Roma italiana, 1870-1895/Il 1874
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Il 1874.
L’anno nuovo incominciò con i soliti ricevimenti e con i soliti spiacevoli incidenti. Era morto il colonnello Ernesto de la Haye, addetto militare della repubblica francese presso il Re d’Italia. Il Comandante la divisione di Roma informò il signor de Grouchy, cui era affidata la Legazione di Francia, che il Governo intendeva rendere al defunto ufficiale gli onori militari, e che il Principe Reale avrebbe preso parte al funerale. I preti di S. Luigi dei Francesi, chiesa nella quale il cadavere doveva essere associato, fanno sapere per mezzo del signor de Courcelles, che non permettono il funerale. Il Ministero degli affari esteri, che aveva ricevuto dal comando della divisione la comunicazione del rifiuto, credè opportuno d’interrogare direttamente il signor de Grouchy, il quale rispose che non era vero, ma che i funerali sarebbero stati celebrati a San Marcello. La Curia fu meno intransigente dei preti di San Luigi dei Francesi, ed accordò il permesso. Ed a San Marcello si videro accanto il Principe Reale, il signor Fournier, che era sempre a Roma, benchè non avesse più carica ufficiale, e il signor de Courcelles, ambasciatore presso il Vaticano. Ma l’incidente fece rumore, perchè si capì sempre più che l’ambasciatore aveva più potere che il ministro, o chi ne faceva le veci, e che i superiori di San Luigi de Francesi accampavano una specie di diritto di extra-territorialità, che è concesso soltanto alla residenza degli inviati di nazioni straniere.
Forse quest’incidente non avrebbe tanto appassionato gli animi, se non si fosse saputo che il signor Fournier aveva dovuto ritirarsi per la guerra che gli era fatta dal Vaticano, dopo che non avea permesso che i marinari dell’«Orènoque» andassero dal Papa senza andare prima dal Re, e che signor de Courcelles, in quei giorni appunto, avevali fatti venire vestiti senza divisa a Roma, per presentare a Pio IX gli omaggi del capodanno.
La conferma di questi sentimenti di ostilità si vide nel fatto che i funerali del colonnello de la Haye si fecero in altro giorno a San Luigi dei Francesi, e vi assisterono molte dame d’oltre alpe, facendo sfoggio di rose gialle.
Mi fermo su questi particolari per mostrare che il dissidio che si è manifestato dopo fra la nazione francese e l’Italia, più che dai grandi fatti che si dimenticherebbero agevolmente, qualora l’interesse lo richiedesse, è stato suscitato e poi tenuto vivo da questi attriti che creano le inimicizie, come le attenzioni e i piccoli doni creano e mantengono le amicizie.
E un piccolo dono fecero le alunne della scuola municipale di Campo Marzio alla Principessa di Piemonte per l’Istituto per i Ciechi che ella si studiava di fondare. Una deputazione di bambine le portò al Quirinale 200 lire, e questa tenue offerta servi a rafforzare i legami di benevolenza, che la Principessa nutriva verso le scuole. La fondazione dell’istituto era il pensiero costante di Margherita di Savoia. Ella ne presiedeva di sovente il Comitato, che adunavasi al Quirinale, ed al quale assisteva il sindaco, conte Pianciani. Con una recita di Adelaide Ristori, che fruttò 5000 lire a beneficio dell’istituto, s’ inaugurò appunto il teatro Rossini, i cui lavori erano stati diretti dall’ingegner Vespignani. Il Re dette 8000 lire per il nuovo ospizio, il Comune 10000, i Principi Reali sooo, la Banca Nazionale 2000; molto le sottoscrizioni pubbliche e le private. Era una vera gara di carità per raggiunger la somma occorrente, ma prima che l’ospizio potesse sorgere, passò del tempo, perchè l’inverno del 1874 fu tutt’altro che florido per Roma.
La mancanza degli alloggi per gli operai si faceva sensibilmente sentire, dal momento che si era messo mano a tutti i lavori e migliaia di braccianti, specialmente scavatori, manuali e muratori, erano venuti a Roma. Sulle gradinate delle chiese, sotto i portici, perfino sotto il colonnato del palazzo Massimo si vedevano dormire quegli infelici, che non avevano altro ricovero. Il caro dei viveri, dopo l’applicazione del dazio consumo per parte del municipio, e per la scarsezza del raccolto, era divenuto intollerabile. Un chilogramma di pane si pagava 62 centesimi, prezzo enorme davvero; la carne avea raggiunto prezzi favolosi, e il vino era divenuto oggetto di lusso.
Ai primi di marzo, alcuni cittadini pubblicarono un manifesto invitando a una riunione allo Sferisterio per discutere intorno alla istituzione dei magazzini cooperativi, ai forni, alle cucine economiche, alla istituzione dell’asta pubblica per i generi alimentari, e soprattutto per la costruzione dei mercati. Il questore, benché il manifesto del Comizio fosse redatto in termini veramente miti, ne proibì l’affissione, forse perché fra i firmatari figuravano nomi di noti agitatori. Il Comizio si tenne lo stesso e vi parteciparono circa 500 persone. I discorsi che furono pronunziati non giova ripeterli. In quel comizio vediamo discutere insieme Giuseppe Luciani e Pietro Sbarbaro, uno sul terreno pratico, l’altro su quello scientifico. L’ordine del giorno Luciani fu approvato. Esso chiedeva quanto era annunziato nel manifesto, più alcuni conventi per istituirvi forni e cucine economiche, che dovevano fornire il desinare agli operai per 7 soldi. Terminava esprimendo il voto che le somme necessarie a queste istituzioni fossero trovate nel bilancio comunale, e specialmente nelle somme iscritte in quello per iscopo di mero lusso, quali i restauri e la dote per l’« Apollo », le feste e la pubblicità degli atti municipali, e emetteva pure il voto che fossero tolti gl’indugi alla costruzione delle case operaie e ai lavori del Tevere. Le cucine economiche e i forni furono istituiti poco dopo; i lavori del Tevere andavano per le lunghe, perché il Consiglio comunale, non contento del concorso governativo di sei milioni, ne chiese dieci, e ottenutili non potè subito presentare un progetto particolareggiato.
Il malcontento era vivo contro il Consiglio e specialmente contro il Sindaco, e gli si chiedevano più fatti e meno discorsi. Questo malcontento crescente, staccava sempre più gli elettori dalla parte moderata, dai consiglieri, e anche dai deputati di Roma, ma di ciò vedremo quando si tratterà delle elezioni.
Intanto il Governo di Destra, presieduto dall’on. Minghetti soffriva una sconfitta nel rigetto del progetto di legge per l’istruzione obbligatoria. Il Lioy lo combattè vivamente, sostenendo che l’obbligo della istruzione era contrario alla libertà individuale e che non si avevano nè scuole, nè maestri. Anche il De Sanctis si era schierato fra le file degli oppositori. Pareva che il Correnti, relatore del progetto di legge, si fosse peraltro assicurato un voto favorevole, quando nella seduta del 5 febbraio resultò una votazione segreta contraria. Lo Scialoja, ministro della pubblica istruzione, si dimise e l’interim del ministero fu affidato al conte Cantelli, ministro dell’Interno.
L’opera dello Scialoja, nel tempo che era stato al governo, si era estrinsecata in utili provvedimenti, specialmente per Roma. Egli aveva dato impulso alla scuola di applicazione per gl’ingegneri e le aveva accordato il convento di San Pietro in Vincoli, ov’è tuttora; aveva provveduto all’Università, aveva riordinato l’Accademia di Santa Cecilia e quella di San Luca, e sotto la sua amministrazione gli scavi del Colosseo erano stati spinti alacremente, tanto che si era restituito alla luce il podio imperiale e il bacino dell’anfiteatro, e si erano tolte tutte le cappellette che alteravano le linee del grandioso monumento di Flavio. Il Fea, al principio del secolo, avea incominciato quei lavori, ma perseguitato dal potente Bianconi e dal Governo pontificio, dovette rimettere a sue spese la terra al posto e distruggere così il lavoro fatto.
