortese insistenza ripetutamente invitato il Re. Monsignor Nardi neanche fu accolto bene, quando assicurò, tornando dalla sua missione a Vienna, che il viaggio non si poteva impedire.

Il 20 settembre il Re era in viaggio, ma Roma volle commemorare con la solita pompa la data memorabile e siccome dalla Francia giungevano sempre minacce di restaurazione del potere temporale con i soldati francesi, il popolo ideò una farsa graziosissima.

Roma fu destata all’alba dagli spari di gioia dei cittadini e appena le vie si cominciarono a popolare tutti si fermavano a guardare le cantonate delle strade e le mostre dei negozi, sulle quali vi era tutto un esercito francese: dragoni, cacciatori, zuavi, turcos, artiglieri e marinari....di carta. I rioni che furono letteralmente invasi da questi campioni del Papato erano Borgo, Trastevere, Regola e Parione.

Sulla piazza di San Pietro gli zuavi erano alti quanto un uomo; in piazza Campo di Fiori gli zuavi avevano sul petto il Sacro Cuore. Sotto alcuni soldati francesi di carta si leggeva:

Ora che siamo
Ai venti del mese
In Roma vediamo
L'armata Francese.

Stupore non rechi
Che venne in pittura
Ché sempre pei ciechi
È eguale frittura.

Gioisci, Infallibile,
Che sei ben guardato:
I preti di Francia
Ti rendon lo Stato.