Quattro Milioni/VI
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VI.
E senza perdere tempo montava in vagone e arrivava il giorno dopo nella città nativa.
Aveva ricevuta la partecipazione della morte di sua moglie in America, dove viveva assai miseramente, per aver dato fondo, in cattive speculazioni ed in bagordi, alle trentamila lire che la ex marchesa sua moglie gli aveva sborsate col patto espresso che se ne andasse fuori dei piedi.
Nella lieta speranza che ella non avesse dimenticato in morte chi le aveva obbedito docilmente in vita esulando fin in America, non aveva neppure aspettato di saper bene il tenore del testamento, ed era partito col primo piroscafo salpato da Nuova York.
Appena giunto, andò ad un alberghetto giù di mano, allo scopo di non lasciar sapere il suo arrivo ad anima viva, avendo in patria lasciati parecchi chiodi, che sua moglie non aveva riconosciuti, e tanto meno pagati.
Egli era ansioso di sapere come fosse stato trattato da Eleuteria. Tanto e tanto, a Nuova York non aveva saputo far fortuna, e aveva colto con entusiasmo il pretesto per rimpatriare.
Fatta pulizia, Stambecchi ordinò un brougham e si fece portare dal vecchio uomo d’affari ed esecutore testamentario di Eleuteria, don Felice Carnelli, e lo pregò di dirgli in che modo lo avesse trattato la moglie defunta.
L’esecutore testamentario, che gli aveva scritto un po’ tardi, veramente, a Nuova York, gli domandò se non avesse ricevuta la sua lettera. Alla risposta negativa di Stambecchi, si fece portare il copialettere e gliene comunicò il tenore: vale a dire notizia della morte, del testamento e della parte che gli era stata, per favore, assegnata, stante la perdita d’ogni suo diritto, per via della separazione.
— Dunque posseggo venti franchi al giorno vita natural durante? - sclamò Stambecchi, giubilando in cuore.
— Disgraziatamente - soggiunse don Felice, per qualche mese ancora bisognerà rassegnarsi a non intascar un centesimo.
— Perchè?
— Perchè i suoi gentilissimi creditori, che stavano con tanto d’occhi aperti, non appena donna Eleuteria fu morta e seppero che le aveva lasciato il legato giornaliero, si gettarono come avoltoj affamati sul lascito e lo coprirono di sequestri.
— E chi dovrà sborsarmi questi venti franchi al giorno, quando i miei creditori saranno pagati?
— L’erede, il conte Dario Bocca-Serena che abita nel palazzo Tricomo.
— Mio nipote? Bene! Sono contento; perchè se fosse stato qualche poffarbacco dei Rocca-Serena o dei Tricomo, mi avrebbe seccato assai.
— Quando è così - disse l’esecutore testamentario - ella è dunque pronto ad accettare il lascito di sua moglie senza beneficio d’inventario?
— Sì, sì, accetto, senza beneficio d’inventario. Diamine! Quanto ha lasciato mia moglie?
— Quattro milioni e mezzo.
Stambecchi die’ un balzo sulla sedia.
— Quattro milioni e mezzo? - sclamò - Che ladra d’un’Eleuteria! A me dava sempre a intendere di non possedere più di un pajo di milioni.
— Ma ella faceva economia. E poi ereditò dal vecchio conte la sua parte di legittima.
— E l’erede quanti anni ha?
— Non ha che due mesi.
— E se morisse?
— Se morisse, il testamento della contessa parla chiaro: in caso di morte del figlio del conte Dario mio erede universale, la sostanza andrà divisa fra i miei parenti collaterali, come se io fossi morta intestata.
— Ed io?
— Lei non avrebbe più nulla.
— Allora è meglio che viva. Ma nessun parente fece opposizione al testamento?
— Non l’avrebbero potuto. Donna Eleuteria era nel pieno suo diritto di disporre come più le pareva e piaceva delle proprie sostanze. Si credette infatti, sul principio, che un nipote volesse far causa, ma poi non se ne parlò più.
— Far causa con che titolo?
— Col pretesto che donna Eleuteria fosse un po’ matta.
— Sarà lui il matto! Mia moglie era sanissima di mente come di corpo. Dunque, allora, che cosa mi resta a fare a me?
— Le resta di accettare il lascito, dichiarando di esserne contento e obbligandosi a non cercar altro in giudizio.
Così dicendo, gli presentò l’atto da firmare.
Stambecchi lesse attentamente, poi firmò.