Questi scavi del Colosseo dettero luogo a nuovi attriti col Vaticano e scandalizzarono i fedeli. Mentre si toglievano i tabernacoli della Via Crucis, il pulpito e la grande croce, che era nel centro del monumento, il senatore Rosa scrisse al cardinal Guidi, protettore della «Associazione degli Amanti di Gesù e Maria», dicendogli che lo pregava di ritirare i tabernacoli che vi erano stati posti nel 1749 da Benedetto IX. Il Cardinale rispose che avrebbe informato Sua Santità. La lettera del Papa non si fece aspettare. Ingiungeva al Cardinale di protestare e non tollerare che i tabernacoli fossero tolti, altro che come atto di forza maggiore. Contemporaneamente si facevano tridui a Sant’Andrea della Valle contro la profanazione del Colosseo, e non mancò neppure un pellegrinaggio di fedeli, guidati da un vescovo, con dimostrazione di lacrime e di baci alla terra, bagnata in altri tempi dal sangue dei martiri cristiani. Era doloroso, ma inevitabile che le esigenze della vita moderna urtassero il sentimento dei devoti. Roma, divenendo città italiana, cessava di essere un luogo di pio pellegrinaggio per i credenti, i quali non potevano ammettere che si volesse restituire ai monumenti il loro carattere primitivo.
Per capire che effetto dovesse produrre, non dirò ai Romani, indifferenti per atavismo a tutti gli eventi che sono passati da secoli e secoli sotto i loro occhi, ma ai cattolici stranieri, che mettono tanto ardore nella loro fede, la vista del Colosseo spoglio della Via Crucis, basta riprodurre un brano scritto da Luigi Veuillot nel suo Parfum de Rome. Eccolo: «Alla croce del Colosseo sono appesi tutti i nostri titoli di nobiltà; essa è il simbolo della nostra salvezza, il monumento del nostro onore. Siccome era per affrancare il genere umano che là si combatteva, Cristo vi chiamò da ogni parte i suoi eroi. Folla santa, di ogni età, di ogni condizione, di ogni paese! Qual cristiano non può dire di aver là un antenato? Quando mi prostro su quella terra, sento fremere il mio proprio sangue».
Questi i sentimenti dei cattolici ultramontani, feriti continuamente dalla applicazione delle leggi, e dai lavori e dalle manifestazioni della nuova vita italiana. Anche l’applicazione della legge Casati del 1859 alle provincie nelle quali non era stata estesa, ordinata dal ministro Cantelli, come reggente il ministero della pubblica istruzione, urtò il sentimento dei clericali italiani, che mal tolleravano di vedersi sfuggir di mano con le scuole gratuite e obbligatorie, la direzione dell’insegnamento. L’altro progetto di legge sull’obbligo della precedenza del matrimonio civile, presentato dal ministro di grazia e giustizia Vigliani, che è inutile dire che non fu approvato, provocò una rispettosa lettera collettiva dei vescovi Lombardi al Re, alla quale S. M. non rispose.
Una causa assai brutta si svolse nel mese di marzo alla pretura urbana di Firenze, per l’abuso di libretti ferroviari concessi ai deputati. Gli accusati erano Achille Montignani, giornalista, e i deputati on. Corrado e on. Emanuele Ruspoli. Il Montignani viaggiava con gli scontrini di questi due deputati, e scoperto, asserì di averli ricevuti in compenso di servigi elettorali. I due deputati sostenevano di averli perduti e furono assolti, ma il pretore pronunziò una sentenza che non poteva contentarli. Ne nacque un finimondo, nientemeno che si chiedeva di processare il pretore di Firenze per la sentenza. Ruspoli si dimette da generale della Guardia Nazionale e da deputato; Corrado ne segue l’esempio. La Camera si occupò di quella faccenda e il Pissavini attaccò la magistratura, che trovò nel Vigliani un valido difensore.
In tutta Italia si voleva festeggiare solennemente il venticinquesimo anno dell’assunzione al trono di Vittorio Emanuele, che ricorreva il 23 marzo, data infausta della battaglia di Novara. La prima proposta parti da Firenze, ove il Re aveva tanti devoti ed entusiasti ammiratori delle sue grandi virtù. In un momento fu accolta da tutti i monarchici, e il Senato prima, e la Camera dopo votarono un caldo indirizzo di devozione e di gratitudine. Quest’ultimo fu redatto dal Massari.
Il Governo aveva stabilito di lasciare ai Comuni l’iniziativa della testa, che però esso vedeva con vera soddisfazione. I vescovi domandarono istruzioni al Papa sulla via da seguire. Fu loro risposto che il clero poteva associarsi alla festa in Piemonte e in Liguria perché in quegli Stati Vittorio Emanuele era re legittimo; lo stesso poteva fare in Lombardia e nella Venezia, poiché paesi di conquista. Là, e nei primi erano permessi i Te Deum di ringraziamento; nelle altre provincie si doveva tollerarli; a Roma nulla. Queste le istruzioni del Vaticano, che furono seguite a puntino.
La dimostrazione di affetto al Re riuscì imponente. Da ogni Comune vennero deputazioni e furono accolte degnamente dal Municipio di Roma. Il sindaco Pianciani era gravemente ammalato e l’assessore Galletti dovè farne le veci. Il Municipio doveva recarsi al Quirinale con i carrozzoni di gala, seguiti da trentacinque carrozze conducenti i sindaci d’Italia, ma per i carrozzoni mancavano i cavalli. Nessun animale, per quanto robusto, poteva tirarli. A tempo del Papa i cavalli erano forniti, nelle solenni occorrenze, dalle scuderie vaticane. Si rimediò alla meglio con cavalli dei trasporti merci.
Il sindaco aveva emanato il giorno prima il seguente proclama:
- «Romani!
«Il giorno di domani segna il primo giubileo dell’Unità Italiana.
«Or sono venticinque anni, l’Italia era nel lutto della sconfitta, divisa nell’oppressione, stretta da catene ribadite da ferro straniero.
«Ansiosa essa affiggeva lo sguardo sul giovane Principe, che osava raccoglierne il vessillo, e forte del suo valore, della sua fede nel diritto e nella libertà, della volontà nazionale, inalzarlo di fronte al vincitore d’allora a sfida per l’avvenire.
«E la sfida fu vinta: domani Vittorio Emanuele, Re degli Italiani, riceverà in Roma gli attestati della riconoscenza, che lega a lui ogni parte d’Italia.
- «Concittadini!
«Troppo conosco il generoso vostro sentire per permettermi parole e spiegarvi l’importanza di questo giorno.
«Roma Capitale deve più ancora d’ogni altra città far conoscere quali siano i sentimenti nazionali di devozione alla patria, di riconoscenza al Re».
Roma si era empita di gente venuta da ogni parte d’Italia per fare omaggio al Re.
Vittorio Emanuele, la vigilia della festa, ricevè il corpo diplomatico, guidato dal signor Marsh, ministro degli Stati Uniti e decano del corpo. Ogni capo di missione gli presento, insieme con gli augurii, una lettera autografa del proprio Sovrano. Quelle degli Imperatori di Germania, di Russia, d’Austria erano affettuosissime.
Il ricevimento durò quasi due ore, e vi assisteva anche il marchese di Noailles, nuovo ministro di Francia, che era venuto a Roma con una missione pacificatrice.
