Racconti (Hoffmann)/Il vaso d'oro/Veglia VIII

Veglia VIII

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E. T. A. Hoffmann - Racconti fantastici (1814)
Traduzione dal tedesco di E. B. (1835)
Veglia VIII
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VEGLIA VIII

La biblioteca delle palme. — Storia d’una salamandra disgraziata. — Come la penna nera facesse all’amore con una grande rapa, e come il registratore Heerbrand si ubbriacasse gagliardamente.

Già da molti giorni lo studente Anselmo lavorava presso l’archivista Lindhorst; le ore ch’egli impiegava così erano le più felici della sua vita, poichè sempre circondato dai canti misteriosi e consolatoli di Serpentina, sovente anche tocco da un soffio della sua bocca, egli sentiva un ben essere sconosciuto, che qualche volta si avvicinava alla voluttà [p. 114 modifica]più perfetta. Tutti i pensieri, tutte le privazioni della sua vita meschina erano scomparse dal suo spirito, e nella nuova vita che si era alzata per lui come un sole benefico, egli comprendeva tutte le meraviglie d un mondo più elevato, ch’egli non vedeva una volta che con istupore, ed anche con ispavento; egli copiava prestissimo, poich’egli si persuadeva sempre più che non faceva che trascrivere sulla pergamena dei caratteri che gli erano conosciuti da molto tempo, ed ei non aveva bisogno che di gettare appena gli occhi sull’originale per riprodurre il tutto colla più grande esattezza. — Fuor delle ore del pranzo, l’archivista Lindhorst non si mostrava che raramente, ma ogni volta egli compariva nel momento istesso in cui Anselmo tracciava le ultime linee d’un manoscritto; poi gliene dava un altro, e ripartiva subito senza aprir bocca, ma non senza aver prima mescolato l’inchiostro con una piccola bacchetta nera, e aver sostituito alle penne delle quali Anselmo erasi servito delle penne nuove e ben temperate. Un giorno, al battere del mezzodì, quando Anselmo saliva la scala [p. 115 modifica]egli trovò chiusa la porta, per la quale ordinariamente entrava, e dall’altra parte comparve l’archivista Lindhorst, col suo abito da camera singolare, che sembrava seminato di fiori brillanti. Egli gridò ad alta voce: “Oggi voi entrerete per di qui, caro Anselmo; poichè bisogna che noi andiamo nell’appartamento, ove ci aspettano i maestri di Bhogovotgita. “Egli uscì dal corridojo e condusse Anselmo attraverso le stesse sale e gli stessi appartamenti che gli aveva mostrati la prima volta. Lo studente Anselmo ammirò di nuovo la magnificenza meravigliosa del giardino, ma allora egli vide chiaramente che molti fiori, strani che brillavano sul cupo fogliame dei cespugli, non erano altro che gruppi d’insetti riccamente colorati, che battevano le ali, e che, ballando e girando sempre, sembravano accarezzarsi colle loro piccole proboscidi. Invece tutti quegli uccelli di color azzurro erano fiori odoriferi, e il profumo ch’essi esalavano s’innalzava dal loro calice con un suono dolce e armonioso, che si univa al mormorio delle cascate lontane, al movimento delle alte piante, e degli alberi, e for[p. 116 modifica]mavano un accordo pieno di passione e di melanconia. Gli uccelli beffardi, che la prima volta lo avevano tormentato, volavano attorno alle sue orecchie, e gli gridavano senza stancarsi con una piccola voce aspra ed acuta: “Signor lo studente! signor lo studente! non correte tanto! — Non guardate così le nuvole, — voi potreste cadere a faccia per terra. — Eh! Eh! signor lo studente! — mettetevi dunque il vostro rocchetto, mio compare il barbagianni vi pettinerà il tupè.” Questi discorsi ridicoli continuarono, finchè Anselmo lasciò il giardino.

Alla fine l’archivista Lindhorst entrò nell’appartamento azzurro; il porfido e il vaso d’oro erano scomparsi. Nello stesso posto eravi una tavola coperta d’un tappeto di velluto violetto; Anselmo vi trovò tutto il necessario per iscrivere; una sedia d’appoggio ricoperta come la tavola sembrava non aspettar più che lui. “Caro signor Anselmo, disse l’archivista Lindhorst, voi avete sin adesso copiato più d’un manoscritto prontamente, con esattezza e con mia intera soddisfazione; voi avete acquistata la mia confidenza; ma il più importante è ancora [p. 117 modifica]da fare; adesso si deve trascrivere o piuttosto ricalcare certi lavori scritti con segni particolari, ch’io conservo in questo appartamento, e che non possono esser copiati che sul luogo stesso. Voi lavorerete d’ora in avanti sempre qui; ma io non posso raccomandarvi abbastanza la prudenza e l’attenzione; una linea falsa, ovvero (cosa dalla quale il cielo vi preservi) una macchia d’inchiostro sull’originale vi immergerebbero nella disgrazia.”