Uscì, rientrò in brougham e disse al cocchiere:
— Al palazzo Tricomo.
Il brougham, data una giravolta nella città, si fermò dinanzi alla casa da molto tempo conosciuta come palazzo Tricomo, e che era divenuta da poco casa Rocca-Serena.
Là egli aveva passato qualche anno, se non felice, nell’abbondanza, come marito di donna Eleuteria.
Come pratico di casa, senza guardar in viso il portinajo, montò a quattro a quattro i gradini dello scalone e tirò il campanello all’uscio ben noto di primo piano.
Ad aprirgli comparve un servo in gran livrea, a cui domandò:
— C’è Dario in casa?
Il servo lo squadrò, poi rispose:
— Il signor conte è ancora in letto.
— Dorme?
— Non credo. C’è gente.
— Ebbene, andate a dirgli che suo zio Stambecchi vorrebbe salutarlo.
Fu fatto entrare in un salotto, dove, lasciato solo. Stambecchi si mise a fare le sue riflessioni. In quel salotto, dove egli aveva appeso il cappello quand’era marito di donna Eleuteria, quante volte non aveva fatto aspettare i suoi creditori!
Il servo ricomparve poco dopo, invitandolo a passare nella camera da letto del signor conte.
— Ma sei proprio tu? - sclamò il Rocca-Serena, ergendosi a mezzo sui cuscini e aprendo le braccia a Stambecchi.
Questi si gettò al collo del conte e li si dettero due grossi baci per ciascuno. Poi Stambecchi si volse a salutare l’altro suo nipote, Cesare Vallieri, un’altra buona lana del loro stampo.
— Siediti e racconta - ripigliò il conte Dario.
— Tu piuttosto mi devi contare. Che vuoi che io ti dica di più interessante di quello che tu puoi dire a me? Io son venuto a sentire che cosa c’è di nuovo per me.
— Non hai ricevuta...?
— No, son partito subito - rispose Stambecchi interrompendo.
— Tua moglie t’ha lasciato venti franchi al giorno finchè vivi.
— Venti franchi! sclamò Stambecchi, fingendo una gran delusione. - In tutto e per tutto? Ladra d’un’Eleuteria! E l’erede sei tu, naturalmente?
— Povera zia! - disse il conte. - A Cesare ha lasciato centomila franchi in usufrutto.
— Se l’avessi saputo - ripigliò Stambecchi non mi sarei mosso di là. Io avevo una posizione brillantissima a Nuova-York.
— Dovevi aspettar la lettera dell’esecutore testamentario.
— Ma chi m’avrebbe detto che la Eleuteria mi dovesse tradire in questo modo?
— T’aveva promesso di più? - domandò il Vallieri.
— Quando si trattò di separazione e di andarmene da qui, mi promise che, se fosse morta prima di me, sarei stato se non ricco molto agiato.
— Eh, ma infine una rendita sicura di venti franchi, per un uomo solo, non è da buttar via.
— E gli altri parenti come furono trattati?
— Agli altri gonfia nugole zero via zero, zero! Il solo fortunato dopo me e dopo te, è qui il cugino Cesare.
— E tua moglie sta bene?
— Benissimo. Credo sia uscita.
— E l’erede?
— Perfettamente. Oggi vieni a pranzo da noi, che te lo farò vedere. Ti troverai in buona compagnia. Tutta gente alla mano. Una olla podrida di tutte le razze.
Quel dialogo durò qualche ora; gli argomenti non mancavano.
Quando suonò il tocco, un servo entrò ad annunciare al conte che la carrozza era attaccata secondo l’ordine ricevuto alla mattina.
— Adora mi levo. Noi siamo intesi. Per l’una e mezzo debbo essere ad un appuntamento. A rivederci alle sei.
Stambecchi e Vallieri uscirono.
Alle sei stringeva la mano alla contessa Annetta nella gran sala del palazzo Tricomo.
La moglie del conte Dario, ex-ballerina che Imene aveva strappata al palcoscenico, era piuttosto bella, e in casa, come si dice, portava i calzoni.
S’era fatta sposare dal conte, quando le speranze erano ancora verdi. Alla morte del conte Asdrubale, padre di suo marito, ella era rimasta con un palmo di naso.
La zia Eleuteria, conoscendo il mal della bestia, aveva stabilito di dare a suo nipote i venti franchi ogni giorno, ma di non far cumulo neppure d’un giorno.