Alle 8 del 2; tutta la Guardia Nazionale era sotto le armi, numerosissima, e faceva ala dalla piazza SS. Apostoli al Quirinale. Sulla porta del Palazzo stava schierato lo squadrone a cavallo.
Le carrozze delle deputazioni erano così numerose, che in breve riempirono il cortile della Reggia e una parte della piazza già affollata dal popolo.
Nello stesso tempo sulla piazza del Campidoglio si ordinava il corteo del Municipio. Insieme con l’assessore Galletti, che faceva le veci del sindaco, erano tutti gli assessori, tutti i consiglieri, e i commissari dei rioni preceduti dalle bandiere. Apriva la marcia la banda e due compagnie di vigili in alta tenuta. Seguivano le due carrozze di gran gala del municipio, scortate dai fedeli a piedi nel loro pittoresco costume. In quelle due carrozze vi erano gli otto assessori e dietro venivano altre carrozze col Consiglio. La musica delle guardie municipali precedeva le bandiere dei 14 rioni, scortate da due compagnie di guardie. Altre guardie scortavano i commissari dei rioni. Il corteggio era chiuso da un drappello di guardie rurali a cavallo.
Il Re era nella sala del trono; vestiva l’uniforme di generale ed era circondato dalla sua Casa civile e da quella militare, e dai ministri. Le deputazioni incominciarono ad essere introdotte alle 10 dai cerimonieri di Corte. Entravano dalla sala da pranzo e uscivano dalla sala degli Svizzeri, ove erano schierati i corazzieri.
Erano prima introdotti i Collari dell’Annunziata e quindi i rappresentanti dell’esercito e dell’armata guidati dal decano, generale conte Enrico Della Rocca, già paggio e scudiere di Carlo Alberto, poi capo di stato maggiore di Vittorio Emanuele a Novara, e primo aiutante di campo. Il fedele soldato leggeva il seguente indirizzo:
- «Sire!
«Se l’anzianità negli anni e talvolta ingrata, è pur talvolta venturosa: ed oggi è per me venturosissima, poichè dopo avere avuto la fortuna di assistere ai natali di V. M., e dopo avervi seguito sempre su tutti i campi delle patrie battaglie, ove vi siete acquistato il nome sopra tutti invidiabile di valorosissimo Primo Soldato dell’indipendenza italiana, mi è dato, insieme ai primi capi militari, di salutarvi, e complimentarvi a nome dell’esercito e dell’armata per cinque lustri compiuti di regno. E furono 2; anni di fatti così meravigliosi e così propizi alla Nazione, che non trovano riscontro nelle storie antiche e moderne.
- «Sire!
«In questo fausto giorno, che di unanime sentimento l’Italia ha proclamato di festa nazionale solennissima, l’armata e l’esercito, per voce nostra, vi offrono le espressioni della loro devozione a tutta prova, del loro affetto illimitato, e i loro voti per la vostra felicità, ed augurano a sè e all’Italia di potere, dopo altri 25 anni, rinnovare le stesse espressioni, i medesimi voti».
A questo indirizzo il Re rispondeva:
«In un giorno di gioia niente mi è più gradito che di trovarmi con i rappresentanti dell’esercito e della marina, in mezzo ai quali crebbi nella mia giovinezza e con i quali ebbi sempre comuni le speranze e i pericoli; con l’esercito e con la marina, che contribuirono si potentemente al risorgimento della patria, e diedero in ogni occasione splendide prove di virtù e di abnegazione, sta il mio pensiero e il mio affetto. La prosperità e la gloria di entrambi mi sono sommamente a cuore. Chè, se mai tornassero tempi gravi e difficili, son certo che a loro sarebbero sicuramente affidate le sorti della patria».
Dopo aver pronunziate queste parole, il Re baciò affettuosamente il Principe Reale che era fra i comandanti di corpo, e strinse la mano ai suoi compagni d’armi. Fu un momento solenne, che i vecchi generali ricordano con le lacrime agli occhi.
L’indirizzo presentato dal Presidente del Senato diceva:
«Sire!
«Sono oggi compiuti 25 anni da che Voi cingeste l’avita corona dei Re Sabaudi. Raccolta in un giorno di sventura sopra un campo di battaglia, Voi, non solo le rendeste lo splendore antico, ma la faceste degna dell’Italia risorta. La Croce di Savoia, insegna gloriosa della Vostra Casa, divenuta sinibolo sacro dell’Unità d’Italia, sventola sulle torri delle nostre cento città, ed ha preso il luogo di tutte le insegne delle signorie cadute con la dominazione straniera.
«Quale storia memoranda avranno questi 25 anni del Vostro Regno! La libertà mantenuta anche quando pareva meritorio proscriverla; la guerra d’indipendenza due volte ripresa e due volte condotta a buon fine; devanzato, nonchè seguito l’impeto dei popoli anelanti di cancellare le divisioni antiche; l’unità della patria, che sembrava sogno di anime generose, felicemente compiuta; data persona e parola nel concerto delle nazioni a quest’Italia ieri conculcata e derisa; composto, per quanto era in noi, il funesto dissidio tra l’Italia e la Chiesa, senza rinnegare la fede dei nostri maggiori; sono questi gli avvenimenti stupendi, che riempiono questo quarto di secolo.
«Noi, testimoni fortunati di così splendida successione di eventi, rendendo omaggio alla M. V. in questo luogo e in questo giorno, quasi non crediamo a noi stessi; e ringraziamo la Provvidenza di esser vissuti fino a veder soddisfatto così felicemente, ed in così breve tempo, il voto di tante generazioni.
«Felice il Re che può unire il suo nome al risorgimento del suo popolo; felice il popolo che trovo nel suo Re il propugnatore coraggioso dei suoi diritti! Questa ventura toccò a Voi, o Sire, e non per cieco capriccio di sorte, ma come premio meritato di valore, di patriottismo e di lealtà.
«Tutta Italia saluta con giubilo questo giorno bene augurato. I popoli vi acclamano, perchè riconoscono in Voi l’espressione più alta e più risoluta del sentimento nazionale. Dinanzi a Voi non sono antagonismi di parte, rivalità di dottrine; c’è l’Italia, c’è la Nazione, che in Voi si sente rassicurata e difesa.
- «Sire!
«Il Senato del Regno non poteva rimanere muto in mezzo a tanta pubblica esultanza. Con l’omaggio delle sue felicitazioni esso vi saluta liberatore d’Italia e vi prega da Dio, che ha in mano i destini dei Popoli e dei Re, giorni prosperi e tranquilli nella pace di un regno lungo e glorioso».
- Il Re rispose:
«Accetto con grato animo gli augurii del Senato del Regno.
«Rivolgendo indietro lo sguardo al lungo periodo che abbiamo insieme percorso, sento che possiamo, con patrio orgoglio, rallegrarci dei risultati ottenuti.
«Il Senato del Regno cooperò efficacemente alla redenzione d’Italia, tutelando, in ogni occasione, i principii della giustizia, e di una savia e ferma politica.
«Se la impresa nazionale potè esser compiuta, egli è perchè abbiamo mantenuto indissolubilmente congiunta la libertà con l’ordine, l’indipendenza nazionale col rispetto dell’indipendenza altrui, la rivendicazione dei diritti dello Stato con la osservanza della religione dei nostri padri, il progresso con la tradizione.
«A perseverare in questa via io fo grande assegnamento sui consigli del Senato, e mi unisco ad esso per pregare Iddio che protegga sempre l’Italia».