Anselmo osservò che dai tronchi d’oro delle palme uscivano delle piccole foglie colore di smeraldo. L’archivista Lindhorst ne prese una, e Anselmo vide che quella foglia non era che un ruotolo di pergamena che l’archivista aperse e stese davanti a lui sulla tavola.

Anselmo contemplò con uno stupore estremo quei segni attorcigliati in modo sì bizzarro; alla vista di tanti punti, linee, tratti di penna, e uncini che sembravano rappresentare ora piante, ora muschi, ora figure d’animali, il coraggio quasi gli mancò: Egli rifletteva profondamente. “Coraggio, o giovane! gridò l’archivista, se tu hai una fede vera, un [p. 118 modifica]amor vero, Serpentina ti ajuterà!” La sua voce rimbombò come un metallo sonoro, e quando Anselmo, tutto spaventato, alzò gli occhi, l’archivista Lindhorst era davanti a lui in apparecchio reale, come gli era comparso la prima volta in biblioteca. Anselmo era talmente colpito di rispetto, ch’egli non credette poter fare a meno di gettarsi in ginocchio, ma ecco che l’archivista Lindhorst si arrampica sul tronco d’una palma e scompare tra le foglie di smeraldo.

Lo studente Anselmo comprese che il re dei Genii gli aveva parlato, e che era salito nel suo gabinetto di studio, per dare udienza, forse, ai raggi mandatigli da qualche pianeta come ambasciatori, e per conferire con essi di quello che doveva fare di lui, Anselmo, e dell’amabile Serpentina. — Può essere anche, pensò lo studente, che gli sia pervenuta qualche nuova dalle sorgenti del Nilo, o che un mago di Laponia gli renda visita. — Quanto a me, io devo mettermi al lavoro senza ritardo. Ed egli cominciò a studiare gli strani segni tracciati sulla pergamena. [p. 119 modifica]

La musica meravigliosa del giardino, saliva sino a lui e lo circondava di dolci profumi; egli intese anche il chiaccherìo degli uccelli beffardi, ma non comprese le loro parole, cosa che gli fece gran piacere. Si credeva udire qualche volta il mormorio delle foglie color di smeraldo delle palme, qualche volta risonare nell’appartamento le armoniose campane di cristallo, che un certo giorno dell’Ascensione, giorno di fatale memoria, Anselmo aveva udite sotto al sambuco. Lo studente Anselmo, sommamente incoraggito da quegli accordi, e dallo splendore luminoso, esaminava la pergamena con attenzione sempre crescente, e bentosto (come avvertito da una voce che partiva dal più profondo della sua anima), egli sentì che i gerolifici del manoscritto non potevano significare altro che le parole seguenti: Delle nozze del salamandro e della colubra verde.

Si udì un vigoroso accordo perfetto di campane di cristallo. — Dal seno dei fogliami lo zeffiro gli portò queste parole: “Anselmo, caro Anselmo!” e, oh prodigio! la colubra verde-dorata discendeva a spire lungo una palma. — [p. 120 modifica]“Serpentina! amabile Serpentina! gridò Anselmo delirante di felicità; poichè guardandola d’appresso era una bella ed amabile fanciulla, erano quegli occhi azzurri che da tanto tempo riempivano la sua anima di turbamento e di felicità, e la fanciulla guardandolo con una tenerezza inesprimibile nuotava nell’aria avvicinandosi a lui. Le foglie sembrarono abbassarsi e distendersi: dappertutto lunghe spine uscivano dai tronchi, ma Serpentina si sdrucciolava con tanta destrezza, tirando dietro di sè il suo abito di madreperla, ch’essa passava attraverso tutte le punte delle palme senza restarvi attaccata nemmeno una volta. Ella sedette sulla sedia d’Anselmo, vicino a lui; lo circondò con un braccio e lo strinse verso di sè; lo studente non perdeva nulla nè del soffio delle sue labbra, nè del calore elettrico del suo corpo. “Caro Anselmo, disse Serpentina, alfine tu sarai presto mio, la tua fede, il tuo amore ti assicureranno il mio possesso ed io ti porterò il Vaso d’Oro che deve renderci felici per sempre.” — “Oh cara! amabile Serpentina! riprese Anselmo, se io ti possiedo, [p. 121 modifica]che cosa m’importa del resto? Purchè tu sii mia, io consento a perire in mezzo a tutti i prodigi che mi circondano dal momento in cui ti vidi!” — “Io so bene, disse Serpentina, che tutte quelle apparizioni strane che un capriccio di mio padre ti ha spesso mandate, hanno riempito l’anima tua di terrore, ma esse non torneranno più, io spero, poichè io non sono qui in questo momento che per confidarti, caro Anselmo, con tutti i particolari più minuti tutto quello che devi sapere per ben conoscere mio padre, e per comprendere perfettamente i rapporti, che hanno tutte quelle coso, con lui e con me.”