A lui toccava di andarli a prendere tutte le sere dell’anno, se voleva mangiare il giorno dopo. Se non si lasciava vedere, perdeva la sua tangente, perchè la zia non ammetteva arretrati.
— È segno che ne ha - diceva.
L’Annetta, un giorno ch’egli non poteva muoversi perchè soffriva a un piede, andò dalla zia Eleuteria per farsi dare la piccola somma. Questa le fece festa, le regalò un abito di velluto smesso, la esortò a diventar madre di un piccolo Rocca-Serena, ma le negò i venti franchi, perchè non aveva portata la fede del medico.
— Siamo intesi che deve venir lui! Cosi imparerà a star sano!
L’Annetta, a dispetto dei milioni, era sempre la ballerina quale l’avevano fatta i parenti rozzi e i tramagnini del palcoscenico.
In casa Rocca-Serena venivano persone di ogni classe e di ogni risma. Era un vero caravanserraglio. Venivano gli amanti, i parenti, gli amici di lei; i parenti e gli amici di lui; i parenti e gli amici comuni. Sì dell’una parte che dell’altra il volgo era misto alla borghesia e all’aristocrazia senza boria. Si trovavano confusi in quei saloni, attirati da sentimenti, da interessi, da passioni diverse.
I parenti di Dario, che prima non avevano ricevuta nè visitata la contessa, dacchè ella era diventata milionaria avevano rimesso assai della loro fierezza, e lasciavano che i giovani di casa andassero a trovare la zia ex-ballerina per aver nuove sicure della salute del bimbo, morto il quale l’eredità sarebbe tornata a tutti loro, secondo il testamento.
E siccome verso le undici si apriva il banco del macao o del lansquenet, essi accorrevano volentieri.
C’era infine per essi una terza attrattiva, ed erano le amiche ballerine che l’Annetta continuava a ricevere in casa, godendo di trovarsi ricchissima nel suo ambiente e di sentirsi adulata, corteggiata, esaltata da quelle che l’avevano trattata per tanto tempo da uguale.
In casa Rocca-Serena c’era dunque il lasciar correre, il bando assoluto all’etichetta e alla musoneria, che piace tanto ai giovani di oggidì.
Talvolta, se a lei saltava il grillo, invitava i commensali a andar dopo pranzo in massa a qualche teatro popolare. Mandava a pigliar i palchi e ci si recavano in fretta a piedi; e si rideva assai.
Se era d’estate, tornando dal teatro, ell’era capace di fermarsi dinanzi a qualche baracca, dove si vendevano i cocomeri al taglio, e invitava la comitiva a mangiare a bere e a lavarsi la faccia.
Uno strano tipo di contessa milionaria insomma.
Ma, colla sua pronuncia spaccata del nativo dialetto, ch’ella non era mai riuscita a smettere, con certi suoi cristi! e certi suoi accidenti! che il conte Dario non era mai stato capace di farle abbandonare, in lei c’era in fin dei conti più la ballerina che la contessa.
Stambecchi si vide venir incontro suo nipote Dario, che lo condusse dinanzi a sua moglie dicendole:
— Guarda un po. Lo conosci?
— Oh Vergine Maria! - sclamò la contessa, a cui il marito non aveva ancor detto nulla per farle l’improvvisata - Lo zio Stambecchi!
E, per un modo acquistato fin da fanciulla, e dal quale, per quanto il conte gliene avesse detto, non s’era mai divezzata del tutto, fece un piccolo movimento, come per alzarsi dalla sedia.
Suo marito le appoggiò una mano sulle spalle e la tenne a suo posto sulla poltrona.
Era quello il solo caso, in cui ella si lasciava dominare da suo marito.
Stambecchi le si sedette accanto e avviò con lei una conversazione insignificante, finchè il servo entrò annunciando che la tavola era servita.
— Qua qua, zio, vicino a me - gli disse la contessa sedendosi per la prima a suo posto, senza far complimenti. Stambecchi si trovò dunque fra lei e una bella ragazza, reduce da Berlino, dove aveva ballato nel carnevale.
n conte si era cacciato in fin di tavola, tra sua suocera, la madre di Annetta e un’altra ballerina. Vicino alla padrona di casa, dall’altra parte. Stambecchi vide il cavaliere Travaglianti, ch’egli aveva conosciuto in illo tempore in basse acque anche lui, ma che ora pareva in assai buon arnese. Del resto, tutta gente sconosciuta. In casa Rocca-Serena non si facevano presentazioni.