La rappresentanza della Camera era guidata da S. E. Biancheri, il cui nome è associato a un così lungo periodo della nostra vita parlamentare. Ma non si può dire che fosse una rappresentanza, era tutta la Camera, poichè nella sala del Trono, a fare omaggio al Re, vi erano 266 deputati di ogni partito, e 20 erano insieme con le altre rappresentanze. Vittorio Emanuele lo notò con compiacenza.
L’on. Biancheri lesse il seguente indirizzo:
«Sire!
«Venticinque anni or sono la M. V. saliva sul trono, dal quale l’Augusto Vostro Genitore, sfidata indarno la morte sul campo di battaglia, volontariamente scendeva.
Egli legava a Voi, o Sire, la eredità di onorate sventure da riparare e di grandi destini da compiere. Voi raccoglieste quella eredità con l’animo deliberato a cancellare i decreti dell’avversa fortuna. In quel giorno luttuoso prometteste a Voi stesso di fare l’Italia. Questo fu il vostro voto a Novara il giorno 23 marzo 1849. Lo avete sciolto.
«Nel volgere di pochi anni avete percorsa una via secolare. Era una via aspra, irta di difficoltà e di pericoli: ma Voi, con l’illibata fede, col proposito pertinace, con l’inflessibile volere non cedendo nè ad illusioni, nè a sgomenti, confidando nella giustizia della causa, nella virtù delle libere istituzioni, nell’amore dei popoli, avete superato le difficoltà, avete affrontati e vinti i pericoli.
«Giungeste alla meta: oggi l’Italia, libera ed una, tiene il posto che ad essa compete tra le genti civili. Congiungendo le più illustri tradizioni del passato con le più elevate aspirazioni dell’epoca presente, avete compito la maggior opera di civiltà dei tempi presenti: avete fatto dell’Italia una nazione, e di questa nazione un esempio di libertà, una guarentigia di pace.
«Col ricuperare agli Italiani la loro capitale avete meritato il plauso riconoscente della coscienza umana, salvando da un danno comune gli interessi della religione e quelli della civiltà.
- «Sire!
«In questo giorno solenne per Voi, per l’Augusta Vostra Dinastia, per l’Italia, si compendia un memorabile periodo storico di venticinque anni. Fra tanta grandezza di rimembranze sorge più vivo negli animi nostri il sentimento della gratitudine verso la M. V. È il sentimento della Nazione.
«La Camera dei Deputati prega la M. V. ad accoglierne la espressione riverente ed affettuosa.
«Si, o Sire, l’Italia Vi è gratissima; l’Europa Vi ammira; Vi glorificherà la storia»
Sua Maestà rispose con le seguenti parole all’indirizzo della Camera:
«La espressione dei sentimenti della Camera dei Deputati in questo giorno torna più che mai grata al mio cuore.
«Non ambizione di regno nè desiderio di gloria, ma il solo sentimento del dovere mi spinse a continuare la grande opera iniziata da mio padre, e coll’aiuto di Dio e pel senno del popolo italiano e pel valore delle arini l’abbiamo compiuta.
«Fra gli eventi di questi venticinque anni trascorsi rimarrà memorabile l’esempio della libertà esercitata così degnamente dal Parlamento, e rimasta inalterata in mezzo a tutte le agitazioni, le vicende ed i pericoli, per l’intimo accordo della Corona coi rappresentanti della Nazione.
«Collo statuto costituzionale abbiamo acquistato la indipendenza e la unità della patria, collo statuto costituzionale sapremo consolidarla e dare al popolo italiano quella grandezza e quella prosperità alla quale i nostri comuni e concordi sforzi debbono essere incessantemente rivolti».
Le parole del Re furono accolte con evviva fragorosi che echeggiavano per la prima volta nella severa sala del trono.
Introdotte quindi le rappresentanze dell’alta Magistratura, del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, S. M. rispondeva ai loro indirizzi colle seguenti parole:
«Accolgo con grato animo i voti del Consiglio di Stato, della Magistratura italiana e della Corte dei Conti. A voi sono affidati i grandi interessi dell’amministrazione e della giustizia. Se la giustizia è ovunque il fondamento dei regni, nel governo costituzionale l’ufficio della Magistratura diventa più grande e più efficace e colla sua indipendenza cresce ancora la sua responsabilità.
«Da voi i popoli aspettano il costante rispetto delle leggi, la tutela di tutti i diritti e il regolare andamento dell’amministrazione, che essi riguardano a ragione come beni supremi.
«lo confido pienamente nella vostra ferma cooperazione a questi nobilissimi fini».
Seguivano le rappresentanze degli Istituti di scienze ed arti, dei Consigli Superiori dell’Istruzione Pubblica, dei Lavori Pubblici e della Pubblica Sanità. Ometto gl’indirizzi tutti concordi nel proclamare il Re fattore primo dell’unità. A quegli indirizzi S. M. rispondeva:
«Mi è cara la testimonianza della vostra devozione e del vostro affetto. Se il periodo che abbiamo compiuto richiese sopratutto le arti della politica e della guerra, il periodo nel quale entriamo invoca più specialmente il sussidio delle scienze e delle arti della pace.
«A voi si appartiene preparare degnamente la nuova generazione mettendo in onore lo studio delle verità più sublimi.
«Chè se l’istruzione e la scienza saranno congiunte alla moralità ed al carattere, l’Italia potrà salire a quell’altezza che già due volte la rese maestra di civiltà.
«A questo desiderato fine contribuiranno ancora le grandi opere pubbliche, le industrie e i commerci dei quali veggo qui con piacere i degni rappresentanti».
Dopo i grandi corpi dello Stato il Re riceve i rappresentanti delle provincie guidati dall’onorevole Mordini, prefetto di Napoli, e i rappresentanti dei 69 municipi e capoluoghi di provincia, quindi quelli dei Comuni minori, i quali tutti recavano indirizzi. Il Re li prendeva e passavali all’on. Minghetti. A queste rappresentanze Vittorio Emanuele disse:
«Io vi ringrazio delle spontanee e cordiali vostre dimostrazioni, e in voi ringrazio le popolazioni che rappresentate.
«Questo giorno memorabile riconduce il pensiero al mio Augusto Padre da cui mosse l’iniziativa dell’indipendenza italiana e che diede ai suoi popoli lo statuto costituzionale; a Lui serbate, come io serbo, ognora viva la gratitudine.
«Da quel giorno nel quale assunsi la Corona riguardai come un sacro dovere quello di continuare la grande impresa, che egli aveva incominciata.
«Questo dovere mi sostenne sempre in mezzo alle difficili prove ed ai pericoli che abbiamo passato per giungere alla meta sospirata da tanti secoli.
«L’Italia resa indipendente è divenuta un pegno di pace in Europa; le sue provincie divise si sono insieme congiunte; Roma capitale ha coronato l’opera nella unità nazionale e consacrato un principio non meno salutare alla religione che alla civiltà.
«Tutto ciò si deve, dopo Iddio, alla virtù del popolo italiano.
«Il soffio della libertà risvegliò le gloriose tradizioni dei municipi. Coltivate quelle tradizioni con amore, esercitate con zelo le franchigie locali, essendo regolate dalla legge, subordinate alla unità della nazione, esse perdono gli antichi pericoli e sono sorgenti di vita, di operosità, di progresso.
«Signori, Noi potremo dire di avere bene spesa la vita se lasceremo ai nostri figli una patria non solo unita e libera, ma bene ordinata, prospera e concorde».
L’assessore Galletti a nome del Consiglio comunale di Roma, presentò al Re una bellissima pergamena, sulla quale era scritto:
«O invocato da secoli, Re liberatore, che nel tuo nome porti gli auspicii della Vittoria e della Provvidenza, quanto mutar d’uomini, di fortuna, di pensieri, Tu, incrollabile custode del giuramento paterno, vedesti nei tuoi primi venticinque anni di Regno, cominciato col 23 marzo 1849, quando raccogliesti nel sangue le lacere bandiere della patria, finito il 23 marzo 1874 tra le benedizioni trionfali delle genti italiche, saldate in un popolo solo, che il tuo esempio conferma nella fedeltà dell’onore, nel culto della libertà!