Sembrava ad Anselmo di essere talmente abbracciato e allacciato da quell’amabile creatura, che non potesse muoversi e voltarsi che con lei, e che fossero i soli battiti del cuore di Serpentina, ch’egli udiva fremere attraverso i suoi nervi e le sue fibre: egli ascoltava, ed ogni parola dell’amabile fanciulla risonava nel suo cuore, e, simile ad un puro raggio di luce portava nella sua anima tutte le gioie del cielo. Egli aveva passato il suo braccio intorno alla [p. 122 modifica]sua taglia più svelta ancora che la parola svelta non può esprimere, ma la stoffa morbida e brillante del suo abito era sì scorrevole e lucida, che Anselmo credette accorgersi ch’ella poteva sdrucciolare sotto al suo braccio e sfuggirgli senza che gli fosse possibile di ritenerla; ed egli fremette a questo pensiero. “Ah! non lasciarmi, amabile Serpentina!” gridò egli involontariamente: “tu sola sei la mia vita! non lasciarmi.” Non prima ch’io ti abbia raccontato tutto quello che puoi comprendere nell’eccesso del tuo amore per me, “riprese Serpentina.” — Sappi dunque, oggetto adorato, che mio padre discende dalla razza maravigliosa delle salamandre, e ch’io devo l’esistenza al suo amore per la colubra verde.

“Nei tempi più lontani regnava sull’Atlantide il possente Fosforo, re dei Genii elementari. Un giorno il salamandro ch’egli amava più di tutti (era mio padre), passeggiava nel magnifico giardino che la madre di Fosforo aveva ornato dei suoi doni più preziosi, ed egli intese un fiore di giglio dir sotto voce: “Tieni i tuoi occhi ben chiusi, [p. 123 modifica]fino a che il mio amante, il soffio del mattino, ti svegli. “— Egli si avvicinò: percosso dal suo alito di fuoco, il fior di giglio aprì le sue foglie, ed egli vide la figlia del giglio la colubra verde, che sonnecchiava nel calice d’argento. Allora il salamandro si sentì preso da un violento amore per la bella colubra, ed egli la rapì al giglio, i cui profumi si spandevano vanamente in sospiri lamentevoli, e chiamavano per tutto il giardino l’amata sua figlia: giacchè il salamandro l’avea portata inseno a Fosforo e gli avea fatta questa preghiera. “Uniscimi alla mia amata affinchè essa m’appartenga per sempre.” — “Insensato! che domandi tu?” disse il re dei Genii, “sappi che il giglio fu altre volte la mia amata, e ch’essa regnò con me; ma il fuoco che io versai sopra di lei minacciò di annientarla, e la mia vittoria sul drago nero, che i Genii della terra tengono adesso incatenato, potè sola dare alle foglie del fior di giglio la forza di ricevere e di conservare nel suo seno quel fuoco divorante. Ma se tu stringi fra le tue braccia la colubra verde, il tuo ardore consumerà il suo corpo, e dalle sue ce[p. 124 modifica]neri uscirà un nuovo essere, che prenderà il suo volo, e ti sfuggirà per sempre.”

