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tutte riconosciute dalla legge, e nelle quali poteva restare un numero indeterminato di religiosi; quelle case potevano amministrare i loro beni, e dal punto di vista amministrativo soltanto continuavano ad essere riconosciute come enti civili. I beni appartenenti alle case soppresse nella città di Roma, e per i quali non era specialmente provveduto dalla legge, erano devoluti alla Chiesa di Roma, per esser destinati ad usi religiosi o di beneficenza, o distribuiti ad enti religiosi esistenti nella città di Roma.
Il progetto della Giunta toglieva invece ogni riconoscimento giuridico alle Case generalizie, e in quanto ai beni non parlava di fondazioni, ma li spartiva fra la Congregazione di Carità, il Municipio e la Provincia, per valersene a scopo di beneficenza e d’istruzione. La Giunta ammetteva pur sempre un patrimonio speciale delle Case generalizie e, senza precisarne l’ammontare, assegnava questo patrimonio, detratte le passività, alla Santa Sede, offrendone il godimento temporaneo ai generali e procuratori generali degli ordini. Inoltre escludeva la conversione degli edifici in cui avevano sede i generali e procuratori generali.
La Camera invece dopo avere estese integralmente le leggi di soppressione delle Corporazioni religiose e di liquidazione dell’asse ecclesiastico, e spartiti i beni delle Corporazioni appartenenti a Roma, fra la Congregazione di Carità, il Municipio e la Provincia, provveduto al fondo delle pensioni in ragione di sedici volte il loro ammontare, assegnava alla Santa Sede una rendita fino a L. 400,000, per provvedere al mantenimento delle rappresentanze degli ordini religiosi esistenti all’estero. Fino a che la Santa Sede non disponesse di quella somma, il Governo poteva affidarne l’amministrazione ad enti ecclesiastici giuridicamente esistenti a Roma, e gli si dava facoltà di lasciare agli investiti delle rappresentanze i locali necessari alle loro residenze e al loro ufficio.
La votazione fu una cosa curiosa. Ogni deputato votò secondo le proprie convinzioni, senza badare a partito, e se l’emendamento Ricasoli, che non soddisfaceva, fu approvato, si dove al timore di veder naufragar la legge.
Le discussioni successive furono tempestose, perché molti deputati, fra i quali il Mancini, volevano che dalle norme stabilite in favore delle Case generalizie, fosse esclusa quella dei gesuiti; secondo la proposta de Donno, il Governo non voleva l’esclusione, e su questo proposito parlò il Peruzzi molto efficacemente. Ma il relatore Restelli accettò la proposta de Donno, che fu votata dalla Camera, la quale respinse l’ordine del giorno Carini, che obbligava il Governo a presentare un progetto di legge per la espulsione dei gesuiti dallo Stato.
Il Re, forse per dimostrare al barone Ricasoli la sua gratitudine per il segnalato servigio reso al Governo, andava in quei giorni appunto a visitarlo nel suo villino dietro il Gianicolo, ove il fiero barone di Brolio, viveva da eremita in mezzo alla campagna.
Nella seduta pomeridiana del 26 maggio la Camera votava i rimanenti articoli di legge. L’Osservatore Romano nell’annunziare la votazione scriveva: «Tutto dice che siamo tornati al 1848. Dobbiamo consolarcene; al 1848 succedeva il 1849».
Ma la profezia non si avverò, nè ancora pare debba avverarsi.
Si prevedevano le proteste, e prima ancora che la legge venisse discussa al Senato, fu pubblicata la protesta che i generali e procuratori generali delle Corporazioni religiose avevano diretta al Re, ai Presidenti della Camera, del Senato e del Consiglio. In quella protesta la legge era chiamata empia e sacrilega, e le proteste erano rivolte anche contro le empietà e le bestemmie dette nella Camera dei Deputati. La protesta terminava con la dichiarazione che i capi degli ordini non riconoscevano nessuno degli atti che potevano derivare dalla legge di soppressione.