«Roma, che vede conclusa col suo Re la gloriosa epopea della Tua eroica giovinezza, riapre per Te la sua storia ed augura che la Tua mano virile vi scriva la pagina più gloriosa
Anche per ringraziare Roma, il Re trovò parole affettuose e alte. L’assessore Galletti presentò quindi al Re la deputazione dei Rioni, guidata dal marchese Calabrini, che offrì a S. M. l’album contenente 20,000 firme. Il marchese tentò di esprimere i sentimenti proprii e quelli dei suoi compagni, ma era così commosso che non poté pronunziare neppure una parola. Il Re capi e volgendosi a lui gli disse:
» Assicuri la popolazione romana del mio affetto per lei e della premura che ho per il suo benessere».
La deputazione della Guardia Nazionale era ancora nella sala del trono, quando sulla piazza il popolo chiedeva già di vedere il Re, di ripetergli con una calorosa ovazione, i sentimenti di cui si erano resi interpreti i suoi rappresentanti. Vittorio Emanuele si affacciò alla loggia, e un grido alto unanime scoppio da ogni parte.
La festa non si limitò a Roma soltanto; ogni sodalizio, ogni Comune d’Italia spediva telegrammi, lettere, augurii, per modo che nella segreteria della casa di S. M. non si faceva a tempo ad aprirli
Tutti pregavano dal cielo vita, salute e forza al Re, nelle Chiese cattoliche, come nei templi di altre religioni. A Roma alla Sinagoga il Rabbino Coen, dopo preci e cantici, invocò: «pace e felicità all’Augusto nostro Sovrano e liberatore Vittorio Emanuele II, Re d’Italia e alla regale famiglia»; nel tempio protestante di piazza Randanini voti eguali erano rivolti a Dio dal pastore; soltanto le chiese di Roma restavano mute di preci e deserte e i clericali, mostrando poco tatto, andavano al Vaticano a fare una dimostrazione al Papa.
La sera del 23 all’«Apollo» vi fu una serata di gala a invito distribuito dalla Corte. La platea era tutta occupata dalla Camera e dal Senato; alcuni palchi di 2° ordine, ridotti a gallerie, erano destinati al Corpo diplomatico. Gli occhi di tutti erano fissi sul marchese di Noailles, nuovo UMBERTO I ministro di Francia, bell’uomo, alto e robusto, col volto circondato dalla barba, che aveva ai lati i segretari signor Tiby, signor de Grouchy, signor d’Hérisson e il capitano di Stato maggiore, signor Lemmoine, addetto militare. Gli altri palchi erano tutti occupati dalle più belle signore di Roma, le quali in quella occasione sfoggiavano abiti ricchissimi e magnifici gioielli.
Si davano i «Goti» del maestro Gobbati.
Il Re, dando il braccio alla principessa Margherita entrò prima delle 10, quando già era per terminare il 1° atto, nel palco reale; tutte le signore si alzarono sventolando i fazzoletti, tutti gli uomini gridavano: «Viva il Re!» Due volte S. M. dovette affacciarsi a ringraziare. Sul maschio volto di Vittorio Emanuele si vedevano le tracce della commozione e della stanchezza della giornata, ma egli sorrideva di compiacenza sentendosi tanto amato. All’uscire dal teatro nuovi e ripetuti applausi; per via fuochi di bengala e gridi della folla plaudente. Nel giungere al Quirinale egli dovette affacciarsi per contentare il popolo di Roma, che non era ancora sazio di acclamarlo.
In quel giorno memorabile la casa militare donò a S. M. una medaglia d’oro con una iscrizione dettata dal conte Sclopis; la Casa civile una spada di superbo lavoro; gl’impiegati della Lista civile una canardière della fabbrica Richards, abbellita con incisioni e fregi dell’armaiuolo napoletano Alfonso Izzo; le dame romane un immenso trionfo di fiori, accompagnato da un indirizzo nobilmente redatto. Il primo a far gli augurii a S. M. fu il piccolo Principe di Napoli, il quale appena vestito venne condotto nel quartiere del Re e gli disse, col suo linguaggio infantile, tante cose affettuose.
Il Re in quella occasione mise a disposizione del sindaco 10,000 lire per esser distribuite ai poveri.
Le cortesie del signor de Noailles non si limitarono agli augurii e alla sua presenza alla rappresentazione dell’«Apollo», ma fece issare sulla nave «Orénoque» ancorata a Civitavecchia, la bandiera italiana al posto d’onore. Il comandante, forse appoggiato dal signor de Courcelles, non voleva, e il signor de Noailles dovette fargli telegrafare dal ministro della marina. Pio IX quando ne fu informato fece una terribile sfuriata e ordinò al cardinale Antonelli di comunicare al signor de Courcelles che egli voleva che l’«Orénoque» ritornasse subito in Francia, L’Antonelli riuscì a calmarlo, e l’«Orénoque» rimase, ma sotto gli ordini del ministro de Noailles, e non più sotto quelli dell’ambasciatore de Courcelles.
Mentre il Papa era in queste disposizioni d’animo, un filantropo, il sacerdote piemontese don Bosco, venne a Roma col generoso proposito di tentare una conciliazione fra lo Stato e la Chiesa. Egli vide il Papa, il cardinale Antonelli, vide il Minghetti e il Vigliani, ma non concluse nulla. Nell’udienza ultima disse a Pio IX di scusarlo per il disturbo che avevagli recato, e il Papa gli rispose che era sempre contento di vedere un sacerdote così stimato come lui.
Cosi terminò la tanto annunziata missione di don Bosco, che nessuno avevagli affidata, e che da sè solo erasi imposta.
Le cucine economiche sorsero, ma non per iniziativa di chi avevane propugnata la necessità nel comizio dello Sferisterio, ma per gli aiuti dei signori don Maffeo Sciarra, don Romualdo Braschi, Felice Ferri, Vincenzo Tittoni, Luigi Sindici e Mauro Macchi. Esse erano stabilite a Termini, a San Nicolò de’ Cesarini e a San Bartolommeo all’isola. Dell’andamento occupavasene specialmente la «Società Operaia Centrale», piccola società modello, sorta da poco. Per 35 centesimi fornivano minestra col brodo, una porzione di carne e il pane. Quella di Termini era la meno frequentata, ma le altre due dispensavano moltissime porzioni, però non in rapporto con la lazione operaia, perché non era quella che veramente soffriva del prezzo elevato dei viveri, ma piuttosto la classe media. L’operaio allora lavorava ed era ben retribuito, perchè i lavori non mancavano; l’impiegato invece era pagato lo stesso di prima e si trovava a dover spendere il doppio per la pigione e per il nutrimento, e sotto la falsa apparenza di una agiatezza che non esisteva, quella classe si dibatteva nella miseria.
Questi erano allora i veri miserabili di Roma, e la tanto sospirata legge sull’aumento degli stipendi, già presentata alla Camera, non si discuteva.