Il salamandro non ascoltò gli avvertimenti del re dei Genii; nell’eccesso della sua passione, egli strinse tra le sue braccia la colubra verde; essa fu ridotta in cenere, e da quelle ceneri uscì un essere alato, che fuggì fremendo per l’aria. La disperazione s’impadronì del salamandro, egli corse, gettando fuoco e fiamme, attraverso a tutto il giardino; la sua rabbia non si calmò finch’egli non lo ebbe devastato: consumati dal suo soffio ardente, i più bei fiori morirono sui loro steli riempiendo l’aria di gemiti. Mosso dalla collera, il re de’ Genii, prese il salamandro, e disse: “La rabbia del tuo fuoco è finita. — estinte sono le tue fiamme, acciecati i tuoi raggi, — cadi adesso, cadi presso gli spiriti della terra; essi t’inseguano colle loro beffe e ti ritengano prigione fino a che il principio del fuoco si risvegli in te e faccia brillare d’un nuovo splendore il tuo essere rigenerato. “Il povero salamandro spento cadde sulla terra, e allora il vecchio e burbero gnomo che era stato il giardiniero di Fosforo, venne a questo e gli disse: [p. 125 modifica]”Signore! chi più di me avrebbe da lamentarsi del salamandro? non aveva io ornato coi miei più ricchi metalli i bei fiori ch’egli ha consumati? non ho io sorvegliati e coltivati con cura i loro germi, non ho io speso pel loro abito i miei più ricchi colori? Con tutto ciò io m’interesso al povero salamandro, poichè l’amor solo, l’amore che tu stesso, o signore, hai sovente provato, lo ha portato a desolare nella sua disperazione il tuo bel giardino. Rivoca la tua sentenza troppo crudele! — “I suoi fuochi per ora sono estinti” riprese il re dei Genii, ma in quel tempo infelice in cui la voce della natura non sarà più compresa dalla razza degenerata degli uomini, in cui i Genii elementari, sbanditi e relegati nelle loro regioni, non parleranno più ai mortali che in suoni vaghi e misteriosi partiti da un’immensa lontananza; quando, strappato da questa sfera armoniosa, egli non ritroverà che in un desiderio senza limiti la memoria oscura ed incerta di questo regno meraviglioso ch’egli poteva abitare quando la fede e l’amore soggiornavano ancora nel cuore, — in quel tempo infelice il principio [p. 126 modifica]del fuoco si risveglierà nel salamandro, ma egli non potrà innalzarsi al di sopra della condizione dell’uomo, ed egli dovrà, accettando la vita miserabile dei mortali, gustarne anche tutte le amarezze. Ma egli non ritroverà soltanto la memoria della sua origine; egli ritornerà a vivere in una santa armonia colla natura, egli comprenderà le sue meraviglie, e disporrà della potenza dei suoi fratelli, i Genii. Ei ritroverà in un cespuglio di gigli la sua amata, la colubra verde, e i frutti di questa unione saranno tre figlie che verranno al mondo sotto la forma della loro madre. Nella primavera, esse giocheranno nel cupo fogliame del sambuco, e faranno udire le loro voci cristalline. Allora si deve trovare, in quell’epoca d’acciecamento fatale un giovane che comprenda i loro canti; se una delle piccole colubre lo guarda con occhio dolce, questo sguardo risveglierà in lui il presentimento della regione lontana e misteriosa alla quale il suo coraggio potrà sollevarlo, s’egli rigetta tutto quello che vi è in lui di comune: e se, nel suo amore per la colubra, egli trova una fede sincera ed ardente [p. 127 modifica]in queste meraviglie, la colubra sarà sua. Ma bisognerà trovare tre giovani simili, e ch’essi abbiano sposate le sue tre figlie, avanti che il salamandro si spogli della sua forma umana e venga a ritrovare i suoi fratelli.” — “Permetti, signore, “disse il vecchio gnomo,” che io faccia a ciascuna delle tre figlie un regalo, che abbellisca la sua vita e quella dello sposo che essa avrà trovato. Ciascheduna otterrà da me un vaso del più bel metallo ch’io possiedo, io li farò lucidi coi raggi rapiti al diamante; nel loro splendore si rifletterà la nostra meravigliosa patria, come essa è adesso, brillante, celeste, in armonia con tutta la natura; e dal suo interno dovrà innalzarsi al momento stesso della loro unione un bel giglio di fuoco, il cui fiore immortale spargerà i suoi profumi intorno al giovane adorato. Presto egli comprenderà la nostra lingua, e le maraviglie della nostra patria, alla fine egli stesso, colla sua amata sarà un abitante della fortunata Atlantide.

Tu sai benissimo adesso, caro Anselmo, che mio padre è lo stesso salamandro del quale ti raccontai la storia. Egli [p. 128 modifica]ha dovuto a malgrado della sua nobile origine sottomettersi a tutte le miserie della vita comune, e da ciò deriva l’umore bizzarro e malizioso di cui egli fa qualche volta provare gli effetti a quelli che lo circondano. Egli mi ha detto molte volte che per designare la tempra di spirito, che il re Fosforo esigette allora pei nostri sposi, si adopra oggi un’espressione, della quale per disgrazia la gente ha fatto un abuso ridicolo; egli si chiama spirito poeticamente infantile. — Spesso, egli dice, si è veduto questo spirito in giovani, che coll’alta semplicità dei loro costumi, e perchè essi mancavano assolutamente di quello che si chiama l’educazione del mondo, sono diventati la favola e il ridicolo della plebaglia. Ahimè! caro Anselmo... Ma tu hai compreso il mio canto sotto il sambuco — tu ami la colubra, — tu credi in me, tu vuoi essere mio per sempre! Il bel giglio fiorirà nel Vaso d’Oro; noi saremo uniti e felici, e abiteremo la bella Atlantide!