Alle frutta, Stambecchi vide comparire la balia col principe ereditario in fasce, il bambino dalla cui vita o morte dipendeva la maggior o minor fortuna di parecchie persone e sopratutto la sua.
Egli si sentì portato verso di lui da un sentimento fortissimo di simpatia e di tenerezza, e lo trovò bello e somigliantissimo all’Annetta.
Proprio tutto sua madre! - disse dopo averlo baciato e ribaciato fino a farlo strillare.
— E come ha nome?
Eleuterio, diamine! Il nome della zia.
Povera Eleuteria!
— Ah sicuro! è giusto. O bambino - disse poi fra sè - guarda bene a non farmi l’orribile burletta di morir prima del tempo!
Egli, che osservava tutto coll’occhio interessato, s’era accorto che la madre non lo doveva amare svisceratamente, il piccolo Eleuterio, e se ne dolse. Infatti l’Annetta, che stava parlando a sinistra del cavaliere Travaglianti, quando la balia entrò, non alzò la testa, non sorrise, non badò a suo figlio, se non quando proprio non potè farne a meno, quando cioè la balia glielo ebbe posto sotto il naso.
— Essa non l’ama! - pensò Stambecchi. Questo è un gran male!, Non ne avrà cura come si deve! E dire che i miei venti franchi al giorno stanno attaccati alla vita di questo marmocchio!
Eleuterio era bruttino, bruttino. A Firenze l’avrebbero detto un camorro. Tutta la comitiva però, compreso Stambecchi, lo proclamava perfetto e gli faceva intorno la litania delle adulazioni.
Le due ballerine, amiche di Annetta, lo baciucchiarono tanto, che Eleuterio cominciò a strillare, e allora fu mandato via.
n conte beveva come un otre; suo cognato lo imitava; Stambecchi non stava indietro dei due, e Cesare Vallieri li seguiva davvicino.
Partito il marmocchio, i commensali che s’eran levati in piedi andarono rimescolandosi. La contessa era attorniata da tre giovinetti che le dicevano delle mezze laidezze, di cui ella rideva sgangheratamente. In un angolo della sala, una delle due ballerine, in piedi, parlava sotto voce con Vallieri, che l’aveva incantonata là a sentir le sue ragioni e pareva non la volesse lasciar libera tanto presto. La sua compagna, lasciata sola, rodeva i chiavistelli per l’invidia, mentre la mamma rugumava il pranzo e quasi già si appisolava.
Un servo entrò ad annunciare che il caffè era servito in salone.
Tutti allora si levarono e passarono nel salone.
— Dunque, raccontami un poco la tua vita laggiù. - disse il conte Dario a Stambecchi, pigliandolo per un braccio - che poi io ti racconterò la mia.
Stambecchi cominciò a infilzar panzane e a piantar carote tanto fatte, per far credere a suo nipote ch’egli laggiù stava benone.
Ma l’altro lo ascoltava distratto. Si capiva ch’egli aveva in mente qualchecosa che gli dava fastidio; non era più quello d’una volta. Si vedeva che gl’importava poco o nulla di saper i fatti di suo zio.
Questi se n’accorse subito, e diede al suo racconto un buon taglio.
— Ora a te - disse poi.
— Eh, caro mio - esclamò il conte con un sospiro dove sono andati mai que’ bei tempi tranquilli?
— Come, come! - sclamò Stambecchi - Tu milionario rimpiangi i tempi dei venti franchi al giorno?
— Io sì. Non lo crederai, ma li rimpiango.
— Ma perchè?
— Eh perchè! Perchè. Tu non sai che vogliono intentarmi la causa per nullità di testamento?
— Davvero? - sclamò Stambecchi, fingendo di non saper nulla. - Chi?
— Mio zio Gabriele Rocca-Serena. Me lo ha detto Cesare Vallieri.
— Ma su che pretesti?
— Sul pretesto che la Eleuteria fosse matta.
— Oh, la vedremo! - sclamò Stambecchi - Vecchio birbante!
— Tu potrai essere buon testimonio ch’ella non aveva neppur l’idea della pazzia.
Era un po’ originale, ma tutt’altro che pazza!
— Tu sei uno dei migliori interessati a non lasciare che il testamento si muti; giacchè se per caso s’avesse a dichiarare nullo, saresti il solo che ci perderebbe ogni cosa, perchè eri separato da lei.
— Lo so pur troppo! Ma non ci riusciranno. Guardati anche da Vallieri.