Il lavoro della Camera fu quasi tutto negativo in quel primo periodo della sessione. Dopo tre votazioni per appello nominale fu rigettata a scrutinio segreto la legge sulla nullità degli atti non registrati; la legge sulla difesa dello Stato fu sospesa al Senato dietro desiderio del Governo in seguito a una proposta del Cialdini, benchè il Menabrea ne avesse dichiarata l’urgenza; per le leggi rispetto alla riforma della marina proposte dal ministro si fece quasi lo stesso. La Camera mancava d’indirizzo, il Governo pareva non sapesse ciò che voleva, e mentre in quel periodo legislativo si udirono i più bei discorsi, si fece pochissimo di concludente. Il ministero Minghetti dopo il rifiuto della legge sulla nullità degli atti non registrati, che fu respinta con 166 voti contro 163, dovette dare le dimissioni, che non furono accettate dal Re. Il Presidente del Consiglio fece capire, nell’annunziarlo alla Camera, che questa sarebbe stata sciolta, e la Sinistra che prevedeva la caduta della Destra dal potere, per la scissura fra i suoi capi, si diede a preparare le elezioni pubblicando prima di tutto un manifesto di battaglia firmato da Cairoli, Nicotera, Crispi, Bertani, Mancini, Sesmit-Doda, Sermoneta, Fabrizi, Avezzana, Oliva, Razzolo, Tamajo, Cucchi, Miceli, Musolino e Asproni.
Se vi era crise latente nel Gabinetto, vi era pure nel Consiglio comunale. Il sindaco Pianciani era in urto con gli assessori e con la Giunta e dietro proposta del Ramelli, coadiuvato dall’Alatri, vedendo votare sempre nuovi lavori, senza che vi fossero i fondi necessari, chiesero che fosse redatto un prospetto di tutti i lavori in corso, delle somme già decretate per essi, di quelle spese e di quelle che rimanevano da spendere. Era un mezzo per orientarsi in mezzo a quella Babele. Il prospetto fu presentato e si vide che fra lavori già stabiliti e lavori su cui si era preso impegno, vi era uno scoperto di 25 milioni, senza contare i molti cui ascendevano quelli per il Tevere. Il Municipio aveva già contratto un prestito con la Banca Nazionale di 30 milioni, ed erano in corso trattative per un altro di 100 e forse più milioni con una casa tedesca. Con questo secondo prestito si voleva estinguere il primo e spingere i lavori. L’Alatri, che era un saggio amministratore, combattè questa idea e su proposta dell’Angelini il Consiglio chiese la presentazione del bilancio. Il Pianciani lo fece redigere in fretta e in furia, stralciando a caso le spese. Proponeva di prorogare il termine dei lavori di via Nazionale, di togliere 300,000 lire alle spese per l’istruzione, di radiare quelle per la Guardia Nazionale, come ne dava facoltà ai Comuni la legge sui centesimi addizionali sui fabbricati. Il Sindaco si dimette, si dimette la Giunta per un voto sfavorevole del Consiglio, e si fanno le elezioni parziali.
La lotta non fu aspra e trionfò la lista moderata del Comitato Elettorale di Roma col Sella, portato anche dal Popolo Romano, ma i fidi dell’ex-sindaco non riescirono. L’elezione del Sella significava che i Romani si erano accorti che fra loro mancavano gli amministratori della cosa pubblica, e ricorrevano a un uomo di capacità incontestata. Il Venturi prese a far le veci di sindaco, molto seriamente. In quelle elezioni riusci pure il principe don Filippo Orsini, che dette anche un banchetto agli elettori nel cortile del suo palazzo, tutto ornato di bandiere. Di qui ire dei giornali cattolici e del Vaticano, perchè don Filippo era per diritto ereditario, dopo la recente morte del padre, principe assistente al Soglio. I liberali credevano di aver fatto una conquista mettendo don Filippo nel Consiglio, ma il teinpo dimostrò che la speranza era vana.
In quell’anno Pio IX aveva veduto morire tre cardinali. Il primo fu il Tarquini, il secondo il Bernabò, prefetto di propaganda, al posto del quale venne nominato il Franchi, il terzo il Falcinelli, già nunzio a Vienna al tempo del viaggio del Re. Nell’estate egli ebbe il dolore di veder morire anche monsignor Saverio de Merode, che aveva un grande ascendente sull’animo del Pontefice, e non sempre buono. Gli dette per successore monsignor Samminiatelli, pisano, che fè consacrare vescovo di Lida.
La morte del battagliero monsignor de Merode fu una perdita per il Papato. Era nato a Brusselles, nel 1820, ed aveva seguito nella prima giovinezza la carriera delle armi sotto la bandiera francese guadagnandosi la medaglia della legion d’onore sul campo di battaglia. Nel 1849; dopo la fuga del Papa, venne a Rona con l’intenzione di farsi prete, e con una raccomandazione del suo parente de Courcelles fu introdotto presso Pio IX a Gaeta. La nomina del de Merode a cameriere partecipante e coppiere porta appunto la data di Gaeta. Nel 1860 fu nominato proministro delle armi, carica che serbò fino al 1866. Allora cadde in disgrazia, dovette allontanarsi, e fu creato arcivescovo di Militene; in seguito ebbe la carica di elemosiniere segreto, e nel 1870 era in auge, ma l’opposizione fatta al dogma della infallibilità, raffreddò Pio IX verso di lui. Però dopo l’occupazione era divenuto un’altra volta potente, e di questa sua potenza si valeva per aizzare il Papa contro l’Italia, di cui era fierissimo nemico. Se Pio IX avesse ascoltato soltanto il de Merode e non talvolta anche i consigli ispirati a maggior moderazione dell’Antonelli, sarebbe partito da Roma.
È curiosa la contradizione che vi era nel carattere del prelato belga. Mentre in fatto di vedute rispetto alla religione e al Papato si mostrava assolutamente retrivo ed intransigente, intendeva la vita in un senso veramente moderno, traeva partito dai vantaggi che essa offre, e le sue idee erano vaste ed illuminate. A lui Roma deve molto, e specialmente di aver capito, prima dell’occupazione, che era necessario si trasformasse. Per suggerimento del de Merode il Papa fece costruire le case operaie in piazza Mastai, che furono pronte molto prima di quelle decretate a suon di banda dal Pianciani al Testaccio, e in quelle case molte famiglie popolane trovarono alloggio per trenta lire mensili, godendo di un sano quartierino di quattro stanze.
Il Papa vide il de Merode durante l’ultima malattia e gli fece fare solenni funerali in San Pietro. Il cadavere fu sepolto nel cimitero teutonico di Santa Marta. Per mostrare a che punto monsignor de Merode fosse invelenito contro l’Italia, basti citar questo fatto: Nel 1873 scrisse una lettera al Procuratore del Re invitandolo a radunare il Senato in alta corte di giustizia per giudicare il comandante della divisione di Roma, che era il principe Umberto, perchè aveva fatto tirar le cannonate in occasione dello Statuto dalla caserma del Macao, sulla quale non cessava di acampar diritti di proprietà. Invece usciva sempre, si faceva vedere ovunque lo chiamava la sua prodigiosa attività, trattava affari di cessioni di terreni col Municipio e col Governo, e comprò anche molti beni delle corporazioni religiose. Lasciò al fratello un ingentissimo patrimonio qui, e un altro nel Belgio.
Del resto non era il solo che comprasse quei beni, nonostante la scomunica. Quando si facevano le aste non rimanevano mai deserte, anzi vi partecipavano molti, e i beni salivano all’asta.
Il Vaticano aveva trovato un mezzo per evitare la scomunica agli acquirenti scrupolosi.
La Congregazione dei Vescovi Regolari rilasciava uno strano documento. Era un foglio della grandezza di un brevetto militare, in alto aveva lo stemma papale, sotto la formula mediante la quale la S. Sede liberava da ogni peccato coloro che acquistavano beni dal Governo piemontese, purché si obbligassero a rivenderli al prezzo di costo al Governo pontificio quando fosse restaurato.
Questo documento portava in calce il sigillo della Congregazione dei Vescovi e la firma del presidente di essa.