“Ma io non posso nasconderti che in un orribile combattimento contro le salamandre ed i gnomi, il dragone nero ha spezzate le sue catene, ed è fuggito, [p. 129 modifica]volando con gran romore. Fosforo, per verità, lo tiene incatenato di nuovo, ma dalle penne nere ch’egli perdette nella pugna, sono nati dei Genii malefici che si oppongono dappertutto alle salamandre ed ai gnomi. La donna, caro Anselmo, che t’insegue col suo odio e che (mio padre lo sa benissimo) aspira alla possessione del Vaso d’Oro, non deve la sua esistenza che all’amore d’una penna staccata dall’ala del drago per una barbabietola. Essa conosce la sua origine e sente il suo potere, poichè nei muggiti,e nelle contorsioni convulsive del drago incatenato, essa può leggere i secreti di molte costellazioni meravigliose, e non trascura nessun mezzo d’agire di dentro e di fuori, mentre mio padre le resiste in senso contrario colle fiamme che escono dall’interno della salamandriera. Essa riunisce tutti i principii malefici, tutti i veleni chiusi nelle piante e negli animali: essa li mischia sotto l’influenza d’una costellazione favorevole, e produce così degli infami maleficj, che gettano nello spirito il turbamento ed il terrore, e sottomettono l’uomo al potere di quei demoni nati dalla disfatta del dragone. Guar[p. 130 modifica]dati dalla vecchia, caro Anselmo, essa ti odia, perchè il tuo candore infantile ha più d’una volta fatto mancare i suoi sortilegj. — Siimi fedele, molto fedele, — la meta non è lontana!”

“O Serpentina! — mia Serpentina!” gridò lo studente Anselmo, “come potrei io non restarti fedele, come potrei non amarti eternamente?”

Un bacio di fuoco sfiorò le sue labbra; egli si risvegliò come da un profondo sonno. Serpentina era scomparsa, le sei sonavano, egli era afflitto di non aver copiato neppure una riga: inquieto di quello che direbbe l’archivista, ei getta gli occhi sulla pergamena, ed oh meraviglia! la copia del misterioso manoscritto era felicemente terminata, egli credette, guardandola più da vicino, egli credette avere scritto il racconto di Serpentina, delle disgrazie di suo padre, favorito del re Fosforo nel meraviglioso paese dell’Atlantide.

In quel momento entrò l’archivista Lindliorst, vestito del suo soprabito grigio chiaro, col cappello in testa ed il bastone in mano; egli percorse la copia d’Anselmo, pigliò una grande presa di ta[p. 131 modifica]bacco e disse sorridendo “Io me lo pensava! Ebbene! ecco lo scudo da sei franchi, signor Anselmo; adesso, andiamo, ai bagni di Link, seguitemi.

L’archivista attraversò rapidamente il giardino, nei quale, vi era un sì gran romore di canti, fischi e ciarle, che lo studente Anselmo ne fu stordito, e ringraziò il cielo quando fu in istrada. Appena avevano fatto qualche passo che incontrarono il registratore Heerbrand che si unì ad essi come una vecchia conoscenza. Davanti alla porta della città, essi empirono le loro pipe; il registratore si lamentò di non aver acciarino, ma l’archivista Lindhorst gridò involontariamente: “A che serve un acciarino? ecco del fuoco quanto ne volete!” A queste parole, egli scosse le dita e ne fece cader delle grosse scintille sulle pipe, che fumarono sul momento”. Vedete questo colpo di chimica ricreativa!” disse il registratore Heerbrand; ma non fu senza un secreto orrore che lo studente Anselmo pensò al salamandro. Ai bagni di Link, il registratore Heerbrand bevette tanta birra doppia, ch’egli, che era pur conosciuto per un uomo quieto e [p. 132 modifica]tranquillo, si pose a cantare con voce, aspra di tenore delle canzoni da studente, e a domandare a ciascuno con impeto s’egli era suo amico o non lo era, cosicchè alla fine bisognò che lo studente Anselmo lo riconducesse a casa, poichè l’archivista Lindhorst era scomparso da molto tempo.