— Io penso, per schivare la lite, di venir a una transazione. Offro trecentomila lire da dividersi fra loro. Se sono contenti, bene; se no, si andrà in tribunale.
— Mi paion troppi! Io se fossi in te non darei loro un centesimo. Se son capaci di provare che Eleuteria era matta, io proverei facilmente che sono matti anche loro.
— Però diciamolo. Delle grandi pazzie ne faceva tua moglie!
— Era bizzarra, non dico. Ma dalla bizzarria alla pazzia, necessaria per render nullo un testamento, ci corre. Sta duro, dà ascolto a me. Piuttosto, se vuoi far qualche cosa, fallo per me.
— Oh appunto - disse il conte - saprai forse che i tuoi creditori...
— Si, lo so.
— Domani vieni qua, parlerai anche con mia moglie che vuole saper tutto e veder tutto. E andrai d’accordo con lei per la tua posizione. Tu sarai scortato, spero.
— Eh no, pur troppo! A Nuova York non ho potuto realizzar nulla.
— Bene, domani intenditi con lei.
Il giorno dopo, Stambecchi alle due entrava nel salotto dove la contessa Bocca-Serena lo stava aspettando, col suo intendente.
Dario non c’era. Era scappato per non sentir parlare di affari, che lo seccavano.
Annetta pareva tutt’altra donna. Era in sussiego.
— Mio marito mi ha detto che lei sarebbe venuto oggi per regolare la sua parte di eredità?
Dario ti ha parlato d’un certo piccolo aumento ch’egli è disposto a concedermi?
— Me ne ha parlato, ma io gli ho risposto che è matto.
— Ah, tu ti opponi? - sclamò Stambecchi.
— No: rispetto l’ultima volontà di sua moglie!
In questo frasario, non da ballerina. Stambecchi vide la imbeccata dell’ometto che le stava al fianco.
— Tuo marito era di avviso anche lui che mia moglie mi avesse trattato un po’ da lesina lasciandomi soli venti franchi al giorno, dopochè io l’avevo obbedita andando fin in America. Anzi fu Dario il primo a dirmi che avrebbe aumentato.
— Mio marito già, lei lo sa prima di me in fatto di affari è sempre stato un baggiano.
— Permettimi, cara nipote, di dirti che in questo caso io lo trovi un grand’uomo.
— Lo credo - disse Annetta - ma insomma non si può, non si può, e non si può. Bisogna che lei pensi che la sostanza non è nostra, ma di mio figlio, e noi non possiamo cambiare le disposizioni del testamento.
Stambecchi capì che la insistenza non sarebbe valsa a nulla, e domandò notizia dei suoi creditori.
— Parli lei adesso - fece Annetta, rivolta all’intendente.
Il signor Gerolamo in quel punto aveva cavato di tasca il moccichino di cotone, aveva strisciato col polpastrello dell’indice sull’orlatura per cercare il ritto, e stava per soffiarsi il naso.
— Se vuol passare in istudio, le mostrerò la sua posizione.
Era il signor Gerolamo un omino dal viso color di avorio vecchio, con due pomelli cremisini e rotondi sui zigomi, come se li fosse fatti col piumino del belletto. Aveva i capelli cimati in giro, e incollati sulla pelle della fronte, da farlo credere in parrucca. Le làppole flosce gli cadevano sugli occhietti senza malizia, e dicevano chiaro ch’egli non era un repubblicano, nè un libero pensatore.
— Lei deve avere il conto di mille duecento franchi, se non erro - disse il signor Gerolamo a Stambecchi, — Saranno mille duecento venti, se le piace - rispose Stambecchi - giacchè il mese scorso fu di trentuno.
— Lei ha ragione - disse l’intendente. - Il cassiere avrà già pensato certo meglio di me a questa piccola differenza. Infatti la somma pagata ai creditori che avevano messo il sequestro sul legato di Stambecchi era di mille duecento venti.
Il cassiere non fece che rilasciarle ricevute, e Stambecchi se ne dovette andare senza riscuotere un soldo.
E n’aveva per dieci mesi ancora, e non aveva in tasca che cinquanta lire.
— Come si vive, intanto? - si domandò il valentuomo, avviandosi a piedi verso l’albergo; giacchè oramai non aveva più paura di incontrar i suoi creditori, ai quali avrebbe potuto squadernar sotto il naso le ricevute di pagamento. - Bisognerà che Dario mi tenga a pranzo, finchè io non abbia pagati tutti i miei creditori.