Cosi, per dirne una, la tenuta di Montalto fu comprata dal duca don Pio Grazioli, che già l’aveva in affitto, e molti altri devoti comprarono il rimanente dei beni messi all’asta. I compratori furono 136 romani, e della provincia, appartenenti alla religione cattolica, 5 israeliti e 18 fra italiani delle altre provincie e forestieri. Fra gli acquirenti i Santa Fiora, i Lovatelli, i Gori-Mazzoleni, i Corbò, i Montani, Ferrigni, Spinetti, Sottovia ecc. L’interesse, questa molla potentissima, era in giuoco, ed è ben naturale che dinanzi a lui, in un secolo calcolatore e banchiere, tacessero i sentimenti.
Ma non da queste vendite, non dalle lotte dei partiti si rivelava il progresso vero, indiscutibile che Roma aveva fatto in quattro anni, ma dal bisogno di spargere l’insegnamento, nella nobile gara per creare istituti e biblioteche e centri di cultura.
Il conte Guido di Carpegna si ribellò appena il sindaco Pianciani propose di togliere 300,000 lire alle scuole, che erano opera sua; 103 studenti dell’università vaticana, chiedono di dare gli esami di licenza liceale «all’Ennio Quirino Visconti»; il Cantelli studia di fondare un nuovo Ginnasio-Liceo, il Bonghi crea un Museo Didattico con tutto il materiale scolastico e i libri raccolti durante il suo soggiorno e Vienna, al tempo dell’esposizione; Domenico Berti, coadiuvato da 50 fra senatori e deputati, fonda presso la Scuola Superiore Femminile una associazione per l’istruzione scientifica, letteraria e morale della donna, si istituisce il convitto Provinciale, e Felicita Morandi riordina l’Ospizio di Termini; si crea il Museo Agrario, si ridesta la vita scientifica alla Università e si dà assetto con criterii moderni alle biblioteche Angelica, Casanatense e Vallicelliana, mentre si studia di crearne una nuova per i nuovi quartieri della città.
A tutto questo fecondo lavoro che prepara la nuova vita dell’intelletto, non rimane estranea la popolazione. La Scuola Superiore Femminile è frequentata da gran numero di ragazze della ricca borghesia, e la premiazione è una lieta festa e una bella ricompensa per la direttrice Erminia Fusinato; la Scuola Normale prospera pure; da poco più di 1000, in quattro anni gli alunni delle scuole municipali salgono a 14.000; i concerti si cambiano in feste dell’arte, le esposizioni di pittura e scultura sono visitate da moltissima gente, e il Museo Artistico Industriale, creato per le premure del principe Odescalchi e arricchito dai doni di tanti incoraggiatori, è salutato con plauso generale; il numero dei frequentatori delle biblioteche cresce a dismisura. Ecco il vero risveglio di Roma, ecco il vero risultato ottenuto in quattro anni di libertà.
E più l’interessamento della popolazione era rivolto a nobili scopi, e più diminuivano le gare meschine e gli attriti di partiti. Poche e insignificanti le dimostrazioni e controdimostrazioni al Vaticano, benchè in giugno il Papa assistesse da una delle gallerie di San Pietro a una funzione, e dopo si facesse vedere a una finestra del suo quartiere.
I clericali avevano preso il vezzo delle controdimostrazioni. Appena le bandiere sventolavano e la città e soprattutto il Trastevere illuminava le case, essi andavano al Vaticano, ma il popolo non ci badava più, sicuro ormai della sua indipendenza, e lasciavali fare. Questo avvenne anche per il 20 settembre, quando a cura della Guardia Nazionale furono poste alla Porta Pia le due lapidi con i nomi dei morti del 1870.
Lo scioglimento della Camera fu decretato il 20 settembre, ma il decreto venne pubblicato soltanto il 3 ottobre. La Destra entrava nel periodo elettorale sfibrata, il Governo senza forza morale dopo l’ultimo voto. Se il Minghetti avesse avuto minor fiducia in se stesso e avesse prestato orecchio ai suggerimenti degli amici e della stampa del suo partito, che gli consigliavano di associarsi il Sella nel governo, forse la catastrofe del vecchio partito, che aveva in mano da tanti anni i destini del paese, sarebbe stata ritardata, ma egli non volle, e presentando alla firma del Re il decreto di scioglimento della Camera, non solo fece sottoscrivere la propria esclusione del Governo, ma la esclusione del partito suo.
Non era giovato a nulla che egli avesse chiamato il Bonghi all’Istruzione Pubblica, ci voleva un uomo politicamente influente, un ministro delle finanze che avesse un concetto chiaro della situazione finanziaria del paese, il quale davanti alla Camera nuova potesse tener fronte alla Sinistra.
Questo partito, indebolito anch’esso nel precedente periodo per le divisioni fra la Sinistra parlamentare, capitanata dal Cairoli, e la Sinistra giovine, guidata dal vecchio De Luca, si era immensamente rafforzato nel meeting di S. M. la Nova a Napoli, nel quale si erano veduti Nicotera e San Donato lavorare insieme a ordinare il movimento elettorale nei collegi della città e delle provincie circostanti.
A Roma il partito di Sinistra e quello più avanzato della Capitale, fecero le elezioni sul nome di Garibaldi. Egli fu portato nel 1° e nel 2° collegio, come protesta contro il Governo. Si tenevano numerose adunanze e il Luciani specialmente, si dava moto per farlo riuscire. Garibaldi, che non era mai venuto a Roma, dopo l’occupazione, aveva qui numerosi ammiratori, anche non repubblicani; ammiratori del suo valore, della sua gloria. Si cominciò a dire e a scrivere che gli stranieri c’invidiavano l’eroe dei due mondi, il condottiero invincibile, e anche molti moderati votarono per lui. Egli riusci eletto nei due collegi, nei quali aveva di fronte Vincenzo Tittoni e Giuseppe Biancheri, presidente della Camera. Nel 2° collegio fu eletto Samuele Alatri, di parte moderata, nel 3° Guido Baccelli, contro Pietro Venturi e nel 4° Giuseppe Luciani contro Augusto Ruspoli.
La sconfitta del Governo a Roma era dunque quasi completa, perchè, meno che l’Alatri, nessuno dei candidati del Governo era riuscito. L’incuria, l’inerzia loro parve quasi fatalità. Mentre gli spinti si arrabattavano per preparare le elezioni, e il Luciani, il duca di Sermoneta, che aveva rifiutato la candidatura, e Odescalchi, muovevano causa al prefetto Gadda, accusandolo di avere iscritto sulle liste elettorali gl’impiegati, i moderati non riuscivano a tenere una adunanza. La tennero finalmente alla Sala Dante, sotto la presidenza di Terenzio Mamiani, e fu numerosa, ma prima che concordassero una lista passò molto tempo, così che si presentarono alla battaglia avendo un avversario come Garibaldi, senza saper neppure su quali forze potevano contare. Il loro nome di battaglia era il Biancheri e neppur lui fu eletto.
Del programma del partito moderato, che era pur quello del Ministero, Roma rifiutò tutto e preferì l’incerto che le offriva un cambiamento radicale nella politica, a quello che le prometteva il Ministero Minghetti. I giornali clericali gongolarono della sconfitta e per provarlo cito le parole dell’Osservatore Romano:
«La lezione pel Governo è dura; ma altresi giusta e meritata.
«A Roma, lo possiamo ripetere con le parole del conte Mamiani, non v’ha posto che pel Papa o per Cola di Rienzo».
Il giorno dell’apertura del Parlamento i Romani smentirono queste asserzioni del foglio clericale, dimostrandogli che vi era posto anche per il Re, acclamandolo con vero entusiasmo per tutte le vie dalle quali passò per andare a Montecitorio.
Vittorio Emanuele nel suo discorso inaugurale ringraziò il popolo per le dimostrazioni fattegli nella ricorrenza del 25° anniversario del suo regno e aggiunse che, unificata la legislazione civile, doveva essere anche la penale, e che sarebbe stato ripresentato alla Camera un progetto di legge in proposito. S. M. annunziò pure il progetto di legge sul giure commerciale, i provvedimenti per ristabilire la sicurezza nelle provincie, ove fosse minacciata, i progetti di legge per l’esercito e per la marina, e termino dicendo:
«Intanto bisogna far sosta a nuove spese; il Parlamento avrà quindi ad occuparsi di quelle sole per le quali fu già preso impegno, e la cui urgenza sia evidente. Però il mio Governo nel proporvele vi indicherà insieme nuovi provvedimenti atti a farvi fronte.
«Non dipartendovi da tali norme, Voi riuscirete a porre nel bilancio del Regno l’equilibrio, che è il più ardente desiderio della Nazione. Il conseguimento di questo fine sarà compenso e conforto ai tanti sacrifizi che il popolo ha sostenuto con nobile coraggio.
«Cosi il risorgimento italiano, scevro di ogni macchia, avrà anche questo vanto, si raro nella storia dei muta menti politici, di non aver accolto mai il pensiero di venir meno alla sua fede politica».
Il Re nel terminare il discorso alluse alle buonissime relazioni dell’Italia con le potenze estere, e all’abbondanza del raccolto, da cui avrebbero avuto sollievo le classi meno agiate.
Il discorso fu giudicato alquanto casalingo, ma non poteva avere altra intonazione. Per l’Italia era chiuso il periodo epico, bisognava che agli entusiasmi succedesse il lavoro proficuo, e che essa approfittasse della sua rinnovellata giovinezza per provare che era prudente nella pace, com’era stata ardimentosa nelle imprese.
Il conte Des Ambrois, che visse in carica pochi giorni soltanto, venne dal Re nominato presidente del Senato; alla Camera fu eletto Biancheri contro Depretis, candidato dell’opposizione; ma il trionfo del Biancheri non poteva infondere fiducia di nuove vittorie nel Governo, il quale si vedeva sempre schierate davanti e compatte le due falangi avversarie; forte di 95 deputati quella napoletana, e di 41 la siciliana.
La Sinistra impegnò la battaglia sulle elezioni dell’Alatri nel 2° collegio di Roma, ma non vinse. S’impugnò la validità di quella elezione perché il Prefetto aveva fatto iscrivere gl’impiegati sulle liste elettorali, senza tener conto che ne aveva fatti iscrivere pure nelle liste del 1° e del 3°, ove erano stati eletti Garibaldi e Baccelli.
Nel 4° collegio è annullata l’elezione di Giuseppe Luciani, e proclamata invece quella di don Augusto Ruspoli. Il Luciani non aveva l’età stabilita dalla legge, ma nonostante aveva voluto essere eletto e alla Camera aveva parlato aspramente contro il Presidente.
Garibaldi optò per il 1° collegio, così che rimase vacante il 5°, ma non vi fu elezione prima della fine dell’anno. Egli era in grandi angustie finanziarie e molti Comuni gli avevano votato sussidii e dotazioni annue. Al Consiglio Comunale di Roma pendeva una proposta simile e l’on. Caranti aveva invitato la Camera a provvedere per il Generale con un assegno di 20,000 lire annue. Era non solo un atto di omaggio che gli si voleva rendere, ma anche una specie di tacita protesta contro la Francia, che mostravasi così poco riconoscente per lui. Ma la Camera rimase così poco adunata dalla sua convocazione alle vacanze natalizie, che ebbe appena tempo di convalidare le elezioni. Ma già se ne capiva l’umore, tanto che gli uffici respinsero subito il progetto di legge, presentato dal Minghetti, sulla pubblica sicurezza, e il Presidente del Consiglio, per evitare maggiori battaglie, rinunziò a ripresentare quello sulla nullità degli atti non registrati.
In occasione della festa dello Statuto l’on. Minghetti aveva ricevuto il collare dell’Annunziata, e in quel giorno aveva seguito il Re a cavallo alla rivista, vestito da maggiore di Stato Maggiore, grado che egli aveva dal 1848. Si rise un poco allora del militarismo del Minghetti, e specialmente della sua divisa tanto poco conforme al regolamento, ma il militarismo trionfava in Europa e non era strano che Marco Minghetti pure esumasse la vecchia uniforme.
L’«Orénoque» il vecchio e sconquassato bastimento francese, che aveva fatto spargere tanto inchiostro sulla carta, dopo quattro anni d’immobilità, la mattina del 14 ottobre, aveva scaldato la macchina e si era allontanato. Il comandante aveva prima scambiato le visite con quello dell’«Esploratore» e il paese era rimasto indifferente alla partenza. Il Governo di Versailles fece inserire nel Journal Officiel una nota e mise il «Kléber», che era a Bastia, a disposizione del Papa. Naturalmente in Vaticano furono afflitti della partenza, che chiudeva la spedizione francese in Italia. Il Papa ne era stato avvertito dal signor de Courcelles e dicesi non facesse osservazioni ne lagnanze; egli ormai non voleva partire.
In quello stesso tempo la polizia fece a Roma, in una casa in via Marforio una curiosa scoperta: essa sorprese una piccola banda di zuavi carlisti romani, tutti ex-soldati pontificii, che erano armati alla meglio e comandati da un certo Emidio Lottera, ex-sergente papalino. Essi erano già stati in Ispagna, ed avevano fatto ritorno a Roma per preparare una nuova spedizione. Furono sequestrate carte, proclami e nel convento di Santa Maria della Scala in Trastevere anche una bandiera di seta rossa e gialla col Sacro Cuore, ricamata da alcune signore, e sormontata da questa iscrizione a lettere d’oro:
«El corazon de Jesus es commigo!»
Il capo di questa minuscola cospirazione carlista, era il comm. Gioacchino Monari, già intendente dell’esercito pontificio e vice-presidente della «Società dei Reduci delle battaglie per il Papato». Il prefetto ordinò lo scioglimento della società e deferì gli arrestati al potere giudiziario.
Molti lutti avevano funestato Roma; era morto il generale Gibbone, avvelenato dal suo attendente a scopo di furto, il comm. Antonio Cipolla, valente architetto napoletano, che aveva lavorato molto a Imola, a Bologna, a Firenze e qui, il conte Des Ambrois, presidente del Senato, il generale Sirtori, tutti uomini che lasciarono un vuoto, e la cui morte era una perdita per il paese. Al Sirtori, per sottoscrizione pubblica, fu eretto un monumento.
Chi, alla fine del 1874 avesse percorso Roma, gli sarebbe apparsa sensibilmente abbellita. Il quartiere del Castro Pretorio incominciava a prendere un aspetto elegante. Già era terminato il villino del Re, occupato dalla legazione di Turchia, e poi quello Berretta, l’altro Servadio e il bel palazzetto De Renzis, tutti situati in piazza dell’Indipendenza; in via Nazionale i signori Guerrini avevano fatto costruire dall’ingegner Partini l’«Albergo del Quirinale», esercitato dal signor Costanzi; il palazzo della Cassa di Risparmio, opera del Cipolla, era terminato e l’«Albergo Bristol», costruito dall’architetto Azzurri per ordine del principe Barberini, già ornava la piazza omonima.
Tra le nuvole di polvere delle demolizioni e degli sterri, s’incominciava a intravedere la nuova Roma, la Roma moderna, che tanti agognavano di veder sorgere emula, accanto all’antica.